Messi Mondiali 2022

La verità, vi prego, su Leo Messi

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Gonzalo Ariel Montiel sta correndo al rallentatore. Ogni passo che lo separa dai tifosi in estasi appena dietro la riga di fondocampo sembra richiedergli uno sforzo enorme, come quello compiuto nello sfilarsi la camiseta albiceleste, che tra le pieghe del tessuto ancora trattiene i residui di trent’anni di storia calcistica argentina. Tra quelle pieghe Montiel ci nasconde le lacrime, incapace di continuare a correre ancora prima che i compagni lo raggiungano, sopraffatto dalla portata degli eventi. Non è stato l’unico a sentirsi svuotato. È probabile che la maggior parte di noi, al termine di Francia-Argentina, sia rimasto svuotato come Montiel, incapace di rielaborare lucidamente la serie di emozioni a cui era stato sottoposto per più di centoventi minuti, con i sentimenti che fanno fatica ad affacciarsi sui volti quasi increduli, perché ad esprimere tutte quelle sfumature contemporaneamente sarebbero andati in cortocircuito. Come accade a Scaloni, che resta immobile, paralizzato per più di un minuto prima di realizzare che sì, l’Argentina era campione del mondo, e poi scoppiare in un pianto isterico, senza fine.



Francia-Argentina è stata una partita così densa che tentare di descriverla in qualsiasi modo sarebbe inutile, perché non si riuscirebbe a tradurre con un linguaggio efficace il carico emozionale a cui ogni spettatore è stato sottoposto. Come descrivere secondo per secondo l’andamento di una melodia in continuo mutamento, provando a sviscerare il contributo di ogni strumento nella bellezza del brano senza alcun successo, perché è il dialogo di ogni strumento con l’altro a creare la bellezza stessa.

Accade così raramente che un evento sportivo corrisponda alle aspettative che aveva generato nella sua attesa, così poche volte l’epica riesce a farsi strada naturalmente tra le pieghe di una partita, che spesso il lavoro di chi scrive corrisponde a quello del romanziere o del poeta, che prova a levigare le storture e l’imperfezione della vita vera, abbellendola attraverso la scrittura o cercando un movimento nascosto anche dove quel movimento non c’è. In questo caso non ce n’è stato bisogno, perché tutto era già apparecchiato sul tavolo, e probabilmente non esiste un’altra partita in cui significante e significato siano apparsi così intrecciati da risultare inscindibili.

La successione degli eventi, i protagonisti che li hanno scaturiti, il dramma umano individuale e collettivo che di volta in volta trovava nuove vie per insinuarsi nelle storie personali dei calciatori, degli allenatori, in alcuni casi di un popolo intero, modificando retroattivamente il valore dei loro percorsi un minuto sì e l’altro pure. È sembrato il dispiegamento di una trama scritta anni fa, rappresentata solo ora perché solo ora avrebbe potuto smuovere i cuori degli spettatori così nel profondo.

Cosa resta da fare a chi è chiamato a raccontare, allora? Forse tirare le fila del discorso, cercare di riassumere in modo sintetico ed efficace lo splendido caos nel quale si è rimasti intrappolati domenica pomeriggio. Tirare le fila attraverso la descrizione di un’immagine simbolica, che riesca a racchiudere in un solo momento le mille sfaccettature di questo Mondiale? Sfida impossibile da accettare: troppe storie in una storia, troppe contrapposizioni e contraddizioni per essere tenute insieme in un solo frame, figlie di tutto e del contrario di tutto. Sarebbe meglio concentrarci su una sola immagine, restringere l’inquadratura sul soggetto che più ha contribuito a rendere questa partita e l’intero Mondiale la cornice perfetta di un racconto epico non scritto.

Il risultato di questa riflessione porta a pensare che nessuna immagine commemorativa di questo Mondiale possa escludere Lionel Messi. La sua storia personale, il suo finale di carriera, il suo percorso nella competizione fino a domenica, sono diventate il catalizzatore della finale del Mondiale. Il suo intreccio con la Coppa del mondo ha origini così lontane nel tempo e così profonde da aver fagocitato ogni altra narrazione. Resta però da scegliere su quale momento si vuole porre l’accento, qual è l’immagine che più di tutte restituisca al meglio il senso di attesa e di compimento che il tribolato viaggio di Messi gli ha richiesto per arrivare ad alzare quella Coppa.

Sarà forse l’immagine di Messi a centrocampo accanto al pallone, in attesa di ricominciare dopo l’ennesima rimonta di Mbappé, non ancora disposto a cedergli gli onori delle armi? La sfida a distanza tra lo spirito di un’epoca passata che ancora non è pronta a tramontare e l’alba viva di una nuova era che da anni attende alla porta con la falce, in attesa solo che il passaggio ufficiale di consegne avvenga, meglio ancora se coincidente con il più grande fallimento dello spirito del tempo passato. L’immagine che mostra però anche un Messi diverso ancora concentrato sulla propria missione, la testa alta e lo sguardo sereno di chi in un modo o nell’altro porterà a termine il compito, o comunque non si arrenderà nella battaglia.

È la foto di Leo che accarezza e bacia la Coppa pochi minuti prima della proclamazione ufficiale, incapace di trattenere ancora il desiderio di agguantare l’unico traguardo che non era ancora riuscito a raggiungere al compimento dei trentacinque anni? Riuscire finalmente ad azzerare la distanza tra ciò che era e ciò che gli veniva ordinato di essere, come non aveva potuto fare nel 2014 per una questione di centimetri. Il premio di miglior giocatore del torneo sotto il braccio, che stavolta non rappresenta il simbolo della beffa come otto anni prima, ma la certificazione di una missione compiuta.

O forse è Messi portato in trionfo dai suoi compagni di squadra, innalzato da Agüero, il compagno di sempre in Nazionale? L’immagine di un Messi finalmente capopopolo, così lontana dalla percezione che si è avuta di lui fino a solo pochi mesi fa da risultare irreale, come fosse un’altra persona quella lì, qualcuno dalla cui storia siano state cancellate le sofferenze e i dolori causati dal doversi far carico delle sorti calcistiche di un popolo intero.

Magari sarà la foto istituzionale per eccellenza a rimanere negli annali, quella di Leo che alza la Coppa al cielo rivestito del tradizionale bisht, simbolo di benessere e regalità nel mondo arabo. Finalmente un Messi incoronato re attraverso una vera e propria cerimonia di vestizione, che però già getta ombre lunghe sul ricordo di questo Mondiale e dello stesso Messi: il mantello che copre la sua camiseta; il ricordo del momento sporcato da quel nero così innaturale, così contrastante con l’albiceleste della bandiera argentina; l’artiglio (in)visibile del Qatar e della FIFA sulle nazioni; la condiscendenza di Messi nell’accettare quella sporcatura senza opporvisi, che se fosse stato Maradona chi lo sa se sarebbe successo. E i paragoni con Maradona che ancora riecheggiano, l’unico appiglio inconsistente per una faida che purtroppo non avrà mai fine.

Ognuno dei momenti sopra descritti potrebbe raccontare una parte diversa della storia di Leo Messi, a seconda che ci si concentri su un aspetto piuttosto che su un altro. I pareri restano soggettivi, e ognuno preferirà ricordare la vittoria del Mondiale della Pulce con un particolare ricordo, ma queste sono sicuramente le foto più iconiche, quelle che rimarranno più a lungo nella memoria collettiva, destinate a battere ogni record di viralità.



C’è un’immagine, però, che è destinata a rimanere per sempre nella mia, di memoria. Quella che più di altre è riuscita a restituirmi il senso del percorso compiuto da Messi per arrivare a questo momento. La genesi, le sofferenze e i momenti salienti sono tutti racchiusi in questa immagine, e Leo Messi non è presente. O meglio, Leo Messi c’è, ma bisogna cercarlo sotto una nuvola di uomini che lo sta nascondendo agli sguardi del mondo, mentre le lacrime probabilmente gli ricoprono il viso, come è successo a Scaloni e a milioni di suoi compatrioti.

Nello stesso momento in cui Montiel sta esultando per il rigore segnato, mentre quasi tutte le telecamere del mondo indugiano su quella scena, Leo Messi cade sulle gambe nel cerchio di centrocampo. Ha appena il tempo di coprirsi il volto con le mani, prima che una piramide umana si formi attorno a lui, come la coltre mandata da Afrodite per nascondere la fragilità di Paride. Almeno la metà dei compagni si è fermata lì, ad abbracciare chi li aveva condotti per mano. Di quell’abbraccio collettivo fanno parte non soltanto i compagni presenti fisicamente – Enzo Fernández, Paredes, Dybala, Agüero – ma anche quelli corsi ad abbracciare Montiel, e tutti gli argentini, che mai come in questo Mondiale si sono stretti attorno al loro leader come mai avevano fatto prima. Forse gli argentini non lo sanno, ma è grazie a questo che sono riusciti a tornare campioni.

Perché per la prima volta la presenza di Messi in un Mondiale è stata totalizzante, ma non accentrante: ha segnato in tutte le partite della fase finale, ha distribuito assist, ha ridefinito cosa un calciatore è in grado di fare nonostante i limiti della propria età, aggrappandosi con tutto quello che ha alla tecnica, alla velocità di pensiero e agli ultimi guizzi di brillantezza fisica per resistere al tempo che passa. Ma ha fatto tutto questo mettendosi al servizio dei propri compagni, permettendo prima di tutto a loro di esprimersi come meglio avrebbero potuto. Tutto questo perché, per la prima volta nella sua vita con la maglia della Selección, ha sentito di essere amato da loro genuinamente, smettendo finalmente di essere il mezzo attraverso cui arrivare a vincere la Coppa.

Non è stato, come nel 2018 e nel 2014 prima, un Mondiale in cui Messi si è sentito solo. Prima di oggi i suoi compagni di squadra erano stati, come lui e più di lui, persone cresciute nel mito di Maradona, sia a causa dell’anagrafe sia perché figli di persone che avevano vissuto direttamente quel mito. Anche loro, come il popolo argentino, gli chiedevano di essere trascinati come avrebbe fatto Diego, facendosi trasportare fino alle fasi finali dei tornei, a volte perché le loro qualità non erano sufficienti a supportarlo al cento per cento – si veda l’undici titolare ai Mondiali di Russia – e altre perché in alcuni di loro deve essere balenato in mente il pensiero «se lui è come Diego, che lo dimostri». Non giocatori al servizio di – come era accaduto per Maradona nell’Ottantasei – ma in attesa di.

La Coppa del mondo doveva tornare a casa ma non c’era altra strada se non quella tracciata da Maradona, e bisognava replicarne i gesti fin quasi a scomparire nella copia, senza comprendere che nel momento stesso in cui si stabilisce che qualcosa è un’imitazione si gettano le basi della limitazione: è così che Leo ha vissuto i suoi momenti topici all’interno della Selección, costretto a interpretare un ruolo di controfigura che gli aveva impedito di esprimersi al cento per cento. Per quindici anni lo abbiamo visto muoversi in quella camiseta albiceleste così pesante, dentro panni sempre fuori taglia, tanto che lui ha iniziato a chiedersi se non fosse il suo corpo a essere sbagliato, come quando ha deciso di lasciare la Nazionale al termine della seconda Copa América consecutiva persa contro il Cile.

Si è faticato a capire che la grandezza dei gesti di Messi, delle sue giocate e del suo modo di stare su un campo di calcio sono il frutto di una sensibilità completamente differente da quella di Maradona: anche se gli strumenti sono gli stessi, le corde che premono non potrebbero essere più diverse, così come la musica che producono, e ascoltare con lo stesso orecchio due musiche così distanti non ci avrebbe mai permesso di apprezzare appieno una delle due.

Poi, finalmente, qualcosa è cambiato nel rapporto tra Messi e gli argentini. Un anno fa è riuscito a riportare in patria la Copa América, nonostante tutti i fallimenti passati, dimostrando un temperamento e una testardaggine tutta sudamericana. Molti dei suoi compagni di squadra in quella spedizione erano ragazzi di dieci o quindici anni di meno, lontani da Maradona e cresciuti nel mito di Leo. Hanno riconosciuto l’unicità del rosarino perché in lui non hanno cercato costantemente un paragone col passato, liberi dalle sovrastrutture delle generazioni precedenti.

Quando la Pulce ha annunciato di voler lasciare la Nazionale, un Enzo Fernández quindicenne gli scrisse una lettera in cui gli chiedeva di tornare sui suoi passi, per non privare gli argentini della bellezza delle sue giocate. Julián Álvarez, a dodici anni, rispondeva che il suo sogno sarebbe stato di giocare un Mondiale e che il suo idolo era Messi. El Dibu Martinez ha affermato che la Copa América avrebbe voluto vincerla più per Messi che per sé stesso, ripetendo spesso che sarebbe morto per lui. La luce diversa che sembrava emanare Messi in questo Mondiale, la differenza rispetto all’alone sbiadito e intermittente degli anni scorsi, veniva soltanto da qui: Enzo, Julián, el Dibu e tutti i loro compagni sono stati i primi a cogliere il vero spirito di Messi senza lasciarsi influenzare dal resto: hanno giocato al suo servizio, per permettergli di vincere, proprio come trent’anni prima avevano fatto i compagni di Maradona. La fiducia è stata ripagata nel momento in cui la Pulce ha sentito di non essere il simulacro del passato, ma il vero oggetto di quelle attenzioni.

L’effetto di questa fiducia si è propagato a cascata in tutta la Nazione, e in Argentina si è raggiunta una presa di coscienza collettiva: ci si è resi conto che il numero dieci che aveva cercato in tutti modi di essere all’altezza delle aspettative di un popolo intero era entrato nella fase crepuscolare della sua carriera, e che questo Mondiale verosimilmente avrebbe messo la parola fine alla sua storia con la Selección. Che si sarebbe rischiato di perdersi la luce unica di quel tramonto, troppo concentrati a chiedersi se quella particolare tonalità di arancione fosse più scura o più chiara rispetto a quella del giorno precedente. Che il lato umano e fragile di Messi, la sofferenza tutta evidente nell’accettare il compito affidatogli senza che lui lo abbia chiesto, non andavano rifiutate come fossero il sintomo di una malattia contagiosa, ma abbracciate perché simbolo di un amore di cui egli non si sentiva all’altezza.

Messi che si esprime attraverso i gesti essenziali, che supera gli avversari con i suoi dribbling scarnificati, che protegge i compagni senza rimproverarli quando commettono un errore e ammonendo i tifosi che fischiano contro uno di loro, ha riconciliato gli appassionati argentini con il loro lato gentile, di cui forse si erano dimenticati e che avevano scoperto di volere di nuovo. Così, per la prima volta Messi è riuscito a far breccia nel cuore degli argentini, lasciando un segno su di loro, un segno non riflesso nell’immagine di qualcun altro, ma soltanto suo.

Al termine della partita con la Croazia, la giornalista Sofia Martinez aveva chiuso la sua intervista post partita a Messi ringraziandolo da parte di tutto il popolo argentino, per aver risuonato insieme a loro, facendo vivere alla Nazione una felicità così grande. Che la Coppa del mondo sia tornata a casa non ha avuto, alla fine, molta importanza.

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