C’è un fondo di meraviglia nelle storie disperate, che le rende in egual modo tragiche e affascinanti, che unisce poesia e dramma, che mescola il lato del calcio più spietato alla malinconica visione della storia che hanno gli sconfitti.
La notte del 23 maggio 2001, al Giuseppe Meazza in San Siro, si consuma una finale di Champions League quasi tragica. Si scontrano due squadre di carattere diametralmente opposto, il Bayern Monaco di Ottmar Hitzfeld e il Valencia di Héctor Cúper. Ai tedeschi la vittoria della Coppa dei Campioni manca dai tempi del Kaiser Franz Beckenbauer, mentre gli spagnoli sentono ancora vivida la cicatrice della finale dell’anno prima, nella quale erano stati soverchiati dal Real Madrid, con i gol di Fernando Morientes, McManaman e Raúl. Entrambe le formazioni, dunque, hanno quasi l’obbligo di vincere.
Il coriaceo Bayern Monaco è costruito come una vera e propria corazzata: ha vinto entrambi i gironi, sbaragliato lo United ai quarti di finale con una doppia vittoria e battendo i campioni in carica del Real Madrid sia al Bernabéu che all’Olympiastadion.
La difesa di Hitzfeld è a tre, formata da Kuffour, Andersson e Linke. Gli esterni di centrocampo sono, di fatto, due terzini, Sagnol e Lizarazu, in un 3-6-1 molto incline a diventare un 5-4-1. A centrocampo Effenberg detta i ritmi, affiancato da un giovanissimo Owen Hargreaves. L’unica punta, supportata da Scholl e Salihamidžić, è Élber, match winner della sfida del Bernabéu.
Il Valencia invece è la più classica delle outsider, così come lo era stata l’anno prima. Anch’essa vincitrice di entrambi i gironi, si affida ad una solida difesa a quattro nella quale fa capolino l’italiano Amedeo Carboni, largo sulla sinistra. La fascia destra è occupata da Angloma e al centro si schierano Ayala e Pellegrino. Il centrocampo fa riferimento alla diga Baraja e all’estro di alcuni giocatori che fecero conoscenza anche con il calcio italiano, come Kily González e Gaizka Mendieta. Sulla trequarti Pablo Aimar ha il compito di illuminare le due punte, John Carew e Juan Sanchez.
Ci sono altri due protagonisti che sono obbligato a menzionare, e forse più avanti capirete perché: i portieri. Da una parte Oliver Kahn, dall’altra Santiago Cañizares. Il primo, con le sue urla e il suo inconfondibile trasporto emotivo, un concentrato di autorità e grinta che non esclude un posizionamento e una tecnica sopraffini. Il secondo, detto el Dragon, un portiere di buon livello, abile, carismatico.
La finale ha inizio, ed ogni pronostico si zittisce. Nemmeno il tempo di cominciare e l’arbitro, l’olandese Dick Jol, fischia un rigore alquanto dubbio per un tocco di mano in area di rigore di un giocatore del Bayern. Mendieta spedisce la palla all’angolino e il Valencia si porta avanti già al secondo minuto.
Quattro minuti più tardi è il Bayern ad avere l’occasione dagli undici metri: contatto tra Angloma ed Effenberg – anch’esso opinabile – e massima punizione. Dal dischetto va Mehmet Scholl, che si fa ipnotizzare da Cañizares e tira centrale: il portiere devia con il piede e il risultato rimane fissato sull’uno a zero.
Non succede praticamente nulla d’altro: la partita è noiosa, chiusa e tattica. I murciélagos vanno negli spogliatoi in vantaggio. Nell’intervallo Cúper toglie Aimar ed inserisce Albelda, per fortificare la fase difensiva, mentre Hitzfeld sostituisce Willy Sagnol con Carsten Jancker, punta forte fisicamente.
Pronti, via, ed è subito calcio di rigore per il Bayern. Di nuovo. Il neo-entrato si lancia su un cross di Élber, spingendo Carboni che tocca di mano. Terzo penalty di giornata, terzo episodio dubbio. Fatto sta che Effenberg non perdona, e il risultato torna in equilibrio.
La partita potrebbe infiammarsi, ma non lo fa: rimane macchinosa, a tratti frustrante da vedere. Cúper si copre cambiando Sanchez, un attaccante, con Zahovič, un centrocampista, e poi sostituisce Ayala con un altro difensore, Miroslav Dukić. Si arriva ai supplementari e gli unici eventi rilevanti sono le mosse di Hitzfeld, che inserisce Zickler per Élber al 100’ e Paulo Sérgio per Scholl al 108’.
Come in tutti i grandi drammi, a decidere è la lotteria dei calci di rigore: per il Bayern segnano Salihamidžić, Zickler ed Effenberg, mentre Paulo Sérgio ed Andersson fanno cilecca. Il Valencia trova il gol con Mendieta, Carew e Baraja, ma sia Zahovič sia Carboni mancano il bersaglio.
Si va ad oltranza. Lizarazu segna, Kily González anche. Settimo rigore. Linke non sbaglia. Pellegrino, invece, spara il pallone addosso a Kahn. Il mondo crolla. Il sogno del Valencia finisce lì, il Bayern torna a vincere la Champions.
La storia potrebbe concludersi qui, con entrambi in lacrime, i vincitori festanti e gli sconfitti distrutti. Ma non tutti i giocatori del Bayern esultano. Oliver Kahn, prima di festeggiare legittimamente con i suoi, si prende del tempo per sé. Da solo, va da un disperato Santiago Cañizares, accovacciato al limite dell’area piccola, devastato dalle lacrime e dal corso degli eventi. Si abbassa su di lui e comincia a consolarlo, lo aiuta a rialzarsi, cerca di fargli forza.
Un abbraccio che ha del meraviglioso, sia per il significato, sia per la malinconia che anche oggi è capace di trasmettere a chi non l’ha davvero vissuto, ma lo guarda da vecchi video. Un gesto che annulla il labile confine tra i vincitori e i vinti, che resta nella storia.
Mentre Effenberg alza la coppa al cielo, circondato dall’affetto di tifosi e compagni, cosa starà pensando Cañizares? In mezzo a tutta quella delusione, oltre l’abisso del rimpianto, c’è qualcosa d’altro? Mi piace pensare che sia così. Mi piace pensare che, in fondo in fondo, Santiago riconosca che Oliver Kahn è, prima che un calciatore, un uomo. Un uomo straordinario, capace di cose straordinarie, come quella di consolare un drago. E d’un tratto, nella notte più nera, appare un fioco barlume di conforto.