Cosa succede quando una coppia mai davvero in crisi si separa all’improvviso, senza una reale comprensione dell’accaduto, senza una parola chiarificatrice tra le parti che salvi il più che salvabile? Ci si ritrova a ricostruirsi senza averne la convinzione, né la preparazione, alla ricerca incidentale del primo tappo per il foro che non si sapeva di avere all’altezza del cuore. Oppure si ragiona, si studia attentamente quel foro e si ricerca con minuzia di chiuderlo facendo crescere nuova pelle.
In molti avrebbero pensato nell’estate 2024 che la prima situazione si riferisse al Bologna e la seconda a Thiago Motta, eppure eccoci qui. I felsinei sono reduci da un altro campionato straordinario con il “nuovo” mister Vincenzo Italiano, responsabile dell’averli ricandidati al ruolo di big emergente del nostro campionato, Thiago invece è svincolato e non per scelta, dopo il fallimento fragoroso della sfida calcistica forse più allettante al momento nel nostro paese, la ricostruzione in un piano almeno triennale della Juventus, per riportarla a lottare per lo scudetto.
Ad ogni modo, se la maggioranza dell’opinione pubblica riteneva che Motta fosse quello più propenso a cadere in piedi una volta lasciata l’Emilia, non è per mera faziosità. E se oggi con Italiano i rossoblù sembrano essersi stabilizzati nelle zone alte della classifica, mettendo in atto probabilmente il calcio più meticolosamente intenso del campionato, va dato atto al suo predecessore di aver piantato il seme con cui questa qualità è fiorita.
Rivitalizzando giocatori dalla retta via smarrita, trovando coraggiose chiavi di lettura a problemi ingombranti di partenza e infondendo nei suoi giocatori una consapevolezza e una saggezza che li ha resi capaci di superare tatticamente e mentalmente qualunque opponente, Thiago Motta è riuscito nell’impresa di far tornare il Bologna in Champions dopo sessant’anni. E se si trattasse anche del primo capitolo di una scalata da annali, tanto più vale la pena ricordarla raccontandola.
Cosa sarà
Quando il 28 dicembre del 2019 Thiago Motta viene esonerato dal Genoa, a due mesi di distanza dall’inizio della sua prima esperienza in panchina, la montagna di dicerie e pregiudizi sul suo conto da scalare farebbe impallidire qualunque allenatore alle prime armi. Il mister del chiacchierato e in realtà decontestualizzato “2-7-2” comincia la sua nuova carriera tra i professionisti non riuscendo a invertire la cattiva rotta del Grifone – che verrà poi salvato dal solito Davide Nicola –, dovendo poi attendere quasi due anni per potersi ripresentare su una panchina della massima serie nostrana.
Ma sin dai primi mesi allo Spezia, la prima squadra a restituirgli fiducia, si inizia a intravedere una concreta possibilità di ribaltare la sua percezione come tecnico, confermando il tutto con un’ottima salvezza sul Golfo dei Poeti, non senza dover dimostrare tutto il dimostrabile alla presidenza americana degli Aquilotti, a un certo punto a un passo dall’esonerarlo.
Forse senza l’autogol di Juan Jesus in quel Napoli-Spezia 0-1, il Bologna non sarebbe entrato in un nuovo universo a livello di aspirazioni sportive, o quantomeno non lo avrebbe fatto così velocemente. Invece in quella clamorosa vittoria sta un primo turning point rilevante per la carriera di Motta, che dopo aver completato la difficile missione spezzina deve comunque aspettare un esonero, quello del compianto Siniša Mihajlović, per trovare impiego nell’annata seguente.
Il 12 settembre 2022 l’italo-brasiliano diventa il nuovo allenatore dei rossoblù, e non ci vuole troppo tempo perché le cose inizino a migliorare: a parte un inizio titubante, con tre sconfitte, un pareggio e una sola vittoria in Coppa Italia con il Cagliari, il primo successo in A è un 2-0 al Lecce che inaugura una stagione esaltante, chiusa al nono posto e con un minimo assaggio di sogno europeo, vista la qualificazione da ottava alla Conference della Fiorentina distante due soli punti, post penalità alla Juventus per il caso plusvalenze.
Basta poco insomma perché la squadra inizi ad assorbire i dettami tattici proposti da Thiago: il 4-2-3-1 e le sue trasformazioni, le mille vie di uscita nella costruzione bassa, la versatilità interpretativa dei ruoli in campo, la ricerca costante di una disposizione ordinata difensivamente, in generale l’occupazione sapiente degli spazi, sono le chiavi di volta capaci di elevare notevolmente la forza dei bolognesi, andando oltre i limiti individuali.
Eppure non si tratta che del cantiere di un monumento ancora da ergere, dei primi versi di una canzone memorabile. Il Bologna di Thiago Motta, tanto solido quanto fluido e tanto sbarazzino quanto saggio, non ha ancora fatto niente.
L’estetica della scommessa vinta
Nell’estate successiva, Motta però sembra tutt’altro che piantato nel suolo dei colli emiliani. Il Napoli ha perso il condottiero del suo terzo storico scudetto, Luciano Spalletti, e corteggia quello che già appare come una grande promessa del nuovo ciclo di allenatori italiani.
Basta un solo colloquio con De Laurentiis a far crollare l’ipotesi, evitando di forzare un salto che già a priori appare prematuro; così la limatura degli spigoli tecnico-tattici può avere inizio, non senza ostacoli che si frappongano nella missione. Numero uno la partenza di Arnautović, oltre che leader caratteriale, uno sbocco strategico su cui direzionare palloni da mettere in cassaforte fisicamente, ma soprattutto una punta da lanciare con notevole pericolosità in verticale, oppure da cercare in area con i cross, minimizzando i tempi delle azioni in avanti. Già con i problemi fisici dell’austriaco nella scorsa stagione, i rossoblù avevano cominciato a sperimentare modi diversi di andare in porta, proponendo spesso Barrow, Orsolini o Sansone come “ali centrali”, che si scambiavano spesso tra di loro lasciando le difese senza punti di riferimento. Motta, erede evidente di elementi del gioco di posizione, aveva puntato da subito sul controllo della palla per attirare e ingannare la pressione e l’attacco dei mezzi spazi attraverso la loro occupazione preventiva, sfruttando delle punte “leggere” per coprire la zona d’attacco più avanzata.
Con l’addio di Arnautović, Thiago Motta si rende conto di avere qualcosa con cui potenzialmente riunire entrambe le modalità offensive del suo Bologna, un qualcosa che è un qualcuno: Joshua Zirkzee. Forse la più grande scommessa azzeccata nella sempre sapiente progettazione della rosa di Giovanni Sartori, Zirkzee si afferma brevi tempore come uno dei giocatori più unici in Serie A, anomalia a livello di compiti e rendimento in campo; non sembra mai trovarsi dove dovrebbe in quanto punta di riferimento, eppure basta che accarezzi la palla per capire che non è così. Spesso lo si vede ricevere spalle alla porta, contro una linea di difesa alta, oppure “scendere” più vicino o anche alle spalle delle ali per permettere al Bologna di palleggiare in mezzo al campo, e proprio in queste situazioni la delicatezza nello stop e nel tocco rapido lo rendono un rifinitore eccezionale, soprattutto per le mezzali che attaccano gli spazi vuoti in avanti, su cui lui cerca di portare via l’occhio, come dei ragazzini che fanno domande al professore per distrarlo dall’interrogazione già pianificata.
Ovviamente è una giocata fatta di due metà, perché scartare i cioccolatini che l’olandese dispensa è meno facile di quanto Lewis Ferguson faccia apparire. Lo scozzese si afferma come freak assoluto nel fondamentale dell’incursione degli spazi liberi, come palesano reti come quelle alla Juventus e alla Lazio, entrambe sull’asse fiammingo-albionico.
La prima (im)pressione è importante
Come molte squadre che adottano principi posizionali, il Bologna di Thiago Motta cerca il più possibile di far partire le sue azioni con la costruzione del basso, girando la sfera con pazienza per attirare la pressione e raggiungere gli spazi vuoti in avanti. I rossoblù non mostrano remore nel farlo contro nessun avversario, neanche all’ottava giornata, a San Siro contro l’Inter futura campione d’Italia, una delle squadre più abili nel segnare da riconquista alta – secondo i dati OPTA della stagione 2023/2024 –, fermata sul 2-2 dai ragazzi di Motta.
Qui possiamo notare il rombo d’impostazione, con i due centrali, un terzino – De Silvestri che rimane basso, mentre Lykogiannīs scala in avanti –, e Aebischer che fa da play pochi metri più in alto
Non bisognerebbe ripeterlo per la milionesima volta, ma chiaramente manovrare sotto pressione vicino alla propria area comporta ineluttabilmente dei rischi: in questo stesso video i nerazzurri conquistano palla in una zona invitante con Dimarco, e poi troveranno il momentaneo 2-0 allo stesso modo.
Ma spesso è così che i rossoblù costruiscono azioni molto pericolose, guardare per credere la già citata rete di Ferguson contro la Lazio, decisiva per battere i biancocelesti in un filotto di sei vittorie casalinghe consecutive. L’azione parte da un giro palla dei centrali, mentre Aebischer e Freuler sono marcati a uomo da Guendouzi e Rovella; il pallone arriva a Lykogiannīs che subito trova sul lungolinea Saelemaekers, da cui poi in tre passaggi si arriva al gol. L’interazione tra terzini e ali è dunque fondamentale per saltare ampie porzioni di campo e passare subito alla fase offensiva, e infatti in questo caso vediamo che gli stessi centrocampisti laziali sono in ritardo e Zirkzee gli è già avanti, pronto a fronteggiare Romagnoli e Patric.
Anche il primo gol al Frosinone di Di Francesco, solito pressare con continuità in zone alte, nasce attraverso la buona uscita dal basso in conduzione di Ferguson, che poi combina con Orsolini per mandare a vuoto tre uomini e attaccare a campo aperto.
Se il talento offensivo non sembra sprecarsi, la grande novità che emerge è l’organizzazione difensiva guadagnata dal Bologna, grazie a cui la prima imbarcata subita arriva soltanto a due giorni dal Capodanno, contro un’Udinese straripante sul profilo atletico che passa 3-0, portando soltanto la terza sconfitta stagionale. Organizzazione che si lega appunto anche alla questione della costruzione della manovra, come perfettamente incarnato dai due volti nuovi dell’estate 2023 che spiccano in tale contesto: Sam Beukema e Riccardo Calafiori, subito simboli di una compattezza e versatilità stupefacenti. Il primo, ottimo in conduzione e in lettura, tra i più precisi nel dosaggio e nella scelta dei passaggi; il secondo, sbucato fuori da terzino sinistro nei suoi primi scampoli alla Roma, acquistato dal Basilea semifinalista di Conference, trasformato in un factotum difensivo, capace di stare al centro con l’olandese, ma anche di agire da mediano davanti al triangolo di difesa basso, come “collega” di Aebischer. Il nuovo Bologna capace finalmente di superare una lacuna atavica chiude così un girone d’andata da quinto posto.
In questo frangente, ad esempio, lo osserviamo prima salire addirittura oltre Barella e Çalhanoğlu, per offrire una linea di passaggio avanzata a Lykogiannīs, e poi rientrare alle spalle dei due centrocampisti interisti, per liberarsi nello spazio lasciato da Barella, che si è alzato in pressione, andando in due contro due con Mkhitaryan e Çalha. Poco dopo, peraltro, da un suo ottimo anticipo su Lautaro si avvierà l’azione del pareggio finale.
Non è trincerandosi in una sola disposizione tattica che il Bologna si candida sempre più con convinzione all’Europa. Anche il lancio in verticale immediato, una mossa tanto ossimorica rispetto alla manovra a pelo d’erba, diventa un’arma spesso usata, per esempio sotto una pressione particolarmente efficace. Esemplare il gol del solito Zirkzee nell’1-1 col Sassuolo, un saggio della setosità dei piedi del ragazzo di Schiedam, ma anche di quelli di Aebischer, divenuto in breve perno della costruzione bassa e che a fine stagione sarà il sesto miglior giocatore nella percentuale di passaggi completati – 91,9%.
Ecco, se c’è un aspetto su cui migliorare nel girone di ritorno, quello è il rendimento in trasferta: nei 19 turni della prima virata, è solo contro la Salernitana già fanalino di coda che arrivano tre punti fuori dal Dall’Ara. Ma a dirla tutta, si tratta di un dato che non rende al 100% la bontà delle prestazioni fino a quel momento.
Difendere attaccando, attaccare difendendo
Perché arrivati a gennaio, il BFC riesce già nella terza impresa fuori casa: dopo aver fermato Juventus e Inter, blocca anche il Milan a San Siro con un 2-2 simile a quello coi cugini, anche se certamente condizionato da ben due rigori falliti dai rossoneri. Oltre al gol che sblocca la partita di Zirkzee, nato ancora da una verticalizzazione rapida, stavolta di Beukema, sul connazionale, ciò che emerge in questi scontri al vertice è un’arma che il Bologna di Thiago Motta applica con straordinarietà ossequiosità: il blocco medio a centrocampo, strumento che intimorisce e protegge, che azzarda e cautela.
I rossoblù non sono estremisti nel loro rapporto con il pressing: raramente lo portano dentro l’area di rigore, né però lo aborrano attendendo l’avversario nella propria metà. Piuttosto, preferiscono creare una o due linee di pressione nella zona che ritengono sia più utile neutralizzare, il primo quarto di campo avversario, dove i centrocampisti possono ricevere e, se lasciati liberi, guardare in avanti e far avanzare pallone e squadra.
Bloccare la recezione dei centrocampisti diventa quindi un’arma duplice, sia per trarre i difensori nell’errore di forzare il passaggio, con la possibilità di recuperare palla e avviare un’azione in una zona relativamente offensiva, sia per isolare sempre i centrocampisti dalla manovra, togliendo risolse creative.
Vediamo qui, nella gara d’andata contro il Milan di Stefano Pioli, una marcatura a uomo eseguita pedissequamente, con la peculiare scelta di Moro accanto a Zirkzee su Thiaw e Tomori, poi Ndoye e Ferguson su Theo Hernández e Calabria, infine il partente Nico Domínguez su Krunić. La mancanza di sbocchi in questa occasione costringerà Maignan a cercare di saltare il centrocampo, non riuscendoci e consegnando la sfera ai ragazzi di Motta.
Un altro esempio contro la Juventus di Max Allegri. Il Bologna è prima disposto su un 4-1-4-1, con Zirkzee che si stacca dal blocco per andare a disturbare i difensori, mentre Aebischer rimane dietro a coprire. Bremer supera la pressione ma non può servire né Chiesa né Fagioli, così va da Alex Sandro che, attaccato, gli restituisce la palla facendo perdere metri. La sfera arriva a Danilo – il quale, guardando con attenzione, è pressato da Orsolini su invito di Ferguson – che forza un passaggio diretto su Vlahović, intercettato intelligentemente da Moro. La Juve ritorna presto in possesso ma il Bologna, ora con un 4-2-4, costringe la punta serba a scendere letteralmente al centro del campo, dove Aebischer lo porta ad allargare male verso Alex Sandro; Ndoye recupera palla e subisce il fallo di Rabiot, anche ammonito.
Una fragilità tattica provata soprattutto nella prima parte della stagione dai ragazzi di Motta è la perdita di palloni sulla riconquista alta all’altra squadra: basti guardare il gol di Bonaventura nella sconfitta 2-1 a Firenze: con Kristiansen e Posch schiacciati dalle ali e la salita di Arthur e Duncan, che creano superiorità centrale, permettono alla Fiorentina di riconquistare il possesso, manovrare subito al limite dell’area e, nonostante un buon ripiegamento, bucare la difesa con l’ottimo lavoro di sponda e smistamento di Nzola.
Eppure il salto di qualità non mancherà nemmeno in questo particolare. Il 20 dicembre i felsinei ritornano a San Siro con l’Inter per un ottavo di finale in Coppa Italia. Dopo una partita tiratissima, che sembra spegnersi ai supplementari sul colpo di testa di Carlos Augusto che porta in vantaggio la squadra di Inzaghi, il Bologna ha la forza di recupera con un gol di Beukema da corner, servito da una magia di Zirkzee, e poi, sfruttando un’uscita avventata in pressione e ancora affidandosi a un preziosismo dell’ex Bayern Monaco, ribalta il campo in pochissimi passaggi e trova al minuto 116 con Ndoye l’1-2 che consente il clamoroso upset finale, che poco varrà concretamente – sarà ai quarti contro ancora la Viola di Italiano che il percorso si concluderà – ma segna ugualmente una nuova pagina di storia per il club.
Anche quando poi saremo stanchi
La marcia del Bologna nel girone di ritorno riesce ad essere ancora più entusiasmante del fulminante inizio del campionato: in un mese esatto, tra il 3 febbraio e il 3 marzo, arrivano cinque vittorie di fila, di cui due ancora in pesantissime trasferte con Lazio e Atalanta, entrambe per 1-2 – come tutte le altre vittorie fuori casa fino a quel momento, in un passivo che pare assumere i tratti di un portafortuna. Due sfide in cui il Bolo va sotto e non per caso, ma ha comunque la forza di ribattere radicandosi nelle ormai granitiche certezze tattiche e individuali: vedere il gol del sorpasso all’Olimpico contro i biancocelesti.
Solita interazione tra terzino – Kristiansen – e ala – Ndoye – che non viene neanche spezzata dal fallo, palla che arriva a Ferguson e poi Zirkzee “abbassatosi” per poter ricevere con spazio. Questi riallarga sul danese che dal fondo chiede il lungo triangolo con un grande assist ulteriormente impreziosito dal destro di controbalzo dell’attaccante.
Se la serie vincente si infrange contro l’infermabile Inter di Inzaghi, che infligge una sconfitta in casa che mancava dalla prima giornata, i rossoblù non mollano la presa, e compiono uno scatto decisivo di nuovo nella Capitale. La Roma vive un grandissimo momento di forma dall’arrivo in panchina di De Rossi, non perde da oltre due mesi e dista quattro punti dal quarto posto tenuto da Motta e i suoi, invece reduci da due pareggi con Frosinone e Monza che paiono mostrare un certo fiatone da fine annata.
Invece, la prestazione contro i giallorossi è imperiosa: già doppio vantaggio a fine primo tempo, dove brilla su tutto una rovesciata incredibile tanto per la fattezza, tanto per il marcatore: El Azzouzi, che aveva segnato il suo unico altro gol proprio nella precedente trasferta romana; nel secondo tempo, non solo il Bologna resiste al ritorno della Roma, che accorcia con Azmoun, ma la chiude con un altro gol pregevole, uno scavino in ripartenza di Saelemaekers, altro elemento trasformato da side character a protagonista assoluto, dopo gli alti e bassi al Milan.
È di fatto una fuga chiave, il cuscinetto di punti che giustifica i due stop successivi con Udinese e Torino, fino alla ciliegina sulla torta, la trasferta di Napoli dove lo 0-2 a degli azzurri ormai al collasso certifica l’accesso nel calcio europeo, ma non uno qualsiasi. La qualificazione in Champions, sessant’anni dopo l’ultima volta, quando il successo dei Beatles esplodeva nel mondo e USA e URSS cercavano di capire come andare sulla Luna.
La giornata successiva un Dall’Ara gremito e vestito a festa ospita la Juventus non più del mister ad interim Paolo Montero. Ne viene fuori una partita lisergica, dove Calafiori segna i suoi primi due gol in A, si sblocca anche un promettente argentino di San Martín, Santiago Castro, e la Juve nel giro di otto minuti recupera un triplo svantaggio.
Beh, poco male, ormai quello che andava fatto è già fatto: al fischio finale parte un inno, quello della Champions, mai sentito fino a quel momento nel capoluogo emiliano, ed è una pioggia di sorrisi e foto ricordo dentro e fuori il prato verde. Se il Bologna è tornato nella Coppa dei Campioni, è perché ha creduto di potercela fare, prima ancora di farlo davvero. Forse rimarrà questa la più grande eredità del lavoro di Thiago Motta sotto le Torri Garisenda e degli Asinelli.
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