Mourinho

José Mourinho, tutto tranne un pirla

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Setúbal, ridente e antica cittadina portoghese, negli anni Sessanta registrava una densità demografica vicino ai 60.000 abitanti. Félix e Maria, il 23 gennaio del 1963, hanno contribuito a rimpolpare le statistiche demografiche mettendo al mondo Josè Mourinho che, ça va sans dir, ha rivoluzionato a piacimento il modo di intendere il calcio nel nuovo millennio. José porta con sé le due anime di Setúbal, quella poetica rappresentata dall’influenza del poeta Manuel Maria Barbosa du Bocage, e quella più dura e granitica come il Castelo de São Felipe che domina il mare, nella zona ovest della città.



Poesia, pragmatismo e mare. Sì, proprio il mare, elemento da cui Mourinho fatica a separarsi, rappresenta lo spirito da caudillo di José, sempre pronto a salpare da porti sicuri per affrontare le tempeste più temibili. Così lo Special One, soprannome attribuitosi durante la conferenza stampa di presentazione con il Chelsea nel 2004, lascia Setúbal per approdare a O Porto, e iniziare a scrivere la sua inconfondibile e personalissima storia.

Con il Porto, si aggiudica in due stagioni e mezza due campionati, una Supercoppa nazionale ma soprattutto una Coppa UEFA e una Champions League.

Nel 2004, come cantavano i Clash, London Calling, e José risponde approdando al Chelsea. A giudicare dal bottino che conta due campionati, due Coppe di Lega, una Coppa d’Inghilterra e una Supercoppa inglese, l’esperienza dello Special One non è stata tragica. Eppure qualche risultato altalenante, a sostegno di un rapporto difficile con la società, lo porta a rescindere il contratto con i blues.

Nel 2007 arriva la più classica delle sliding doors, José firma con l’Inter, che conduce alla vittoria di due campionati, una Coppa Italia, una Supercoppa italiana e una Champions League. In Italia il mondo sportivo si divide in due fazioni: chi ama Mourinho e chi, invece, lo odia aspramente.

I media ed i tifosi iniziano a riconoscerlo come vero e proprio showman. I suoi tormentoni, in conferenza stampa ed in diverse interviste, diventano virali. «Zero tituli» e «prostituzione intellettuale» sono solo alcuni dei tanti aforismi che hanno infiammato gli anni italiani del portoghese.

In stile Mourinho però la storia con l’inter non si conclude con un lieto fine, infatti, José lascia la guida dei nerazzurri al termine della finale di Madrid. Resta ancora impresso, nelle pupille dei tifosi interisti, l’abbraccio con Materazzi nei parcheggi sotterranei del Bernabéu. A differenza del trend continuo che ha caratterizzato la sua carriera, a proposito di liti con giocatori e società, l’esperienza con l’Inter non si è mai macchiata con simili vicissitudini, rendendo ancora più romantico il rapporto speciale con i nerazzurri.

Terminata l’esperienza con l’Inter, si trasferisce al Real Madrid, con il quale si aggiudica un campionato, una Coppa del Re e una Supercoppa spagnola. Gli anni con i blancos sono conditi dalla bellissima rivalità con Pep Guardiola. Due modi di pensare e di vedere il calcio in maniera stupendamente diversa, due mondi agli antipodi. Real Madrid contro Barcellona, in quegli anni, voleva sostanzialmente dire Mourinho contro Guardiola, oltre che l’inizio del dualismo Messi-Cristiano.

Altri attriti interni, comunque, lo portano lontano da Madrid. Quindi, nel 2015, ancora Chelsea, con cui vince un altro campionato e un’altra Coppa di Lega. Allena poi il Manchester United, con cui vince una Supercoppa inglese, una Coppa di Lega e un’Europa League, fino ad approdare al Tottenham.



Come se non bastassero i tituli – per dirla alla Mou – vinti sul campo, più volte, il gameplay di José è stato criticato dagli esteti del fùtbol. Il famoso “pullman a difesa della porta“, coniato dopo la semifinale di ritorno contro il Barcellona, quando sedeva sulla panchina dell’Inter, è un fardello troppo grande con cui si cerca di denigrare la filosofia di uno dei più rivoluzionari allenatori dell’ultimo decennio.

«Avere in mano il pallino del gioco, non perdere la propria personalità di fronte ai rivali, sono caratteristiche delle mie squadre»

I suoi tratti distintivi di gioco non possono prescindere da questi dettami filosofici prima che tattici. Il dominio sul campo si traduce nel momento in cui la sua squadra domina l’avversario in maniera psicologica prima che fisica. Di fatti le sue squadre hanno sempre avuto uno zoccolo duro di grande personalità, basti pensare ai vari Samuel, Terry, Cambiasso, Drogba, Ibrahimović, Deco, che hanno sempre aggiunto qualità ma, anche e soprattutto, carattere.

«La qualità migliore che può esibire una squadra è quella di giocare come una squadra, è più importante persino che avere uno o due grandi giocatori. La squadra più forte non è quella che ha i migliori giocatori, ma quella che gioca come una squadra»

La bravura di José è esaltata dalla capacità di riuscire a bilanciare queste grandi personalità all’interno dei gruppi allenati. Non sempre ci è riuscito in maniera totalizzante, a volte è andato allo scontro, ma quando è riuscito a creare un ambiente coeso ha stravinto tutto ciò che poteva essere vinto. Le critiche maggiori però, purtroppo, non sono mai arrivate per il modo con cui Mourinho gestisce gli spogliatoi ma per il modo con cui gioca. Nell’era in cui ognuno è libero, tramite social, di scrivere e condividere ogni cosa che passa per la testa, appare più evidente come si possa incappare in critiche facili non supportate da fact-checking.

I paladini del “bel gioco” bollano José come difensivista/oltranzista, amante del gioco sporco e soprattutto non organizzato. Se si facesse un minimo di ricerca delle fonti o si assistesse a qualche suo allenamento, forse si potrebbe cambiare idea. Le squadre di Mou si muovono come un corpo unico, non vi è un’enfasi su un reparto o su di un altro. La difesa è importante tanto quanto l’attacco, anzi, per precisione, bisognerebbe parlare di fase difensiva e fase offensiva come lo stesso Mou spiega.

Gli attacchi più aspri, però, vertono sul fatto che le squadre di Mourinho siano noiose, non giochino un bel calcio. Ma cosa si intende per bel calcio? Si può intendere bel calcio nell’accezione mainstream, che comprende squadre dal possesso fluido e spesso esasperato, ma si può, anche, pensare il bel calcio come capacità di difendere in maniera ordinata e intelligente, switchando velocemente in una fase offensiva pungente, si può anche intendere aggressione alta di una difesa a zona come espressione del bel calcio.



Risulta quindi limitante attaccare Mourinho sul piano del gioco cercando di circoscriverlo a paradigmi del tutto effimeri. Sarebbe molto più appropriato, forse, criticare lo Special One per il modo con cui utilizza la comunicazione con i media. Da più parti il tecnico di Setúbal è stato elogiato per la sua apparente capacità di attrarre le critiche su di sé drenandole a favore della squadra. La retorica del bene contro il male, del noi contro voi ai tempi dell’Inter, è emblematica sul modo con cui Mourinho ha cambiato la comunicazione sportiva. Se questa teoria appare parzialmente vera, è altrettanto importante far notare come spesso Mou utilizzi i media per affrontare lo spogliatoio.

Crisi interne spesso sono state appiccate, proprio come un incendio, da dichiarazione che José ha rilasciato alla stampa per far recepire il messaggio ad un calciatore o ad un dirigente, Bailly e Jones ne sanno qualcosa. Ai tempi dello United, Mou attaccò in conferenza stampa i suoi difensori, rei di aver procurato l’eliminazione in Carabao Cup calciando male i rigori. Episodi del genere spiegano come spesso in carriera José abbia avuto attriti e frizioni interne che hanno accresciuto il peso della sua figura mitica a spese della sua stessa carriera.

Come ogni personalità straripante e rivoluzionaria accoglie in sé, come yin e yang, aspetti che ispirano ed aspetti che invece offrono il fianco a critiche più o meno fondate. L’obiettivo di Mourinho spesso è quello che può essere riassunto nel “purché se ne parli”. Una calamita di attenzioni mediatiche, una sorta di santone del calcio, un’esteta di un mondo che vede solo lui, un visionario. Chiamatelo come credete, tranne pirla, perché come lui stesso disse in una delle sue più iconiche conferenze stampa, non lo è.

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