C’è una scena in ‘Philadelphia‘ – film del 1993 di Jonathan Demme, che tratta il tema dell’omofobia con una sensibilità unica – in cui l’avvocato Joe Miller, interpretato da Denzel Washington, mette in luce le vere motivazioni del licenziamento del suo cliente, che rischiano di viziare il processo: «l’odio della gente, la nostra ripugnanza, la nostra paura degli omosessuali». È un uomo ancora non del tutto convinto delle parole che sta pronunciando, le usa come mero esercizio retorico. Crede ancora che l’amore provato da lui sia diverso dall’amore provato dall’“altro”. Poi, lentamente, lo vediamo cambiare, abbassare le difese, assottigliare le differenze, fino a scoprire che differenze nell’amare non ce ne sono. Il giudice gli ricorda che in un’aula di tribunale non contano il colore della pelle, il credo o le tendenze sessuali delle persone, ma solo la legge. «Con tutto il rispetto vostro onore, noi non viviamo in quest’aula giudiziaria».
Sono passati trent’anni e l’impressione che si ha è che quell’aula di tribunale si sia estesa e continui a estendersi giorno dopo giorno. Forse non in tutto il mondo, ma in una fetta sempre crescente d’Italia l’omosessualità non pare più un tabù, qualcosa da tenere sotto il tappeto per la paura di essere fatti o di apparire in un certo modo. Ormai alla maggior parte delle gente non importa nulla dell’orientamento sessuale di una persona nel 2023. Ognuno è libero di amare chi vuole e come vuole, e allora perché scomodarsi a dichiararlo? Perché mettere in piazza i propri gusti e il proprio stile di vita come se niente fosse? Chi lo fa deve essere un esibizionista, qualcuno che non sa tenere la propria vita privata per sé. Se quella persona è famosa probabilmente lo starà facendo per aumentare la propria visibilità, per avere un ritorno economico dalla notizia.
Sono queste le frasi che negli ultimi giorni abbiamo letto attorno al coming out di Jakub Jankto, ex giocatore di Udinese e Sampdoria ed ora allo Sparta Praga, che con un video postato sui suoi canali social ha dichiarato di non voler più nascondere la propria omosessualità. Jankto che ha «punti deboli, punti di forza, una famiglia, degli amici». Jankto che svolge il suo lavoro «con serietà, professionalità e passione». Jankto che deve aver sentito il peso di vivere in un ambiente dove l’espressione del proprio orientamento sessuale è, a conti fatti, ancora un tabù. Perché quell’aula di tribunale non si è allargata in modo omogeneo all’interno della nostra società, ma ha trovato zone in cui la resistenza all’accettazione dell’altro è ancora molto, troppo forte. Tante famiglie, tanti ambienti di lavoro, tante periferie sono come gocce d’olio incapaci di mescolarsi all’acqua, isolate rispetto al flusso predominante o che si crede tale.
E il mondo del calcio è la goccia isolata più grande e appariscente. I giocatori che hanno dichiarato la propria omosessualità prima di Jankto si contano letteralmente sulle dita di una mano, e la loro scelta ha portato a conseguenze negative professionalmente e umanamente, se non tragiche nei casi peggiori, come quello di Justin Fashanu, emarginato dal momento del coming out fino al ritiro dai campi nel 1997 e oltre, tanto da venire spinto al suicidio poco tempo dopo. Da allora, pochissimi giocatori hanno scelto la strada di Fashanu, e la maggior parte di loro lo ha fatto solo al termine della carriera, in assenza di possibili ripercussioni sui campi, negli spogliatoi o addirittura a livello societario. Thomas Hitzlsperger, ex-centrocampista tedesco di Stoccarda e Lazio, ha atteso un anno dopo il proprio ritiro, mentre Douglas Braga si è ritirato a soli 21 anni per paura di non riuscire a gestire la pressione di essere un calciatore gay. In tempi recenti, uno dei pochi ancora in attività ad accettare il peso di un simile gesto è stato Joshua Cavallo, ventiduenne difensore dell’Adelaide City.
Parlare apertamente di omosessualità nel mondo del calcio resta un tabù, perché il calciatore è costretto a una sovraesposizione costante della sua persona: ai compagni di squadra, agli avversari, ai propri tifosi e ai tifosi avversari. È un ambiente in cui ogni contatto con l’altro è amplificato dalla natura stessa del proprio lavoro. La condivisione dello spazio e delle proprie esperienze in maniera costante con i propri compagni, persone che in altri contesti sarebbero spesso considerati semplici colleghi di lavoro, pone i calciatori nella scomoda situazione di doversi fingere altro da chi sono realmente, proprio come accade in alcune famiglie. E poiché la famiglia non si sceglie, può capitare di trovarsi di fronte a persone che pensano che l’omosessualità sia contro natura, e che se ci fosse un gay in spogliatoio bisognerebbe cacciarlo dal club, come ha denunciato Patrice Evra in un’intervista a ‘Le Parisien‘.
I giocatori e i tifosi avversari, poi, riescono a trasformare qualsiasi attributo personale, vuoi che sia fisico o caratteriale, reale o inventato, in insulto e discriminazione. Non importa che il calciatore in questione sia davvero omosessuale o meno, una volta che la macchina viene messa in moto si viene ridotti alla caricatura di sé stessi, costretti in un ruolo monodimensionale, un ruolo caricato di odio e disprezzo, da cui non si riesce a uscire neanche quando gli spalti sono vuoti, è mercoledì sera e si è appena tornati a casa dall’allenamento settimanale. I cori e gli insulti restano anche dopo, restano sempre, depositati in un angolo della mente che dice che forse sarebbe stato meglio non essere sé stessi, continuare a fingere di essere qualcun altro. Un uomo che non è più un essere umano se deve continuare a fingere negli spogliatoi con i compagni, nei locali o in strada per la paura di essere riconosciuto e additato da migliaia di persone. Non un uomo che agisce da sportivo, ma uno sportivo che interpreta un uomo.
Questo rischia di diventare il mondo del calcio per i suoi protagonisti: una bolla senz’aria, in cui la pressione è tale da far implodere la personalità di coloro che si trovano sotto quello stesso peso. Le fasce arcobaleno, i messaggi delle società e delle istituzioni sportive sul razzismo e l’inclusività da veicolare al mondo esterno, le prese di posizione per condannare quello stesso mondo esterno, resteranno uno specchietto per le allodole se chi è all’interno della bolla si ritroverà comunque costretto a recitare una parte.
Chi crede che il coming out di Jankto sia soltanto un capriccio o un modo per far parlare di sé non comprende innanzitutto quanto sia importante per lui esprimere sé stesso, rompere quel silenzio assordante che pervade la sua casa, gli spogliatoi, le tribune degli stadi in cui gioca e che contribuiscono al disagio che può crescere lentamente in una persona, logorandola giorno dopo giorno. Non comprende quanto le sue parole possano essere d’ispirazione per altri giocatori che si trovano in una condizione simile, quanto sia importante per loro trovare una mano amica, una persona che abbia aperto loro la strada facendosi avanti e indicandogliela, assumendosi i rischi dell’essere tra i primi e per questo tra i più esposti. Non comprende infine quanto sia importante normalizzare un fenomeno che oggi nel mondo del calcio resta straordinario, e che proprio a causa di questa straordinarietà ci espone nuovamente a «l’odio della gente, la nostra ripugnanza, la nostra paura degli omosessuali».
Perché se Jakub Jankto viene riempito di insulti dopo aver fatto coming out, se il presidente della Federcalcio francese Le Graët minimizza e volta le spalle quando c’è da combattere seriamente le discriminazione omofobiche, se Gianni Infantino sostiene ipocritamente di «sentirsi gay» e poi difende e promuove un Mondiale giocato in un posto dopo se sei davvero omosessuale rischi la pena di morte, forse distinguere l’olio dall’acqua non è poi così semplice. E forse, in fin dei conti, viene da pensare che quell’aula di tribunale in cui si muovevano i personaggi di ‘Philadelphia‘ in quel lontano 1993, trent’anni dopo non si sia ingrandita come pensavamo.
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