Armando Picchi

Armandino ha fatto tutto di volata

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L’Inter è una squadra dalla storia centenaria, costellata di grandi campioni e grandi capitani, da Giacinto Facchetti a Beppe Bergomi, fino a Javier Zanetti. Il capitano più importante della storia nerazzurra? Armando Picchi, parola di Massimo Moratti. L’ex presidente dell’Inter ha riconosciuto in lui doti uniche per quanto riguarda il senso di comando e di controllo che, a suo parere, il difensore labronico dimostrava con naturalezza.


Da Livorno al tetto del mondo

Armando Picchi nasce a Livorno il 20 giugno 1935 e, dopo un’infanzia regolare senza eccellere né a scuola né altrove, viene ingaggiato dalle giovanili della società della sua città natale, nell’anno in cui suo fratello maggiore Leo si appresta a passare dal Livorno al Torino, durante la rinascita post tragedia di Superga.

A diciannove anni, sotto la guida di Mario Magnozzi, esordisce in prima squadra e in poco tempo diventa un baluardo amaranto: dopo un primo spostamento da mezzala a terzino, colleziona più di 100 presenze riuscendo a segnare anche 15 gol. In lui i familiari, gli amici e anche i colleghi riconoscono – e riconosceranno, anche dopo – tutte le particolarità caratteriali che sono solite appartenere all’animo livornese: schietto, orgoglioso e sempre con battuta pronta.

La sua carriera è solo agli albori, ma nell’ambiente calcistico si percepisce già la caratura morale e professionale che Armandino possiede, e che lo porterà sul tetto del mondo. Armandino, sì, come lo chiamano amici e familiari. E non solo, perché di lì a poco si spargerà in città il detto «e c’hai i piedi di Armandino», modo di dire popolarizzato proprio in quel primo periodo livornese – durante il quale Picchi veniva preso come riferimento e leader tecnico e caratteriale della squadra – e fortificato, poi, negli anni a venire.

Armando ama Livorno e il Livorno, e per questo vi resta per cinque anni, ma il suo talento smisurato non può rimanere confinato in Serie C, e – non senza dispiacere – nel 1959 passa alla SPAL. La tappa di Ferrara è breve ma essenziale per mostrarsi agli occhi del grande calcio italiano, conquistando da protagonista un quinto posto in Serie A – miglior risultato nella storia degli estensi. L’estate successiva viene ingaggiato per 24 milioni di lire dall’Inter di Angelo Moratti.

A Milano, Helenio Herrera inizia ad impiegarlo come libero, ruolo nel quale si affermerà come uno dei massimi interpreti della storia del calcio italiano. In seguito all’addio di Bruno Bolchi, diventa capitano di quella squadra che passerà alla storia come la Grande Inter, un capitano non imposto dalla società ma scelto dai compagni. Per loro Armando era un punto di riferimento assoluto, l’uomo che si assumeva ogni responsabilità, la guida in campo e fuori. Con la maglia nerazzurra Picchi colleziona 257 presenze in sette stagioni, durante le quali riesce a vincere tre Serie A, due Coppe dei Campioni e due Coppe Intercontinentali.

Nonostante le numerose competizioni vinte e il successo avuto dalla Milano nerazzurra in quegli anni, nel 1967 Armando, in seguito all’ennesimo contrasto con Herrera dovuto al suo carattere benevolo ma deciso, viene venduto al Varese, dopo che l’allenatore argentino aveva messo la dirigenza del Biscione di fronte ad un’ardua scelta: «o lui o io».


L’addio al calcio e alla vita

In Nazionale riceve la prima chiamata soltanto dopo i grandi successi con l’Inter, ma in azzurro non riuscirà mai a trovare grande spazio. Anzi, proprio durante una partita con la Nazionale si infortuna gravemente: il 6 aprile del 1968, infatti, subisce la frattura del bacino durante Italia-Bulgaria, match di qualificazione per l’Europeo dello stesso anno. Europeo trionfante a cui non riuscì a partecipare proprio a causa proprio di questo sinistro, che chiuse in anticipo la sua carriera azzurra.

A dirla tutta, arrivato all’età di 33 anni, l’infortunio preannuncia la fine della sua carriera da calciatore in generale, con la breve parentesi al Varese che dura appena due stagioni, di cui la seconda da allenatore-giocatore.

Appende dunque gli scarpini al chiodo, e subito torna nella sua Livorno, nel ruolo di allenatore. Armando Picchi salva i toscani da una retrocessione in Serie C che sembrava ormai scontata: nel giro di poche settimane permette alla squadra labronica, presa in carico da ultima, di risalire la classifica e di chiudere il campionato al nono posto. Così come quando calcava i campi di gioco, durante le sue prime esperienze da mister, si notano e sono palesi fin da subito le sue qualità carismatiche e umane.

L’anno seguente, infatti, Giampiero Boniperti lo chiama ad allenare la Juventus che, in quel periodo, stava subendo un processo di svecchiamento e stava introducendo in prima squadra giovani del calibro di Fabio Capello e Roberto Bettega. Nonostante la difficile sfida – intrapresa da tecnico più giovane della Serie A –, riesce comunque a guidare la squadra bianconera a un campionato di vertice, almeno fino a quando la malattia lo obbliga a non poter più assistere il giovane gruppo juventino.

Già, perché Armando viene colpito da un cancro alla spina dorsale, e già nei primi mesi del 1971 è costretto a defilarsi e lasciare la guida a Čestmír Vycpálek. Le sue condizioni andavano peggiorando e per l’ultima gara vista dalla panchina dei bianconeri, avvenuta il 7 febbraio del 1971, si racconta di come non riuscisse neanche a sedersi, tanto era il dolore che percepiva nella parte lombare della schiena.

Nei mesi successivi la malattia lo logora sempre di più, ma nonostante una fine ormai vicina non perde mai quel senso di empatia, generosità e rispetto che lo avevano sempre contraddistinto. Il suo calvario termina il 26 maggio del 1971, ma l’annuncio della sua morte arriva soltanto il giorno dopo, su sua espressa richiesta, per non turbare i suoi ragazzi della Juve, impegnati la sera della sua dipartita nella finale di Coppa delle Fiere contro il Leeds di Don Revie. L’ennesima dimostrazione di grandezza dell’uomo Picchi.

La notizia della sua scomparsa, a soli 35 anni, trascende il dolore della sola famiglia e genera un silenzio assordante in tutta Livorno. I funerali della sua morte bloccano una città intera, con chilometri di file che lo accompagnano nella sua ultima cavalcata.

Armando Picchi era un figlio di Livorno, il ragazzo che da una cittadina toscana era riuscito a calcare scenari internazionali e ad alzare al cielo i trofei più importanti. Nell’epoca della ripartenza e della ricostruzione post Seconda Guerra Mondiale, la figura di Armandino era divenuta per i livornesi un motivo di vanto e una vera e propria icona a cui aggrapparsi in anni così fragili.

Il poeta vernacolare Gino Lena, in seguito alla sua morte, gli dedicherà una poesia proprio dal titolo ‘Armandino‘, in cui sottolinea come in poco tempo Armando Picchi si sia fatto conoscere in tutta Italia e nel mondo. Riassumendo brevemente la sua carriera arriva, con i versi finali, a evidenziare come sia stato così precoce in tutti i suoi traguardi, per sottolineare come, nonostante il destino della sua morte fosse già segnato, la sua caparbietà e il suo estro abbiano fatto in modo che potesse comunque diventare uno dei personaggi più rilevanti della storia del calcio italiano.

C’era scritto nel libbro der Destino
e quand’è scritto lì nun pòi fa niente
ti ci rimane ‘r pianto solamente
su quella fredda bara d’Armandino.

È sembrato lo spazio d’un mattino
e lo ‘onosce già tutte le gente,
t’ha fatto una ‘arriera sorprendente
dell’Italia doventa ‘r beniamino.

Poi, posate le scarpe bulonate
a Coverciano fece ‘na guappata
e le zebre juventine l’ha allenate

Io mi domando: Perché fu così?
Perché t’ha fatto tutto di volata?
Che discorsi; ciaveva da morì.


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