Argentina '78

Sangre y dolor, el Mundial di Argentina ’78

PSS Slider

Manuel José Joaquìn del Sagrado Corazòn de Jesùs Belgrano y Peri è un nome che solo a leggerlo, con la giusta pronuncia, ci si impiega in media dai due ai tre minuti. Occorrerebbe molto più tempo, invece, per narrarne le gesta che si intrecciano con le sue origini italo-argentine. Figlio di immigrati italiani, è il primo a pensare ed a issare, sul suolo di Rosario, la bandiera albiceleste. Le due bande azzurre orizzontali abbracciano una banda bianca, con al centro il Sol de Mayo, simbolo della resistenza e dell’indipendenza argentina dalla Spagna. Da qui nasce un viaggio che da Manuel Belgrano passa per Rosario, città simbolo del Mondiale 1978, arrivando al Monumental di Buenos Aires. Un viaggio alla scoperta dell’Argentina, della sua storia e del Mondiale più discusso di sempre: el Mundial di sangre y dolor del 1978.



L’Argentina è un paese dalle infinite anime e dagli infiniti colori, dai sogni sgargianti e dalle storie uniche che trascendono la realtà. Un solo aggettivo per descriverla è difficile, molto difficile, da trovare. Bella, fragile, tormentata, malinconica, terra di poeti e scrittori che non si limitano a scrivere ma piuttosto a narrare, a romanzare ogni aspetto che li circonda. Mostri sacri come Jorge Luis Borges, Julio Cortàzar, Adolfo Bioy Casares ci insegnano come l’Argentina non si limiti ad essere uno stupendo paese in senso etnico-paesaggistico, ma piuttosto come essa rappresenti un vero e proprio modo di essere a cui è inutile opporsi.

Desde el norte de Rosario hasta Bell Ville

Tra Rosario e Bell Ville intercorrono circa 209 km di distanza, due sole ore di macchina. Nessuno in Argentina, prima del 1978, ha mai pensato alla distanza che separa le province di Santa Fe e Córdoba, dove sono locate rispettivamente Rosario e Bell Ville, nessuno ha mai immaginato che el Flaco Menotti e Mario Kempes potessero incontrarsi a metà strada, stringersi la mano, scrivere la storia e poi salutarsi dandosi le spalle.

César Luis Menotti, detto el Flaco per via del suo aspetto magro e longilineo, nasce a Rosario nel quartiere più a nord chiamato Arroyto. Proprio vicino al Gigante, lo stadio del Rosario Central, all’interno del quartiere Arroyto, i muri sono dipinti come fossero opere d’arte e più si presentano in cattivo stato, maggiore è il loro valore iconico. In Argentina l’arte va oltre il valore di un murales, di un dipinto, di un romanzo o un tango: l’arte è ciò che un uomo riesce a fare della propria vita ed il Flaco sa bene cosa fare, Menotti riporta la nuestra a casa. Il calcio per gli argentini è uno sport importato da inglesi ed europei, ne esce fuori un misto esplosivo, tradotto a loro modo: la nuestra. È un calcio tipicamente basato su estro e fantasia che si è perso di vista dopo i fallimenti mondiali del ’70 e del ’74.

In Sud America il calcio è epica ed il momento epico per eccellenza è rappresentato dall’incontro tra Menotti e il Matador Mario Kempes. L’attaccante di Bell Ville nel ’74, anno in cui Menotti inizia il suo cammino in Nazionale, vanta 43 presenze condite da 33 reti nel Rosario Central e l’esperienza mondiale del ’74, seppur pessima per l’Abiceleste, che viene fatta fuori al primo turno. El Matador è uno di quei campioni che potrebbero giocare benissimo in un calcio moderno, è dotato di forza e grande tecnica, un terremoto muscolare che lo rende un diez atipico ma devastante.

Alle doti tecniche si aggiunge la capacità di essere un leader silenzioso, un umile tra i campioni. Basti pensare che nel giorno del suo provino da professionista, per l’Instituto de Córdoba, si presenta sotto falso nome per non condizionare chi lo provina, essendo già famoso in tutta la provincia.

I cardini di quella Selección sono rappresentati da Menotti e Kempes, che in comune hanno anche l’avversione alla barbarie umana, rappresentata in quel determinato momento storico dalla dittatura argentina del generale Videla.


Una squadra, un uomo, un popolo

Il Mondiale di Argentina 1978 si gioca in un’atmosfera surreale. Nel 1976 viene deposto l’anziano Perón, con un colpo di stato militare, che porta al potere il generale Videla. La dittatura militare si presenta in prime battute aperta al dialogo, in contrasto con le sfumature assolutiste di Perón, attirando anche l’attenzione di intellettuali come Borges. Come il peggior incubo, però, la vera faccia della dittatura si mostra dopo poco tempo, i dissidenti scompaiono senza lasciare traccia. È una strage silenziosa, la strage dei desaparecidos. Iconica è l’immagine di una marea di mamme, vestite di bianco, in contestazione a Plaza de Mayo per riavere indietro chi non c’è più.

In questo contesto il calcio è un buon modo di fare propaganda, Argentina 1978 è un passepartout per rendere digeribile la dittatura agli occhi del mondo dopo le contestazioni. Calcio e politica da sempre hanno avuto forti legami, e in questo caso il calcio rappresenta il grimaldello con cui Videla tenta di fare breccia nelle grazie dell’opinione pubblica mondiale.

Ai nastri di partenza le grandi favorite sono, senza alcun dubbio, la Germania Ovest, il Brasile, i Paesi Bassi orfani di Cruijff, per scelta personale, e una giovanissima Italia di Bearzot. Il Mondiale è suddiviso in quattro gironi alla fine dei quali le seconde dei rispettivi gironi si affrontano in altri due gruppi da cui vengono fuori le finaliste.

L’Argentina di Menotti gioca un calcio affascinante, un 4-3-3 con stelle come Passarella, Ardiles e Kempes. Un particolare da segnalare è la mancata convocazione di un giovanissimo Maradona, considerato ancora acerbo.

La nuestra sembra essere tornata a casa, nonostante qualche difficoltà nel primo girone, in cui la Selección si qualifica al secondo posto subito dopo l’Italia. Dai secondi gruppi di qualificazione verranno fuori come finaliste i Paesi Bassi, che disputano la loro seconda finale consecutiva, e l’Argentina di Kempes. L’approdo in finale non è dei più semplici. All’interno del secondo girone di qualificazione, Menotti e compagni affrontano Brasile, Polonia e un ispiratissimo Perù.

Il viaggio intorno ad Argentina 1978 si riconduce sempre ad una sola città, la città di Menotti, la città che vede crescere Kempes, la città dei murales di Arroyto: Rosario. Proprio a Rosario va in scena l’ultima gara del secondo girone di qualificazione: al Gigante di Arroyto si affrontano Argentina e Perù. Il Brasile di Zico, dopo aver battuto i peruviani e pareggiato con la Selección, vince 3-1 nel pomeriggio di quella stessa giornata contro la Polonia. L’Argentina con una vittoria può solo pareggiare i 5 punti in classifica dei rivali sudamericani, e ha bisogno di almeno quattro gol di scarto per ottenere una differenza reti superiore e arrivare in finale.

Menotti inserisce quattro attaccanti che, in una partita che per usare un eufemismo potremmo definire parecchio sospetta – con tanto di visita agli spogliatoi ospiti del generale Videla a braccetto con Kissinger prima del fischio d’inizio –, aiutano l’Albiceleste a superare agilmente il Perù per 6-0. È finale per l’Argentina.



Il Monumental è uno spettacolo danzante da 80.000 spettatori, un cuore pulsante al centro di Buenos Aires che annuncia il giorno di una finale storica. La partita viene giocata sotto gli occhi del generale Videla e in merito a questo episodio, Menotti pronuncia uno dei discorsi più iconici della storia del calcio argentino: «Siamo il popolo, veniamo dalle classi oppresse e rappresentiamo la sola cosa che ha legittimità in questo paese: il calcio. Non stiamo giocando per le tribune di lusso, pieni di ufficiali dell’esercito. Rappresentiamo la libertà, non la dittatura». El Flaco, che abbracciava da sempre l’ideologia comunista, è in netto contrasto con l’operato di Videla, del quale non condivide gli atteggiamenti e le azioni.

La partita è affrontata in maniera molto dura. Alla rete di un ispiratissimo Kempes risponde Nanninga per gli Oranje, rinviando la contesa ai supplementari. Nei tempi addizionali ancora Kempes e poi Bertoni stendono però i Paesi Bassi. L’Argentina vince il Mondiale del 1978, Videla ha portato a termine la sua missione surreale, ma Mario Kempes e César Menotti non sono d’accordo e chiudono il cerchio della loro magica storia. Rappresentando una squadra, un popolo e il rispetto per sé stessi, el Matador ed el Flaco non stringono la mano a Videla dichiarando di averlo dimenticato: è pura fisica degli istanti.

Kempes qualche tempo dopo dichiarerà: «non volli salutarlo di proposito», chiudendo così una storia di sport, di sangue e di uomini. Due leader silenziosi che si oppongono alla dittatura, al dolore, alla cattiveria di un uomo, prendendo a calci un pallone.

Durante le partite dell’Argentina le torture del regime vengono sospese per poi ricominciare subito dopo la fine delle competizioni. In quei 90 minuti Menotti, Kempes, la nuestra regalano sollievo e gioia ad un popolo intero. Le loro gesta contrastano il dolore, donano 90 minuti di speranza. Rosario e Bell Ville unite contro la dittatura, a rappresentare due uomini che si incontrano a metà strada, che abbracciano un intero paese e che una volta salutati si danno le spalle e continuano a tenersi tra i ricordi, riscrivendo la storia a loro piacimento.

Leggi anche: La Selección fantasma



  • Sangre y dolor, el Mundial di Argentina ’78: Pubblico dominio