Ancora tre minuti indenni, e tutto quello che sto per scrivere non sarebbe mai esistito, sostituito da parole glassate di gioia, di estasi totale. Sarebbero dovuti passare ancora tre minuti indenni e sarei rimasto in giro, a martellarmi i timpani con i clacson e le trombette, nella macchina assieme ad altri quattro amici, sotto una nuvola fantozziana, ma gonfia di felicità, che mi avrebbe, e avremmo, inseguito per chissà quanti giorni, settimane, mesi.
Dovevano trascorrere ancora tre minuti indenni, e la pioggia che le nuvole reali ci avevano scaraventato contro avrebbe avuto un senso: un senso di delirio sociale mescolato alla furia della natura, di partecipazione alla stoica sofferenza dei giocatori, a cui chiedevamo, con la massima disperazione e, allo stesso tempo, una speranza crescente, un ultimo sforzo.
Mi sono trovato, all’una inoltrata di notte, a iniziare a scrivere quello che state leggendo, perché in quei tre minuti, invece, è successa una cosa che ha cambiato tutto. Al 94′ di Bari-Cagliari, Leonardo Pavoletti ha deviato da pochi passi, con un sinistro volante, un cross dal limite destro dell’area di rigore, siglando lo 0-1 e sciogliendo i cuori dei quasi 60.000 baresi presenti, scivolati via come le gocce di pioggia sui sedili del San Nicola.
Nessuna delusione calcistica nella mia vita aveva mai sconquassato la mia anima in modo anche solo lontanamente paragonabile alla visione, un po’ distorta per le lenti zuppe dei miei occhiali, quindi ancora più simile a un orrendo viaggio onirico, del gol di un uomo entrato all’inizio del recupero solo per fare il suo lavoro, che però era parso più quello del boia che dell’attaccante.
Ho scoperto cosa significhi trovarsi di fronte Medusa. Il mio volto richiamava quello, già iconico, di Cillian Murphy nei panni di un assente Robert Oppenheimer, mentre la fabbrica della mente si prodigava a sfornare una mole di sinapsi più amare del più amaro dei caffè non zuccherati. Prima, razionalmente, mi sono appellato all’ultimo verdetto e insperato salvatore del calcio moderno, il VAR, affinché trovasse una qualche minima, esagerata, invisibile irregolarità nel gol; poi, irrazionalmente, ho aspettato che la realtà risolvesse il glitch davanti ai miei occhi.
Subito dopo, ho percepito la vacuità di ogni suono scagliato via dalla mia laringe fino a quel momento, e ho realizzato che non avrei abbracciato i miei amici a fine gara. Non avrei ascoltato un clacson suonare per la gioia, ma solo per invitare qualche automobilista nella coda post-partita a muoversi.
Un sussurro fantasma mi ha detto che non saremmo mai più tornati in Serie A, e un senso d’odio per questo sport mi ha investito come una scarica elettrica. Ho pensato che forse non sia solo retorica paragonarlo a una droga. In fondo, questo stupido gioco a cui ci attacchiamo costantemente, morbosamente e in maniera poco compresa da quasi tutti, con il quale non sai mai se passerai una bella serata o meno, da cui sono scaturiti alcuni dei più grandi dolori personali, che ti scarrozza come un auriga nel cielo e poi ti risputa sulla terra, rompendoti tutti i denti nell’impatto… a cos’altro lo puoi paragonare?
La mestizia dell’uscita collettiva dall’Astronave schiantata su un asteroide poteva, di primo acchito, ricordarmi una delle processioni pasquali tanto amate a Molfetta, la mia città, se non fosse che questa fosse tutt’altro che attesa o ricercata. Camminavo senza riuscire a proferire parola, mentre tutto attorno stava un ronzio di tentate spiegazioni, formule di incredulità e ricerche di consolazione: «non puoi chiuderti in difesa tutta la partita», «bastava non abboccare alla finta», «potevano almeno segnare subito, così è tremendo», «e va beh, quest’anno è andata così». Poggiavamo le scarpe nella fanghiglia che ora mi faceva schifo, e in cui invece mi sarei quasi buttato se le cose fossero andate in un altro verso.
Una volta in macchina, ci siamo trovati davanti all’ovvia volontà di tutti: andare via il prima possibile da quel luogo maledetto. Chiaramente, però, la volontà di tutti ha prodotto il movimento di nessuno. Un’ora abbondante fermi in macchina, per imbastire una prima, obbligata seduta di terapia per il trauma appena vissuto, abbandonandosi a un masochistico scrolling sui social, forse per sgombrare dalla home il più velocemente possibile i post dedicati alla gara, forse perché, pur di stare davanti al telefono e far passare il tempo, ci sottoponiamo anche a volontarie torture.
Quando l’auto ha iniziato a muoversi, le bocche hanno smesso. Ognuno ha passato il ritorno a casa a rimuginare per conto proprio, a fare i conti con quello che veniva dopo. Io, con la mano che si andava a fondere con la guancia, pensavo che la maniera migliore per espletare quella sofferenza lacerante fosse quella che uso sempre in situazioni del genere: scriverne. Pensavo che per Bari e la Bari le cose, evidentemente, siano destinate a essere sempre straordinarie nella difficoltà; che qui ci si abitui più alle sorprese in negativo che a quelle in positivo, diversamente da molte altre grandi città d’Italia; che i nostri sogni pesino sempre più della realtà. Poi la mia mente è volata ad agosto, e mi è venuta una voglia matta di esserci alla prima in casa, far parte di un coro tuonante che spazzi via, come un temporale, la polvere dei brutti ricordi. Mi sono ritrovato di nuovo un cuore nel petto, batteva per la Vecchia stella del Sud.
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