Il 2 luglio del 1994 dodici colpi di mitragliatrice squarciano la notte di Medellín. Andrés Escobar giace senza vita nel parcheggio del bar Padua, sette mesi dopo la morte di un altro Escobar, Pablo. È la data che segna definitivamente l’implosione dell’intera Colombia e del suo sistema, divenuto ormai insostenibile.
In Sud America il calcio è da sempre il tessuto connettivo su cui si regge la vita quotidiana – e non solo – dei cittadini. Pervade la cultura, l’economia e la politica. Allo stesso tempo il fútbol è influenzato da queste categorie, e spesso utilizzato per scopi che con il gioco hanno a che fare ben poco – basti pensare all’uso propagandistico che la giunta militare Argentina fece del Mondiale 1978. La Colombia è l’emblema di come questo legame a doppio filo possa divenire claustrofobico, e trasformarsi infine in tragedia. Non è la politica a legarsi al calcio colombiano, ma la criminalità organizzata, in un contesto dove l’una e l’altra sono spesso due facce della stessa medaglia.
La complessa architettura messa in piedi dal Patrón del narcotraffico Pablo Escobar si estende come una mano invisibile sul territorio, e le tre grandi città del paese – Medellín, Bogotá e Cali – godono tutte di un proprio cartello. Le famiglie al comando comprendono l’importanza del calcio come catalizzatore sociale, e già alla fine degli anni Ottanta provvedono ad associare il loro nome a numerose iniziative volte a far crescere il movimento calcistico colombiano: creazione di infrastrutture, investimenti in squadre locali come l’Atlético Nacional – che arriverà a contendere la Coppa Intercontinentale al Milan di Sacchi –, offerte faraoniche per trattenere i talenti nazionali in patria.
Lo sviluppo non è stato a senso unico però. Mentre il movimento cafetero si arricchiva, arrivando a sfornare una generazione di campioni, il narcotraffico si insinuava e prosperava come un parassita, facendo leva proprio sugli investimenti compiuti. Le famiglie ripulivano la loro immagine, accrescendo la popolarità tra i cittadini e sostituendosi allo Stato, e inoltre l’enorme mobilitazione di capitali permetteva di riciclare facilmente il denaro illecito proveniente dalle attività “trasversali”.
È questo l’humus su cui posa la Nazionale colombiana più forte di sempre, prevalentemente formata da giocatori provenienti dal campionato locale. In difesa giganteggiavano Andrés Escobar e Luis Carlos Perea, entrambi colonne dell’Atlético Nacional. L’attacco era composto da Adolfo Valencia – passato in Europa per Bayern Monaco e Atlético Madrid – e Faustino Asprilla. Ma su tutti spiccava il talento dalla cristallina indolenza di Carlos Valderrama, in grado di vedere spazi che ad altri nemmeno sembravano esistere. Per el Flaco Menotti, Valderrama era «un mago dell’intelligenza, che conosce la posizione dei suoi compagni quasi senza guardarli e che gli consegna il pallone come se lo facesse con le mani». Fu Francisco Maturana ad amalgamare i talenti di quella grande Colombia, capace di gestire giocatori dalla personalità forte in modo ordinato, ma senza imbrigliarli in schemi che potessero fiaccarne l’inventiva.
A creare un alone di leggenda attorno ai Cafeteros fu la partita disputata contro l’Albiceleste al Monumental nel 1993. In palio c’era la qualificazione diretta ai Mondiali USA ’94, e i colombiani si imposero senza possibilità di appello. Al novantesimo il risultato recitava 5-0 per gli ospiti, con una prestazione indimenticabile. Quello fu il ventisettesimo risultato utile consecutivo, che permise alla Colombia di qualificarsi al Mondiale.
L’impresa compiuta spostò in avanti l’orizzonte del possibile per una Nazione che non aveva mai avuto grandi pretese, oscurata sin dalla nascita del gioco da Uruguay, Brasile e Argentina. Nel paese si percepiva una crescente agitazione, fomentata sia dalle personalità di spicco dell’epoca – Pelé e addirittura il bardo Gabriel García Márquez scommisero entrambi sulla vittoria del Mondiale della Colombia – sia dalla stampa. Lo sponsor della Nazionale era infatti proprietario di molte testate giornalistiche colombiane, su alcune furono riportati addirittura i vaticini degli aruspici che assicuravano grandi imprese per la squadra nell’immediato futuro.
La presenza dello sponsor in questa doppia veste non portò solo entusiasmo, ma anche alte aspettative: fu un fuoco che si autoalimenta, fino a diventare ingestibile. Molte famiglie iniziarono a scommettere, senza rendersi conto che la situazione dipinta dai media era in realtà gonfiata, distorta. Il circolo vizioso aveva naturalmente coinvolto anche i cartelli. Fu questa la prima crepa evidente nel sogno colombiano, una pressione per i giocatori difficilmente gestibile alla vigilia di un Mondiale, evento per definizione carico di tensioni.
All’appuntamento con la Coppa del Mondo, la Nazionale colombiana si presentò in una precaria forma fisica, dovuta al gran numero di amichevoli disputate durante il periodo di preparazione, ma era la condizione psicologica dei giocatori a preoccupare: Pablo Escobar era morto da pochi mesi e al suo posto regnava il caos. Lo stesso allenatore Maturana dichiarerà: «La legge del capo è la legge della terra. Quando Pablo Escobar è morto, la terra ha tremato e il vento ha gridato “Pablo Escobar!” A partire da quel momento, dovevi stare sempre in guardia. Non potevi fidarti di nessuno».
Il clima in patria era sempre più surreale: René Higuita, simbolo della squadra e interprete di uno stile di gioco rivoluzionario per i portieri dell’epoca, scontava una pena in carcere, colpevole ufficialmente di aver fatto da tramite tra una famiglia e dei rapitori narcotrafficanti per far rilasciare un bambino. In realtà lo Stato cercava di punire il legame sempre più evidente tra i giocatori della Nazionale e gli ambienti della malavita. Inoltre, qualche mese prima dell’inizio dei Mondiali, il figlio più piccolo del centrocampista Luis Fernando Herrera venne rapito.
Così, nella partita d’esordio contro la Romania, i colombiani caddero sotto gli splendidi colpi di Hagi, futbolista de rasa, considerato il miglior giocatore rumeno di tutti i tempi. La Tricolor era stata decisamente insufficiente, ma nonostante questo, la partita contro gli USA rimaneva abbordabile.
Precedentemente al secondo match arrivarono però le prime minacce di morte verso i giocatori, in una macabra anticipazione di ciò che sarebbe accaduto poche settimane dopo. «Se Gómez gioca faremo saltare in aria la sua casa e quella del CT Maturana», recitava il fax anonimo recapitato all’albergo dove alloggiava la squadra. Il mediano era sempre stato nell’occhio del ciclone per i rapporti di parentela con il viceallenatore della Nazionale e per il suo essere poco appariscente sul campo da gioco. Gómez non prese parte alla gara, e Asprilla dichiarerà, tempo dopo: «Come si fa a giocare tranquilli quando uno di noi è minacciato? Noi non siamo estranei, siamo amici, abbiamo sentito quel messaggio come rivolto a tutti. Ci siamo sentiti minacciati tutti, e siamo andati in campo preoccupati».
I giocatori entrano nel rettangolo verde per lo spareggio contro gli USA in un clima a dir poco funesto. La partita sembra stregata. Nel primo tempo la Colombia avrebbe potuto portarsi in vantaggio più volte ma nessun tentativo riesce ad avere successo. Di sicuro non furono fortunati i cafeteros, ma qualcosa nella squadra continuava a non funzionare per il verso giusto. Al minuto trentaquattro perdono malamente la palla a centrocampo, permettendo ad Harkes di crossare in area. Escobar si allunga per provare ad anticipare l’avversario, ma la palla finisce nella propria rete. La squadra non riesce a rialzarsi, e anzi al settimo della ripresa gli Stati Uniti raddoppiano con Stewart, lanciato da Ramos. Il gol di Valencia al novantesimo serve soltanto a fissare il 2-1 finale. A nulla valse anche l’ultima partita vinta contro la Svizzera.
Alexis García, altro centrocampista della rosa, disse di aver riconosciuto sul volto di Andrés Escobar un panico profondo al momento dell’autogol, come una premonizione. Nessuno della squadra ce l’aveva con lui, provavano solo paura per il dopo. E il “dopo” si presentò al rientro in patria. In Colombia tutti i problemi nascosti sotto il tappeto per più di un decennio sembrarono sul punto di esplodere, ora che anche il velo di speranza portato dalla Nazionale si era dissolto.
Andrés Escobar si rese conto del sentimento generale diffusosi nel paese come veleno, e cercò di arrivare al cuore della Nazione con una lettera sulla testata ‘El Tiempo‘: «Resta una sensazione amara perché riteniamo che sia stata sprecata una grande opportunità per riconoscere i progressi del calcio colombiano. C’è un fenomeno che non è solo colombiano: quando si perde, gli stracci vengono sempre portati fuori al sole e il più piccolo dettaglio serve ad aumentare una pentola a pressione per cercare di farla scoppiare. Eravamo in crisi, non siamo stati in grado di reagire nei momenti difficili, abbiamo ammesso di essere responsabili e siamo tornati con molta più amarezza quando abbiamo capito che saremmo potuti passare al secondo turno. Peccato. Ma per favore, continuate a rispettarci. A presto, perché la vita non finisce qui».
Ma la vita di Andrés finì proprio con quel Mondiale. I suoi sogni di una carriera in ascesa, di speranza per un Paese migliore, si spensero con lui in un parcheggio di un bar di Medellín. Troppo denaro era stato perso dai cartelli colombiani per quell’autogol. Il giovane ventisettenne fu il capro espiatorio di un paese intero. «Per tutti ha pagato il più bravo, semplicemente il più bravo. Quello che per doti umane e calcistiche era destinato a essere per sempre un modello per questo Paese», come dirà Maturana.
Fu il momento in cui il Paese andò incontro a una presa di coscienza collettiva, lo sguardo sconvolto sulle sue mani, ricoperte di sangue. Oltre 100.000 colombiani salutarono il corpo di Andrés Escobar in una bara di legno, coperta da una bandiera verde e bianca del Nacional. La Colombia del ventunesimo secolo deve molto ad Andrés Escobar. Da quel giorno, come colpito dalla forza di un Big Bang, il Paese ha ricominciato ad espandersi.
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