Mandžukić

Mario Mandžukić è stato brutto, sporco e cattivo

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Se avesse visto il suo aspetto, la sua personalità e il suo modo di giocare, Ettore Scola avrebbe probabilmente arruolato istantaneamente Mario Mandžukić per il suo capolavoro del 1976 ‘Brutti, sporchi e cattivi‘, in cui l’attaccante avrebbe potuto interpretare senza problemi uno dei ruoli della famiglia Mazzatella. Purtroppo per lui – oltre che per noi –, il croato nascerà solamente dieci anni dopo l’uscita del film.


I primi calci al pallone, tra Germania e Croazia

Precisamente nasce a Slavonski Brod, in Croazia, il 21 maggio 1986, ma calcisticamente non muove lì i suoi primi passi, perché, come moltissime delle storie slave degli anni Novanta, anche la sua inizia con una fuga dalla propria terra, uno sradicamento fisico dalle proprie radici, per sfuggire alle sanguinose guerre che falcidiavano i Balcani in quegli anni e alle disastrose conseguenze che si ripercuotevano sui civili.

I Mandžukić, quindi, decidono di scappare in Germania, nel Baden-Württemberg, a Ditzingen, a circa venti chilometri dalla capitale Stoccarda, e il giovanissimo Mario inizia a giocare nelle giovanili della squadra della città.

Dopo quattro anni, a guerra conclusa ed indipendenza croata ottenuta, la famiglia Mandžukić torna a casa, e Mario può finalmente giocare nella primavera del Marsonia, la squadra della sua città natale, nonché la squadra che lo fa debuttare tra i professionisti, nella seconda divisione croata.

Il ragazzo, appena maggiorenne, non è ancora calcisticamente formato, e gioca molto indietro rispetto alle posizioni che occuperà principalmente nella sua carriera, più a centrocampo che in attacco. Gli piace lottare in mezzo al campo e recuperare palloni, e sviluppa un’elasticità tattica che nel corso della sua carriera gli tornerà molto utile. Nonostante la posizione occupata, lascia intravedere delle importanti doti realizzative: alla sua prima stagione, infatti, segna 14 gol.

In patria si inizia a parlare di lui, viene anche chiamato nell’Under-19 della Nazionale croata e anche lì mostra il suo talento. Le sue prestazioni fanno rumore, Mario spicca sugli altri giocatori, e nel 2005 si trasferisce all’NK Zagabria, la meno nota, ma più vecchia, squadra della capitale. A Zagabria debutta nella prima divisione croata ed inizia a giocare stabilmente da prima punta. Nelle due stagioni con la maglia dei Pjesnici realizza 17 gol in 58 presenze.

Nel 2008 la carriera di Mandžukić fa un ulteriore passo in avanti quando viene acquistato dalla Dinamo Zagabria, prima squadra della capitale e del Paese. Nello stesso anno, dopo aver giocato ed esser andato in gol con l’Under-20 e 21, viene convocato dalla Nazionale maggiore, e anche lì ci mette poco a lasciare il suo timbro.

Nei tre anni alla Dinamo diventa ancor più implacabile sotto porta, mettendo a segno 63 reti in 128 gare e collezionando nel palmarés i suoi primi trofei, tutti nazionali: tre campionati, due coppe e quattro supercoppe.


Il ritorno in terra tedesca

Mandžukić ha gli occhi di mezza Europa addosso, e nel 2010, come aveva fatto da bambino, decide di lasciare la Croazia per la Germania. Ad attenderlo c’è un clima più rigido, dato che Mario si trasferisce nel nord della Nazione, in Bassa Sassonia, precisamente nella città di Wolfsburg.

Ad accoglierlo c’è il tecnico Steve McClaren – ex CT dell’Inghilterra –, che, nonostante la consacrazione in Croazia sia avvenuta da prima punta, lo schiera spesso sulla fascia, come esterno d’attacco e di centrocampo, perché, secondo il tecnico inglese, soffre la concorrenza di Edin Džeko, altro attaccante roccioso classe ’86 proveniente dall’est-Europa, che però porta già con sé una maggiore esperienza. Nonostante le scelte di campo, tra i due nascerà una buona amicizia, e viaggiando un po’ con la fantasia, sarebbe stato molto bello, calcisticamente parlando, vederli giocare insieme, per la stessa nazionale, al massimo dello splendore delle loro carriere, ma dobbiamo accontentarci di sei sbiaditi mesi in quel di Wolfsburg.

La confusione sulla panchina dei Wölfe è considerevole, e a poche gare dal termine c’è il serio rischio di retrocedere. Per evitare questo disastro il club richiama Felix Magath, l’eroe che due anni prima aveva miracolosamente portato i Lupi a vincere il campionato.

Il tecnico tedesco sarà fondamentale per la crescita temperamentale di Mandžukić, sarà infatti in quegli anni che svilupperà la sua dedizione assoluta alla professionalità e temprerà il suo carattere, rude e scontroso, ma sempre e solo al servizio del gioco e della squadra. Saranno infatti rarissime in carriera le espulsioni per non esser riuscito a contenere la sua bruschezza, nonostante non si sia mai tirato indietro, quando c’era da lottare.

Oltre a smussarlo caratterialmente, Magath torna a far giocare Mandžukić come punta, e questa scelta frutta sin da subito dei riscontri positivi: Mario, che fino a quel momento aveva segnato solo una rete, realizza sette gol in sei gare e trascina il Wolfsburg alla salvezza. La mano di Magath si fece decisamente sentire.

Nella stagione successiva Mandžukić segna 12 gol e serve 10 assist ai compagni, dimostrandosi una punta completa e terribilmente efficace, tra le migliori al mondo nel colpo di testa. Il Wolfsburg chiude l’anno all’ottavo posto, ma la sua avventura con i biancoverdi finisce lì, perché in Baviera si sono accorti di lui, e il Bayern Monaco decide di acquistarlo.

Ancora una volta, come in Croazia, Mario sale un altro gradino, arrivando al top, e questa volta entra a far parte di una squadra che rappresenta l’élite europea, dalla quale si distaccherà solo sul finale di carriera.


Il successo internazionale

Nell’estate del trasferimento al Bayern, disputa la sua prima competizione internazionale con la Croazia, l’Europeo del 2012. La sua Nazionale, però, è parecchio sfortunata nel sorteggio, ed è costretta ad affrontare un girone in cui ci sono Italia e Spagna, ovvero quelle che si riveleranno le finaliste del torneo. La vittoria con l’Irlanda e il pareggio con l’Italia non bastano: la Croazia esce ai gironi, ma lo fa a testa altissima. Mandžukić segnerà tre dei quattro gol croati, risultando capocannoniere a fine torneo, nonostante le poche partite giocate, a pari merito però con altri cinque giocatori.

L’acquisto del croato, nelle idee del Bayern, nasce dall’esigenza di arruolare in squadra una riserva per Mario Gómez, ma nel corso della stagione, anche a causa dei problemi fisici del tedesco, Mario riuscirà a superarlo nelle gerarchie di mister Jupp Heynckes e a divenire la punta titolare. La sua prima annata in Baviera è praticamente perfetta: mette a segno 22 gol e vince tutto quello che c’è da vincere. Conquista il treble, il primo nella storia del calcio teutonico, vincendo la sua prima Bundesliga, la sua prima Coppa di Germania, e soprattutto la Champions League, dopo aver battuto in finale il Borussia Dortmund di Jürgen Klopp, gara nella quale segna il primo gol dei bavaresi, prima della seconda e decisiva rete di Arjen Robben.

Il capolavoro della prima stagione lascia però il posto alla rivoluzione societaria operata da Pep Guardiola. Come spesso accade, l’arrivo del tecnico catalano in un nuovo club prevede lo spodestare completamente giocatori altrimenti intoccabili. Successe al Barcellona con Ronaldinho, succederà al Manchester City con Yaya Touré, e al Bayern fu Mandžukić ad esserne vittima. Per la dirigenza, però, il croato è un giocatore troppo importante, e decidono di tenerlo in rosa.

Mandžukić prova in tutti i modi ad adattarsi alla filosofia di Guardiola, e sul campo i numeri parlano a suo favore, segna anche più dell’anno precedente, ma il feeling con l’allenatore non scatterà mai, e le cose precipiteranno nel finale di stagione. L’attaccante croato, in un’intervista rilasciata dopo l’addio al Bayern, accusò Guardiola di mancanza di rispetto nei suoi confronti. I motivi furono principalmente due: il non averlo convocato per la finale di Coppa di Germania, e l’averlo lasciato in panchina nelle ultime giornate di campionato – con il Meisterschale già in bacheca – solo per impedirgli di vincere il titolo di capocannoniere. Il caso vuole che il miglior marcatore stagionale, con due reti in più, sarà Robert Lewandowski, il giocatore che lo sostituirà.


La parantesi all’Atlético e la prima stagione alla Juventus

Mandžukić fa quindi le valigie e si trasferisce all’Atlético Madrid, alla corte del Cholo Simeone. Debutta e segna subito con i Colchoneros, decidendo il derby contro il Real Madrid nella Supercoppa di Spagna. Le premesse per fare bene ci sono tutte: il cholismo, al contrario del tiki-taka guardiolano, è una filosofia di gioco nella quale il croato può dare il suo massimo, ma l’annata non va come ci si poteva aspettare, l’Atlético è infatti protagonista di una stagione mediocre. Mandžukić realizza comunque 20 gol e si conquista l’apprezzamento dei tifosi, soprattutto grazie alle battaglie senza esclusione di colpi con Sergio Ramos durante i derby madrileni.

Mario, però, non rientra tra gli incedibili per la dirigenza, e dopo un’offerta reputata giusta per lui viene ceduto. Ad acquistarlo è una squadra italiana, la Juventus.

Così come con l’Atlético, debutta segnando e vincendo la Supercoppa nazionale, insieme al suo compagno di reparto e anch’egli nuovo arrivato Paulo Dybala, con il quale costruirà sul campo un feeling particolare, oltre che con l’allora ventiduenne Paul Pogba, che gli fornirà diversi assist nel corso della stagione.

Le premesse, ancora una volta, risultano beffarde. In campionato le cose non si mettono per niente bene. Dopo dieci giornate la squadra di Massimiliano Allegri ha collezionato tre vittorie, tre pareggi e quattro sconfitte. Alla decima giornata, dopo la débâcle contro il Sassuolo, sono davvero in pochi quelli che credono che la Juventus possa raggiungere la vittoria finale. Mario, complice anche un infortunio, segna appena un gol, il suo primo in Serie A, nella vittoria contro l’Atalanta, e, come tutta la rosa, sta deludendo le aspettative.

Ma qualcosa cambia. I veterani prendono in mano la squadra e nella partita successiva, quella del Derby della Mole contro il Torino, la Juventus vince con un gol di Juan Cuadrado al 94′. Da quel momento fino alla trasferta di Firenze, che regalerà lo scudetto ai bianconeri, la Juventus non perderà nessuna gara, e anzi, ne pareggerà solo una contro il Bologna, compiendo una rimonta insperata e miracolosa. Mario Mandžukić, nonostante qualche altro problema fisico che lo limiterà nel corso della stagione, sarà uno dei protagonisti di questo miracolo, mettendo a segno 13 gol e diventando un giocatore tatticamente imprescindibile per Max Allegri.

In Champions Mandžukić segna sia nella gara d’andata che in quella di ritorno contro il Manchester City, salta l’ultima gara del girone per influenza e la Juve crolla a Siviglia, passando clamorosamente il girone da seconda e incontrando subito una big agli ottavi, il Bayern Monaco. Mario sente molto questa sfida, in cui affronta i suoi ex compagni e soprattutto il suo ex allenatore Pep Guardiola. Vuole aiutare i bianconeri a vincere.

Nella partita d’andata, giocata a Torino, la Juventus è sotto di due reti dopo la prima ora di gioco, ma la Vecchia Signora, presa sulle spalle dal suo numero diciassette, non si arrende, e trova prima l’1-2 di Dybala, su una grande imbeccata di Mandžukić, e poi il 2-2 con un gol a sorpresa di Stefano Sturaro, e in questo caso il croato confeziona l’hockey pass dell’azione. Mario, che rientrava da un problema muscolare che gli aveva fatto saltare cinque gare di campionato, è il trascinatore assoluto della Juventus, lotta come un leone per novanta minuti e non si risparmia mai quando c’è da battagliare, per conferme citofonare Robert Lewandowski.

Ventuno giorni dopo, all’Allianz Arena di Monaco, si gioca il ritorno. La Juventus arriva alla gara orfana di Chiellini – che verrà convocato, ma resterà in panchina –, Marchisio e Dybala, e con un Mandžukić a mezzo servizio, visto che, nei giorni precedenti alla gara, aveva riscontrato dei problemi muscolari. Per questo motivo, Allegri decide di tenerlo in panchina, e inserirlo al massimo a gara in corso se sarà necessario.

I bianconeri, disegnati tatticamente da Allegri con un 5-4-1 e trascinati da un Morata in forma smagliante, giocano sessanta minuti perfetti. Trovano due gol, il primo con Pogba e il secondo con Cuadrado, e hanno tantissime occasioni per chiudere definitivamente la gara, che però non vengono sfruttate.

A mezz’ora dalla fine il Bayern inizia a spingere insistentemente, si fa sentire sempre di più e prova a riaprirla. Sul 2-0 per la Juve, Allegri, preoccupato dal fatto che la squadra si stesse arroccando troppo in difesa, inserisce Mandžukić per tenere su la palla, ma il risultato non è quello sperato. Mario, quasi per indole, oltre che per una condizione che non è delle migliori, si schiaccia sulla linea dei centrocampisti e di conseguenza gli avversari alzano il loro baricentro, diventando sempre più pericolosi, fino a quando non trovano il gol dell’1-2 con Lewandowski al 73′.

La Juventus prova a resistere nell’ultimo quarto d’ora, ma nel recupero arriva il gol di Thomas Müller, che porta la sfida ai supplementari. I torinesi, stanchi fisicamente e psicologicamente, crollano sotto i colpi di Thiago Alcántara e dell’ex Coman, e vengono eliminati dalla competizione.

L’estrema delusione di Mandžukić, come testimonierà Allegri anni dopo, si manifesta prepotentemente nelle settimane a seguire. Mario si sente l’assoluto responsabile della sconfitta, diventa improvvisamente più silenzioso del solito e si isola dal gruppo all’interno dello spogliatoio, come per volersi punire. In pochi mesi si era creato un grande affetto tra lui, i compagni e i tifosi, e il pensiero di averli delusi lo straziava. In questi eventi viene fuori tutto l’animo tsundere, come si direbbe nei manga, del croato. Risponderà sul campo, nelle ultime gare del campionato, ma questa, per lui, rimarrà a lungo una ferita complicata da rimarginare.


I successi italiani e la doppia beffa merengues

Nella stagione successiva, alla Juventus arriva Gonzalo Higuaín, fresco di record di gol segnati in una singola stagione di Serie A, nonché giocatore che rappresenta in quel momento il trasferimento più costoso nella storia della Juventus e della Serie A, e questo porta Mandžukić ad avere, almeno inizialmente, un ruolo più marginale all’interno dell’attacco bianconero. Allegri non può tenere fuori una macchina da gol come l’argentino, ma allo stesso tempo il croato è troppo importante per stare in panchina: Mandžukić si sacrifica, ma non si può sacrificare. Per farli convivere, il livornese si inventa un 4-2-3-1 in cui Higuaín fa la punta e Mandžukić torna a ricoprire, dopo diversi anni, il ruolo di esterno sinistro d’attacco. Questa geniale mossa tattica rappresenta la chiave di volta per la Juventus, che con i due, Dybala e Cuadrado – o Dani Alves – forma un attacco tatticamente perfetto.

In questa posizione il croato riduce il numero di gol rispetto alla stagione precedente – andrà comunque in doppia cifra –, ma le sue lotte in mezzo al campo, i suoi recuperi in difesa, la sua corsa instancabile sulla fascia, il suo peso specifico in area di rigore, il suo pressing asfissiante sui difensori, la sua tenacia e la sua immensa leadership, lo rendono il giocatore più importante dello scacchiere bianconero per i meccanismi di gioco allegriani.

La squadra rivince il campionato, rivince la Coppa Italia, e arriva in finale di Champions League, dopo aver sfoderato prestazioni epiche, su tutte la vittoria per 3-0 contro il Barcellona di Leo Messi.

In quel di Cardiff, però, la Juve casca ancora una volta in quella che è la propria storica maledizione. Il primo tempo illude i bianconeri: gli ispanici passano in vantaggio con il solito Cristiano Ronaldo, ma Mandžukić pareggia i conti, segnando in rovesciata un gol clamorosamente bello – diventando uno dei tre calciatori, insieme al già citato Ronaldo e a Velibor Vasović, ad aver segnato con due squadre diverse in una finale della massima competizione europea. La squadra bianconera sembra essere in partita. Nel secondo tempo, però, complici dei possibili dissidi interni venuti fuori negli spogliatoi e un Cristiano Ronaldo semplicemente ingiocabile, la Juve viene travolta con un clamoroso 4-1.

La terza stagione bianconera di Mandžukić, vissuta ancora principalmente da ala e solo parzialmente da punta, è una stagione di costanti. Vince ancora il campionato e vince ancora la Coppa Italia, ma la costante delle vittorie nazionali, accompagna quella delle delusioni europee, con il croato sempre protagonista e trascinatore di una squadra che quando esce dai propri confini sembra non riuscire a dare il proprio massimo.

In Champions League, infatti, è ancora vittima del Real Madrid di Cristiano Ronaldo, questa volta ai quarti di finale. Dopo un sentenzioso 0-3 all’andata – partita nella quale CR7 segna probabilmente il gol più bello della sua carriera –, la Juve rischia di fare il miracolo al Bernabéu, ma perde la qualificazione tra le polemiche all’ultimo minuto, con un rigore del numero sette dei Blancos, per l’1-3 finale. In quella gara, studiata in maniera perfetta da Allegri, Mandžukić fu il leader offensivo della squadra, capace di umiliare sulla sua fascia Dani Carvajal – uno dei perni assoluti del Real di Zidane. Sono infatti suoi i primi due gol della squadra torinese, che però risultano ancora una volta illusori.



Il Mondiale in Russia e l’ultima annata bianconera

In estate arriva per lui e per i suoi compagni di Nazionale l’occasione che non si può sprecare: la talentuosa generazione croata di Modrić, Rakitić, Perišić e Mandžukić è arrivata probabilmente all’ultima grande chiamata, quella dei Mondiali di Russia 2018. È importante rendere orgogliosi i quattro milioni di croati presenti nel Paese e fare una buona figura, ma nessuno si sarebbe mai aspettato una spedizione così memorabile.

La Croazia inizia il suo Mondiale in un girone per niente semplice, dove però ottiene tre vittorie, contro la Nigeria, l’Islanda e soprattutto l’Argentina di Lionel Messi, che viene spazzata via con un netto 3-0. Nel prosieguo del percorso battono prima la Danimarca e poi i padroni di casa della Russia ai calci di rigore, e il destino sembra simile anche per la semifinale contro l’Inghilterra, che però viene risolta da un gol ai tempi supplementari di Mario Mandžukić, che porta la Croazia a giocare la prima finale della propria storia.

Capire cosa significhi questo per un popolo appartenente ad un paese così piccolo e che ha visto la propria Nazionale, dopo l’exploit inaspettato del ’98, eliminata ai gironi dei Mondiali 2002, 2006 e 2014, con in mezzo la non qualificazione del 2010, è praticamente impossibile. Quello che riuscì a fare quella squadra, prima ancora della finale, è inspiegabile, molto più di un semplice traguardo sportivo. I croati erano uniti come mai lo erano stati prima.

La finale vedrà la Francia vincere il suo secondo Mondiale, ma, al di là della banale retorica, l’orgoglio provato dai croati per la propria squadra resta intatto anche dopo il triplice fischio, assieme all’incommensurabile felicità che accompagna il raggiungimento di un obiettivo così prestigioso, ad un soffio da uno ancora più grande, e forse irraggiungibile.

In quella partita finita 4-2 per i Galletti, Mandžukić segna, quando ormai è troppo tardi, il suo trentatreesimo e ultimo gol con la maglia a scacchi, diventando il secondo goleador di sempre della sua Nazionale, dopo Davor Šuker, e il quinto giocatore, dopo Puskás, Czibor, Müller e Zidane, a segnare sia in una finale di Champions che in una dei Mondiali.

Nel frattempo, a Torino, la Juve porta in bianconero quello che per anni è stato il suo peggior incubo: Cristiano Ronaldo. Con la partenza di Higuaín verso Milano, il croato si rivela un partner essenziale per il portoghese, e un elemento importante in area di rigore, decidendo spesso le partite contro le big del campionato italiano. Al termine dell’annata arriverà “solo” lo scudetto, il suo quarto consecutivo, e per sancire ancor di più l’amore tra lui e la Juventus, indosserà in sette occasioni la fascia da capitano.

Tutto porta a prevedere che la carriera del croato si concluderà adornata dai colori bianconeri, come era anche nella volontà dello stesso Mandžukić. Ciò che però egli non poteva prevedere, è l’ennesima rivoluzione di cui risulterà la principale vittima. La Juventus passa da Allegri a Sarri, e Mario passa dall’essere un giocatore inamovibile ad essere un peso fuori rosa. Ritrovatosi costretto ad andare via nel mercato di riparazione, lascia la squadra in cui ha dato e ricevuto di più in quanto ad affetto, e non solo.



Il finale di carriera

Oltre alla squadra bianconera il croato saluta anche il calcio europeo, trasferendosi in Qatar. Mandžukić è attirato dal ricco stipendio che l’Al-Duhail è disposto ad offrigli, ma dopo appena 572 minuti in campo e un solo gol, rescinde il proprio contratto con la squadra qatariota, pronto a cercare una nuova avventura che possa stimolarlo calcisticamente.

L’occasione del ritorno nel calcio che conta la ha nella sessione invernale del calciomercato 2021, quando gli si presenta la possibilità di tornare in Italia, al Milan, che in quel momento lotta per il titolo. L’arrivo a Milano, decisamente non esaltante, è segnato da diversi problemi fisici per il nove rossonero, che già veniva da oltre dieci mesi di inattività. Proprio a causa degli stop forzati che ha dovuto affrontare, Mandžukić ha rinunciato a ricevere lo stipendio quando è stato indisponibile, chiedendo al club di donarlo in beneficenza. Un gesto nobile e mai scontato, che qualifica la persona che c’è dietro il calciatore.

Nel settembre dello stesso anno, nonostante la possibilità di accettare un paio di proposte di mercato, forse a causa di un fisico divenuto inadatto a supportare le esigenze della sua dedizione al sacrificio, decide di appendere gli scarpini al chiodo.

Se si va a guardare la carriera di Mandžukić, lo spirito con il quale l’ha sempre condotta è praticamente opposto a quello che muove Giacinto Mazzatella, il protagonista della pellicola di Scola inizialmente citata. Il personaggio interpretato magistralmente da Nino Manfredi, infatti, mette i suoi soldi e la propria persona davanti a tutto, risultando egoista nei confronti della sua famiglia. L’attaccante croato, al contrario, ha sempre dato tutto quello che aveva per la propria squadra, per i propri allenatori e per i propri tifosi. Mario Mandžukić è sempre stato brutto, sporco e cattivo, ma solo per chi lo ha avuto contro.

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