Kahn Cañizares

Consolare un drago, l’abbraccio di Kahn a Cañizares

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C’è un fondo di meraviglia nelle storie disperate, che le rende in egual modo tragiche e affascinanti, che unisce poesia e dramma, che mescola il lato del calcio più spietato alla malinconica visione della storia che hanno gli sconfitti. La notte del 23 maggio 2001, al Giuseppe Meazza in San Siro, si consuma una di quelle storie, nella finale di Champions League tra il Bayern Monaco di Oliver Kahn e il Valencia di Santiago Cañizares.


Il percorso, le aspettative, i protagonisti

Ai tedeschi, allenati da Ottmar Hitzfeld, la vittoria della Coppa dei Campioni manca dai tempi di Franz Beckenbauer e Gerd Müller, mentre gli spagnoli sentono ancora vivida la cicatrice della finale dell’anno prima, nella quale erano stati soverchiati dal Real Madrid, con i gol di Fernando Morientes, Steve McManaman e Raúl. Entrambe le formazioni, dunque, hanno quasi l’obbligo morale di vincere.

Il coriaceo Bayern Monaco è costruito come una vera e propria corazzata. Ha vinto entrambi i gironi, sbaragliato il Manchester United di Sir Alex Ferguson ai quarti di finale con una doppia vittoria, e battuto i campioni in carica del Real Madrid sia al Bernabéu che all’Olympiastadion.

La difesa di Hitzfeld è a tre, e formata da Samuel Kuffour, Patrik Andersson e Thomas Linke. Gli esterni di centrocampo sono, di fatto, due terzini, i francesi Willy Sagnol e Bixente Lizarazu, in un 3-6-1 molto incline a diventare un 5-4-1. A centrocampo capitan Stefan Effenberg detta i ritmi, affiancato da un giovanissimo Owen Hargreaves. L’unica punta, supportata da Mehmet Scholl e Hasan Salihamidžić, è Giovane Élber, match winner della sfida del Bernabéu.

Il Valencia di Héctor Cúper invece è la più classica delle outsider, così come lo era stata l’anno prima. Anch’essa vincitrice di entrambi i gironi, batte nei due turni ad eliminazione diretta due squadre inglesi: l’Arsenal di Wenger e il Leeds United – questi ultimi fecero meglio nella competizione soltanto nel 1975, nella famosa stagione iniziata con Brian Clough in panchina.

L’allenatore argentino si affida ad una solida difesa a quattro nella quale fa capolino l’italiano Amedeo Carboni, largo sulla sinistra. La fascia destra è occupata da Jocelyn Angloma e al centro si schierano gli argentini Roberto Ayala e Mauricio Pellegrino. Il centrocampo fa riferimento alla diga Rubén Baraja e all’estro di alcuni giocatori che fecero conoscenza anche con il calcio italiano, come Kily González e Gaizka Mendieta. Sulla trequarti Pablo Aimar ha il compito di illuminare le due punte, John Carew e Juan Sánchez.

I due protagonisti assoluti della gara li abbiamo però menzionati all’inizio, e sono i due portieri. Da una parte il teutonico Oliver Kahn, dall’altra il madrileno Santiago Cañizares. Il primo, con le sue urla e il suo inconfondibile trasporto emotivo, un concentrato di autorità e grinta che non esclude un posizionamento e una tecnica sopraffini. Il secondo, detto el Dragón, un portiere di buon livello, abile, carismatico.


La partita, la gioia, il dolore

La finale ha inizio, ed ogni pronostico si zittisce. Nemmeno il tempo di cominciare e l’arbitro, l’olandese Dick Jol, fischia un rigore alquanto dubbio per un tocco di mano in area di rigore di un giocatore del Bayern. Mendieta spedisce la palla alle spalle di Kahn, che la sfiora soltanto, e il Valencia si porta avanti già al secondo minuto di gioco.

Quattro giri d’orologio più tardi sono i bavaresi ad avere l’occasione dagli undici metri: contatto tra Angloma ed Effenberg – anch’esso opinabile – e massima punizione. Dal dischetto va Mehmet Scholl, che tira centrale, facendosi ipnotizzare da Cañizares: il portiere devia con il piede e il risultato rimane fissato sull’1-0.

Non succede praticamente nulla d’altro: la partita è noiosa, chiusa e tattica. I murciélagos vanno negli spogliatoi in vantaggio. Nell’intervallo Cúper toglie Aimar ed inserisce David Albelda, per fortificare la fase difensiva, mentre Hitzfeld sostituisce Sagnol con Carsten Jancker, punta forte fisicamente.

Pronti, via, ed è subito calcio di rigore per il Bayern. Di nuovo. Il neo-entrato si lancia su un cross di Élber, spingendo Carboni che tocca di mano. Terzo penalty di giornata, terzo episodio dubbio. Fatto sta che Effenberg non perdona: spiazza il portiere e il risultato torna in equilibrio.

La partita potrebbe infiammarsi, ma non lo fa: rimane macchinosa, a tratti frustrante da vedere. Cúper si copre cambiando Sánchez, un attaccante, con Zlatko Zahovič, un centrocampista, e poi sostituisce Ayala con un altro difensore, Miroslav Dukić. Si arriva ai supplementari e gli unici eventi rilevanti sono le mosse di Hitzfeld, che inserisce Alexander Zickler per Élber al 100’ e Paulo Sérgio per Scholl al 108’.

Come in tutti i grandi drammi calcistici, a decidere la contesa è la lotteria dei calci di rigore, e non può essere altrimenti in una gara in cui i tiri dal dischetto e i conseguenti duelli tra tiratori e portieri sono stati protagonisti. Per il Bayern segnano Salihamidžić, Zickler ed Effenberg, mentre il tiro di Paulo Sérgio finisce alto e quello Andersson viene bloccato dal portiere valenciano. In risposta al Dragón Cañizares, Oliver Kahn ne para addirittura due, il primo a Zahovič e il secondo a Carboni; trovano il gol invece Mendieta, Carew e Baraja.

Si va ad oltranza. Lizarazu segna, Kily González anche. Settimo rigore. Linke non sbaglia. Il tiro di Pellegrino, invece, viene ancora respinto da Kahn. Il mondo crolla. Il sogno del Valencia finisce lì, il Bayern Monaco torna a vincere la Champions dopo oltre venticinque anni.

La storia potrebbe concludersi qui, con entrambi in lacrime, i vincitori festanti e gli sconfitti distrutti. Ma successivamente alla solita gioia rabbiosa espressa dopo l’ultimo rigore parato, il gigante tedesco nota qualcosa, e si allontana dai compagni in festa.

Da solo, Oliver Kahn si avvicina ad un disperato Santiago Cañizares, accovacciato al limite dell’area piccola, devastato dalle lacrime e dal corso degli eventi. Si abbassa su di lui e comincia a consolarlo, lo aiuta a rialzarsi, cerca di fargli forza. Lo stringe in un abbraccio che ha del meraviglioso, sia per il significato, sia per la malinconia che anche oggi è capace di trasmettere a chi non l’ha davvero vissuto, ma lo guarda da vecchi video. Un gesto che annulla il labile confine tra i vincitori e i vinti, che resta nella storia. Un gesto che magari non ci si aspetta da un uomo visto e raccontato come burbero e spietato, e che forse proprio per questo scalda maggiormente il cuore.

Mentre Effenberg alza la Coppa al cielo, circondato dall’affetto di tifosi e compagni, cosa starà pensando Santi Cañizares? In mezzo a tutta quella delusione, oltre l’abisso del rimpianto, c’è qualcosa d’altro? È bello pensare che, in fondo in fondo, Cañizares riconosca che Oliver Kahn sia, prima che un calciatore, un uomo. Un uomo straordinario, capace di cose straordinarie, come quella di consolare un drago. E d’un tratto, nella notte più nera, appare un fioco barlume di conforto.

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