tiki-taka

Storia, origini ed evoluzione del tiki-taka

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Nel calcio di oggi le squadre europee che possono ambire sia in un successo in patria, che a livello continentale, non sono più di una ventina. Esse mantengono invariata la stessa filosofia di gioco per anni o ne ricercano una sempre più sofisticata pescando fra i migliori allenatori emergenti. Sono la vera forza motrice dietro i mutamenti e l’evoluzione di questo sport, proprio come in una qualsiasi competizione industriale. I colossi investono nella ricerca di prodotti sempre più ricercati, mentre la concorrenza cerca di studiarne i progressi e imitarne i risultati. A beneficiarne sono in parte anche gli attori più deboli del mercato, che possono esistere e progredire solo attraverso un atteggiamento imitativo o innovativo e a sua volta imitabile, in un continuo interscambio necessario alla sopravvivenza del calcio stesso.

Oramai, anche nel campionato italiano, è diventato quasi impossibile mantenere la categoria con la tecnica del “palla lunga e pedalare”. Non ci sono più sistemi di gioco connessi in modo inscindibile con la nazione di provenienza, etnicamente ascritti. Ogni campionato o nazionale assorbe idee, tecnici e atleti da contesti che per un motivo o per l’altro reputa superiori in quel momento al proprio.

Espressioni come “il calcio inglese” o “il catenaccio all’italiana” sono ormai antiquate e prive di senso. Nessuno oggi in Inghilterra si sognerebbe di vincere la Champions League con sistemi tattici endemici del calcio britannico, sebbene alcune tipicità molto marcate differenzino ancora oggi le squadre d’oltremanica da quelle del resto del continente.

Si può evidentemente parlare di “gioco globalizzato” nel senso letterale del termine. Ne sono una prova gli ultimi Mondiali di calcio. In Qatar molte squadre storicamente prive di una vera e propria identità calcistica hanno mostrato principi tattici difensivi molto validi, su tutte l’Arabia Saudita del francese Hervé Renard. L’influenza europea è lapalissiana e d’altronde mai celata.


La rivoluzione del gioco: il tiki-taka

Sebbene questa espressione sia sempre meno usata e indichi un modo di giocare probabilmente morto con il declino del Barcellona, concedeteci di usarla impropriamente per indicare tutti i vari stili di gioco e i sottogruppi che da esso ne sono derivati.

Nella sua forma più pura, il tiki-taka viene attribuito a Pep Guardiola, a quando ricopriva il ruolo di allenatore del Barcellona. La sua comparsa fu qualcosa di assolutamente innovativo e la sua diffusione ed evoluzione negli anni successivi è stata esponenziale, fino ad affermarsi come forma dominante di gioco, quasi come sinonimo di “bel gioco”.

Si tratta di un’intricata rete di passaggi rapidi, rigorosamente rasoterra, che richiede buone capacità tecniche anche di difensori e portiere, necessari per la prima uscita palla al piede, quella che poi diventerà la cosiddetta “costruzione dal basso”. L’obiettivo è nascondere la palla all’avversario, farlo girare a vuoto, stanarlo con un giro palla all’apparenza monotono e un possesso palla che raggiunga percentuali bulgare. Se vogliamo usare un’analogia, con Guardiola il calcio diviene più simile al basket di quanto non lo sia al rugby.

Oggi anche moltissime squadre di basso o medio livello giocano con un baricentro molto più alto e cercano di buttare via il pallone il meno possibile, coniando una sorta di tiki-taka proletario, depotenziato dagli strutturali limiti tecnici delle loro rose, che però garantisce nella maggior parte dei casi ottime stagioni, anche perché banalmente giocare meglio dell’avversario è l’unico modo per avere chances contro rivali più forti. Si possono a tal fine citare Maurizio Sarri e Roberto De Zerbi, che hanno costruito su meccanismi simili le loro fortune con squadre come Empoli e Sassuolo. Con il primo talmente apprezzato da vedersi riconosciuta la paternità di un sottogruppo specifico: il sarrismo. Metodo che lo ha portato a sedere su panchine prestigiose come quelle di Chelsea e Juventus, dopo aver incantato l’Italia intera su quella del Napoli.

Ma per la sua massima realizzazione, questo sistema ha il difetto di necessitare dei migliori interpreti su piazza. Guardiola aveva a disposizione Mascherano come difensore centrale, per garantirsi la prima costruzione, esterni del calibro di Dani Alves, centrocampisti nati per rendere pratica le sue idee come Xavi, Busquets e Iniesta. E ovviamente Messi, in grado di sbaragliare qualsiasi contromisura avversaria con la sua infinita dominanza calcistica. Guardiola e il Barcellona hanno costruito qualcosa di davvero unico. Ancora oggi è possibile notare somiglianze fra calciatori provenienti dalla cantera blaugrana come Gavi e Pedri, e giocatori trasformati dalla mano di Pep come Foden.

Anche giocatori meno forti e blasonati, come ad esempio Angeliño, è evidente che conservino come aspetto indelebile del loro modo di giocare i dettami appresi negli allenamenti con Guardiola. In altre parole, un giocatore passato dalla scuola guardiolana è riconoscibile, come se facesse parte di un brand.


Influenze e origini

Non c’è dubbio che il tiki-taka sia stato “il cigno nero” di questo sport: quell’evento impossibile o difficile da prevedere che finisce per cambiare tutto. Tuttavia, molti osservatori ritengono il tiki-taka la versione latina del calcio totale olandese.

È legittimo però credere che il tiki-taka nasca esattamente dall’esigenza opposta che ha portato allo sviluppo del calcio totale. Mentre Rinus Michels riuscì a sfruttare la fisicità dei suoi giocatori, rivoluzionando in modo indelebile il calcio olandese, il prodromo del tiki-taka vero e proprio può essere fatto risalire ai Mondiali del 2006.

Luis Aragonés, allora allenatore delle furie rosse, conscio dei limiti della Nazionale spagnola, storicamente dotata di meno fisicità e corsa rispetto alle rivali più accreditate, ha sviluppato un gioco che punta a mantenere i più alti livelli di possesso palla possibile, a rallentare i ritmi e dunque a ridurre al minimo i duelli individuali e gli scatti palla al piede. Riproponendo questa tattica anche negli anni successivi, la Spagna si è aggiudicata due Europei e la Coppa del mondo 2010. Il calcio spagnolo ha raggiunto in quel momento uno strapotere mai conosciuto prima, grazie alla capacità di Guardiola di affinare in modo militare quanto sviluppato da Aragonés. Il Barcellona è riuscito così a identificare il suo gioco con quello della sua Nazionale – paradossalmente, vista la distanza politica che vi è tra il mondo catalano e quello spagnolo –, e viceversa, in una continua affluenza di principi e sistemi, favorita anche dalla colonia di calciatori blaugrana nella Roja.

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Sempre nel 2006, Frank Rijkaard portava il Barcellona sul tetto d’Europa. È naturale dunque pensare che il calcio olandese abbia avuto inevitabilmente un ruolo nella formazione del tiki-taka. Lo aveva già avuto prima ancora con Louis van Gaal, e soprattutto con Johan Cruijff, maestro assoluto di Pep che più di chiunque altro lo ha formato – e d’altro canto proprio Guardiola era il regista del Barça del rivoluzionario olandese. Il Barcellona di Stoichkov e Romário, così come quello di Eto’o e Ronaldinho, era già una squadra altamente spettacolare e con un possesso palla complesso da interrompere, ma il modo in cui Guardiola ha trasformato il Barcellona costringe a porre una cesura fra i due sistemi di gioco, senza volerne negare le inevitabili influenze. Guardiola è molto più probabilmente un inventore, che ha però sfruttato le maggiori espressioni calcistiche del suo tempo e del suo ambiente per convogliarle nel suo stratosferico Barcellona.


Evoluzione

I primi timidi tentativi di imitare questo sistema di gioco furono praticamente coevi alla nascita stessa del tiki-taka. Si trattò di un’invenzione che sbaragliò completamente le carte in tavola, scatenando una “febbre dell’oro” frenetica volta alla ricerca della miglior imitazione possibile di quella che andava sempre più affermandosi come la miglior espressione calcistica di tutti i tempi.

Meno di una decina di anni fa si iniziò ad esempio, a volte con risultati pessimi, ad arretrare registi senza spiccate doti difensive nel ruolo di difensori centrali. La figura del difensore roccioso e sporco veniva sempre più denigrata e la capacità di palleggio sempre più ricercata anche nei centrali. Non era raro vedere squadre di grande blasone impegnarsi in sofisticati palleggi difensivi per poi venire infilate facilmente a causa dell’atteggiamento eccessivamente “elegante” dei suoi difensori.

Oggi, infatti, l’obiettivo è acquisire le poche “chimere” presenti sul mercato – cosa che ha portato i prezzi dei difensori alle stelle –, educate e plasmate per essere abili palleggiatori anche se dotati di fisici elefantiaci. Non è un’eresia credere che l’opera di Guardiola abbia a cascata rivoluzionato i metodi dei settori giovanili di tutto il mondo. Se Guardiola ne avesse avuto le capacità tecniche, un giocatore come Rúben Dias lo avrebbe probabilmente creato in laboratorio. In un certo senso possiamo definire il difensore moderno una sua “creatura”.

Altri tentativi più o meno fallimentari riguardarono la riproposizione di quello che Messi faceva al Barcellona, spostando il giocatore più tecnico della squadra come punta: il falso nueve. Si scoprì presto che, nella maggioranza dei casi, non bastava sostituire le vecchie e rozze punte d’area di rigore con i fantasisti per garantirsi maggiore qualità offensiva. Ne è stato un esempio virtuoso Fàbregas con la Spagna, quasi più un caso isolato però, che un’evoluzione fiorente del gioco in questo senso.

Col tempo si è capito che la trasformazione necessitava di una fase ibrida, fisiologica di adattamento ai cambiamenti, e il 4-3-3 endemico di questo sistema di gioco si è evoluto nel più controllabile 4-2-3-1, mutuato da poco dai più floridi nel passato 4-2-1-3 e 4-3-2-1, oggi quasi scomparsi.

Vengono dunque riesumate le figure del centrale più dedito alla fase difensiva che all’impostazione e della punta vera, da cui tutte le grandi squadre si sono accorte di dipendere ancora senza un Messi in squadra, City compreso. I Citizens, dopo aver sperimentato punte mobili come Gabriel Jesus, esterni d’attacco schierati sulla carta in posizione centrale come Foden e Sterling, o addirittura Gündoğan come teorico terminale, con risultati comunque soddisfacenti, si è arresa – si fa per dire – a sborsare 60 milioni di euro per assicurarsi le prestazioni del norvegese Erling Haaland, la punta più forte del momento.

Oggi quasi tutti gli allenatori che optano per questa visione tattica sono tornati al 4-3-3. Ciò che resta di questa rivoluzione è una palla che viaggia molto più a terra, un gioco più corale, difesa più alta, meno tiri da fuori e meno dribbling. Potremmo riassumere così le caratteristiche comuni di idee di gioco comunque molto differenti tra loro come quelle che fungono da eredi superstiti del disegno originale di Guardiola.



Il Barcellona è invece riuscito per anni a mantenere il monopolio, Guardiola permettendo, dell’autentico tiki-taka, riuscendo grazie a ragioni ambientali e di capitale umano a conservare tratti tipici, che per il suo inventore fu molto difficile impiantare al Bayern nella sua esperienza tedesca. Luis Enrique, in particolare, riuscì con il suo stellare trio d’attacco composto da Messi, Suárez e Neymar, e gli innesti di Rakitić e ter Stegen, a costruire un Barcellona, se vogliamo e a rischio di eresia, più forte di quello di Guardiola stesso, una versione 2.0 ai limiti della giocabilità. Dei successori di Guardiola in Catalogna si è sempre fatto cenno alla maggiore verticalità e a un minore radicalismo nei confronti dei lanci lunghi, ma è oggettivamente complesso non riscontrarvi una sorprendente continuità che ha per anni fatto del Barcellona una squadra diversa dalle altre, non sempre necessariamente migliore, ma sicuramente unica.

Ad oggi è ovviamente Guardiola stesso con il suo Manchester City l’evoluzione più prossima di quel Barcellona. Ciò ha privato il tiki-taka del suo monopolio spagnolo, come anche lo stile di gioco della nazionale Roja faceva presagire, rendendolo qualcosa di esportabile, non solo imitabile. Naturalmente il calcio inglese si è infiltrato nel calcio di Guardiola, costretto ad aumentare i ritmi e la dinamicità del suo giro palla e ad alzare i livelli di pressing.

I cambiamenti e le deviazioni dal cammino originario sembrano però oggi all’ordine del giorno, a causa di risultati europei insoddisfacenti e un probabile malcontento di Guardiola per la resa dei suoi meccanismi difensivi, anche nella scelta stessa degli interpreti.

L’impressione è che il tecnico catalano voglia rendere il suo calcio sempre più ingestibile per l’avversario e stia cercando di portare allo stremo lo slogan «la miglior difesa è l’attacco». I terzini che giocano in cabina di regia in fase di possesso sono solo il prodromo di un calcio che potrebbe in futuro vedere i centrali stessi assumere compiti e posizioni oggi per noi inimmaginabili, ma che siamo certi le sperimentazioni di Guardiola troveranno modo di concretizzare.

Più canonico invece Xavi, che sta tentando di resuscitare ciò che era il suo Barcellona quando ne era giocatore. Accettata la sfida di tornare in Catalogna da allenatore, Xavi sta progressivamente tentando di recuperare quei meccanismi assopitisi negli anni. Mentre Guardiola modella ed evolve ciò che ha inventato a Manchester, Xavi opera un ritorno all’origine favorito da giovani fenomenali come Gavi e Pedri, che possono vedere in lui una sorta di loro antesignano, un fantasma del Natale passato che cerca di ricreare in modo maniacale, per quanto l’addio di Messi renda ciò possibile, i fasti della sua grande era. L’impressione è che più Guardiola si allontani e tenti di perfezionare ciò che ha creato, più a Barcellona si viva con l’ansia di cristallizzare tutto così com’è, nel terrore di una crisi identitaria che ritrasformi il Barça in una squadra ordinaria.

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