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Essere figli d’arte nel calcio è molto meno conveniente di quanto si possa credere

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«Se cantassi dovrei sentire a vita il confronto, sentirmi dire che non son pronto», questa frase estrapolata dalla canzone di Caparezza ‘Figli D’arte‘, e posta in parallelo al mondo del pallone, ci permette di provare a capire, guardando la situazione da un altro punto di vista, cosa provino i figli di calciatori famosi quando sognano di giocare a calcio.




Già, sembra assurdo da dire vista la mentalità che regna, soprattutto in Italia, quando si parla di questo tema, ma un bambino che sogna come ogni altro di diventare un grande calciatore, se figlio di uno famoso, troverà tantissimi ostacoli lungo il suo percorso.

Le tappe iniziali potrebbero senz’altro essere più facili, avendo più contatti all’interno del mondo del calcio e quindi più possibilità di fare provini e accedere a squadre giovanili – e non possiamo comunque farne una colpa al figlio –, ma poi, quando si cresce, si deve affrontare il vero e unico giudice di questo sport: il campo, dove tutto quello che conta è come si gioca, e il resto vale zero.

Non si può però dire la stessa cosa sulle aspettative, sulle critiche e la conseguente pressione che il mondo del calcio ripone sui figli d’arte. Quando il figlio di un ex calciatore viene acquistato da un club o passa dalle giovanili alla prima squadra, anche se magari è appena maggiorenne, il pubblico si divide solitamente in due fazioni: quelli che si aspettano da lui cose enormi fin da subito, magari allo stesso livello di quelle a cui il padre aveva abituato, e quelli che, anche senza averlo mai visto giocare, gli danno del raccomandato, credendo sia arrivato dove è solo per il nome che porta dietro la maglia. Tutto questo dovranno affrontarlo costantemente, per il resto della loro carriera.

Il fattore mentale, nel calcio, è spesso sottovalutato. Non tutti, soprattutto ad inizio carriera, riescono a giocare bene se sotto pressione e con aspettative enormi sulle proprie spalle, e a peggiorare la situazione saranno le eventuali critiche stroncanti che sorgeranno dopo le primissime prestazioni sottotono.

Di esempi concreti che potremmo fare ce ne sono moltissimi, ma per coprire ogni tipo di possibilità e casistica di questo ambito basta utilizzare quello della famiglia Maldini.

Tutto ha inizio da Cesare, che scrisse da capitano la storia del Milan negli anni Cinquanta e Sessanta, vincendo, tra le altre cose, quattro scudetti e una Coppa dei Campioni, la prima della storia per i Diavoli. Inoltre, dopo il ritiro, dal 1967 al 1974, ebbe diversi ruoli all’interno del club rossonero: prima collaboratore tecnico, poi vice del suo mentore Nereo Rocco e infine allenatore. Nel 1978 il figlio Paolo entra a far parte delle giovanili del Milan, lascerà i colori rossoneri solo nel 2009, 31 anni dopo.

Per un lungo periodo iniziale, per tutti era «il figlio di Cesare», nel corso degli anni fu Cesare a diventare «il padre di Paolo». Contro ogni pronostico, Paolo divenne più forte, più iconico e più vincente di suo papà.

Eppure, nei primi anni di carriera e non solo, tra Milan e Nazionale – Cesare allenò Paolo in azzurro per due anni nell’Under-21 e per due anni nella maggiore –, anche quello che ora consideriamo un monumento del calcio italiano, venne aspramente criticato e apostrofato come raccomandato dalle solite voci frustrate che puntualmente si affacciano alla discussione calcistica.

Sembra paradossale ma è così, e può diventare fastidioso anche per una personalità granitica come quella dello storico numero 3 rossonero, come ha raccontato lui stesso a Sky: «Quando ho perso le staffe? Direi nel 2002 forse, dopo il Mondiale. Mi sono sentito maltrattato dalla stampa. In modo particolare ricordo l’ultima conferenza, dove un giornalista mi chiese se mi sentissi un raccomandato. Andai via, potevano dirmi di aver giocato male, ma non altro».

Probabilmente basterebbe questo per capire quanto sia scarsa di reali contenuti questa argomentazione che puntualmente viene tirata fuori quando si presenta al mondo del calcio un figlio d’arte, ma recentemente, ancora una volta un Maldini, Daniel, ha riportato in auge la discussione, dopo aver avuto l’opportunità di debuttare in prima squadra.

Sono passati parecchi anni dalle insinuazioni su Paolo, ma non sono cambiate le cose, e dal primo momento in cui Daniel si è affacciato al Milan sono risorte le solite voci infamanti. Basterebbe però vedere la carriera che sta facendo suo fratello, Christian, altro Maldini difensore – sfortunatamente per lui il meno baciato dal talento –, per capire che non c’entra nulla il cognome che si porta dietro. Come lui ha fatto le trafile del Milan giovanile, ma non ha mai debuttato nemmeno in Serie B.

Se Daniel sarà o meno un buon giocatore lo vedremo, ma il suo nome non deve essere motivo di hype inutile e critiche prevenute, o si rischia di metterlo terribilmente in difficoltà, così come tutti gli altri figli di grandi ex calciatori.

In tutto questo circolo vizioso ha ovviamente un ruolo cardine anche la stampa, che spesso scrive articoli su articoli anche quando i figli d’arte sono ancora ragazzini, se non addirittura bambini. Troppe volte abbiamo già visto pubblicare pezzi e spendere parole che sarebbe stato meglio evitare, qui in Italia in particolare su Cristiano Ronaldo Jr. e Christian Totti, figli del numero 7 del Portogallo e dell’ex storico capitano giallorosso, entrambi ancora ben lontani dalla maggiore età ma già tanto, troppo chiacchierati dai media, che evidentemente non si pongono ostacoli etici e morali per quello che scrivono.

Il male e l’eccessivo bene, soprattutto se elargiti in un’età ancora non avanzata e con un’esperienza calcistica ancora praticamente inesistente, possono danneggiare parecchio la persona e il calciatore che viene colpito. Per questo motivo, probabilmente, essere figli d’arte all’interno del mondo del calcio è molto meno conveniente di quanto si possa credere.

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