Steve Bruce

Steve Bruce, living another dream

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Il Newcastle è bianconero, Newcastle upon Tyne è incolore. È qualcosa che accomuna la fredda città nel nord dell’Inghilterra al caldo Uruguay: chi sapeva dove fosse il paese sudamericano prima che vincesse il Mondiale nel 1930? Chi oltre la Manica, forse addirittura oltre gli antichi confini del Northumberland, conoscerebbe la città, se non fosse per la squadra di calcio?

Un nome anonimo che ha offuscato quello ben più illustre impostogli dal fondatore, Pons Aelius, dal nome gentilizio dell’Imperatore Adriano. Quello perlomeno avrebbe ricordato urbe et orbi che era un perno del grandioso Vallo edificato per proteggere i celto-romani dai Pitti, e che da quell’antico dì separava come il bianco dal nero le due pugnaci anime della Bretagna.

Per questo la squadra è diventata qualcosa di più del simbolo della città: lo è divenuta essa stessa. Una causa per cui i suoi figli dovrebbero dare la vita, se richiedibile. Essendo lo sport anche una guerra simulata, sacrifici così estremi non sono necessari, ma onorare la patria è ugualmente dulcem et decorosum, specie per chi è nato apposta per custodire un confine. Se la Westeros di Game of Thrones è la Gran Bretagna, Newcastle è la Barriera, oltre alla quale ci sono solo gli incubi.

In riva al Tyne si cresce, si mangia e si sogna Newcastle United Football Club. La squadra che è il sogno di ogni bambino e praticamente l’incubo di ogni adulto, con le sue stagioni che concedono abbastanza alla speranza da far sovvenire che essa è il male più grande di tutti, quando terminano con l’ennesima svilente delusione.

Steve Bruce solleva con la fascia al braccio lo scudo della Premiership e capisce che è diventato più grande dei suoi sogni, e che forse è il più dolce degli incubi: non riuscirà mai a giocare per le Magpies. Per farlo, è ormai troppo vincente. Ha superato la soglia che separa il Newcastle dal successo.


Ripartire da prima delle origini

Steve Bruce si autodefinisce un ‘Geordie‘. Il termine identifica gli abitanti del nord-est dell’Inghilterra, e ancora più specificatamente quelli della zona del Tyneside. Tutti gli autentici Geordie tifano Newcastle e viceversa. Sono stati fatti raffinati studi sugli albori del termine, e la spiegazione più suggestiva è che George era tradizionalmente il nome dei primogeniti nell’area sopramenzionata. Per lui è una questione focale, di tradizioni ancestrali da passare di padre in figlio.

«Sono sempre stato un tifoso del Newcastle, e quando ero un giovincello sgattaiolavo sotto i cancelli per entrare allo stadio, per risparmiare uno scellino o quel che era. Erano la mia squadra, andavo per supportarli come è innato in un ragazzo e in un Geordie, è semplicemente congenito, tanto che oggi tutto si svolta ancora così»

Non è importante specificare quale sia l’oggi a cui si riferisce, perché sarà sempre così. È invece decisivo lo ieri, il passato, le radici. Non sono i piedi a decidere se sarai una gazza, è il cuore. Lo si può essere anche solo andando al St. James Park quando serve. Purtroppo però la volontà può non bastare per fare qualcosa di più, entrare su quel campo da gioco con la casacca a righe. Bruce però non se la cava malaccio. Classe 1960 per una questione di ore, soffiando le candeline il 31 dicembre, mediano, mancino, si fa notare nei tornei scolastici, e finisce nelle giovanili del club.

Il volo sembra tuttavia declinare in una dolorosa caduta prima ancora dell’adolescenza. Ha un po’ di tocco, ma non sembra destinato a sfondare. È intelligente e corre sempre, ma ha le gambe corte, il corpo tozzo ed è lento. Sembra che la natura gli abbia concesso abbastanza doni da alimentare l’illusione di poter essere un professionista, per poi sgonfiarla appena varcata la soglia dell’età adulta. Prima sono i bianconeri a tagliarlo, poi a ruota, dopo qualche settimana di allenamenti, il Sunderland, il Derby Country e persino il Southporth. A 19 anni sembra finito e comincia a lavorare come apprendista idraulico presso dei cantieri navali. Arriva però un’ultima chiamata dai semidilettanti del Gillingham, nel «boring as» Kent, come dicono a Londra, dall’altra parte dell’insulare regno di Sua Maestà, regione campagnola, piatta e niente affatto vivace, anche calcisticamente parlando.

Le opportunità vanno colte ovunque si trovino, e Steve si presenta al provino con un altro Geordie, il suo amico Peter Beardsley. Il manager Gerry Summers ci vede fino da un occhio e marcio dall’altro: Steve Bruce viene accolto, Beardsley scartato. Diventerà una leggenda del Liverpool e, lui sì, del Newcastle, con 59 presenze coi Three Lions. Su Steve Bruce però azzecca tutto: lo arretra al centro della difesa e ne determina così il successo, ancora distantissimo. Ha affrontato la sorte con la lancia in resta, ma un lancio di dadi l’ha fatto ripartire dal via.


A rising, rising, and still rising Star

L’intero suo primo anno lo passa con la squadra riserve, dove prende confidenza con il nuovo ruolo, e dimostra di essere qualcosa di più di forte: intelligente. Una lucida visione di gioco gli permette di impostare dalle retrovie e dirigerle, mentre con delle rapide letture dell’azione non c’è avversario che non sia in grado di anticipare. Emergono pure un tiro potente e preciso e un colpo di testa dominante, per cui diventa il capocannoniere del team B con 19 marcature stagionali, nonostante sia un terzino. Entra nel giro dell’Under-18 inglese, esordisce nel 1979/1980 in terza divisione e viene subito acclamato come il più forte della compagine. Manterrà divisa e categoria sino al 1983/1984, accumulando più di 200 presenze, affermandosi ripetutamente come il migliore del club – e della sua storia – e della categoria. A un passo dal Newcastle, alla fine riesce a fare il grande salto in First Division solo col Norwich.

All’esordio gol al primo minuto contro il Liverpool, poi gioie e dolori: è di nuovo il calciatore dell’anno, ma stavolta dell’undici che vince la Coppa di Lega, aggiudicandosi la palma dell’uomo partita della finale, in cui ogni difensore dei Canaries sembra bramoso di far danni fuorché lui; la medesima squadra che retrocede in Second a fine stagione. Disputa tutti e 42 i match che portano all’immediata promozione, diventa capitano e, come col Gillingham, trascina la società al punto più alto della sua storia, un eccellente quinto posto.

Le più grandi cominciano a contenderselo, e a dicembre dell’anno successivo è al Manchester United. In estate si siede all’Old Trafford Sir Alex Ferguson e finalmente arriva la definitiva consacrazione. Sir Alex porta con sé Gally Pallister e lo affianca a Steve Bruce al centro della difesa. Col soprannome di ‘Dolly and Daisy‘ formeranno un muro inscalfibile, persino meno superabile di quello sul confine da cui Steve Bruce si era spinto in cerca di fortuna.

Con un mentore come Ferguson, affina ulteriormente il suo stile: gli stadi di mezza Albione imparano a temere la calma con cui, incurante degli avversari, che anzi anela ad attirare su di sé, stoppa il pallone, spesso di petto, e detta un filtrante precisissimo. In questo modo attirava fior di tackle sugli stinchi, ma riusciva sempre a sbilanciare l’intero undici avversario.

Incurante degli infortuni, divenne noto pure per la tendenza a restare in campo anche se contuso, arrivando disdire da un momento all’altro un’operazione all’ernia quando i Red Devils si trovarono improvvisamente in emergenza numerica per l’incombente partita.

Ferguson non poté fare a meno di lodare pubblicamente la «determinazione e cuore» del primo capitano della sua incredibile epopea: 414 presenze con lo United, 51 reti, 3 campionati, 3 FA Cup, 1 Coppa Uefa, e 1 Coppa di Lega, meno le Super Coppe, il tutto con la fascia al braccio.


Il Manchester prima della Madre Patria

L’ultima delle Premiership che ha festeggiato è quella del 1995/1996, quella che ha visto il Newcastle primo a gennaio, che rincorreva il suo primo titolo dal 1927, in vantaggio di 12 punti sul Manchester. Giunto a fine carriera, era talmente al di sopra dei suoi sogni infantili da doverli calpestare.

Costretto infine a dare forfait per l’ultimo match della stagione, la finale di FA Cup, col Liverpool, decisa da un gol del capitano provvisorio Cantona, il medesimo che aveva deciso il fondamentale match di ritorno con le Magpies a marzo, si rifiuterà di essere lui a sollevare la coppa, nonostante l’insistenza del francese. Realizzando che i suoi 35 anni potrebbero essere d’intralcio al club, in un estremo atto di dovere e amore, si trasferirà al Birmingham, dove verrà fatto nuovamente capitano, e a momenti persino allenatore-giocatore. Sarà comunque un’esperienza trascurabile, come quella successiva allo Sheffield.

Steve Bruce ha dovuto attendere sino a pochi anni prima del ritiro un pieno riconoscimento del suo valore. I Diavoli di Ferguson ci misero qualche stagione a spiccare il volo, e solo nei rossi anni dei trionfi pubblico e stampa lo osannò come il campione che effettivamente era. Sino ad allora, ad esempio, non era mai stato convocato per i Tre Leoni, e Bobby Robson confessò di rimpiangere molto di non averlo fatto la volta che ci fece un pensierino, nell’estate dell’1987.

Non riuscì mai a onorare non solo la casacca che per la sua città natia è come una rappresentativa patria, ma nemmeno quella vera e propria. Curiosamente, fu in altra città nata come fortificazione di frontiera che trovò una sorta di seconda-terza città stato per cui spendere la sua anima da zelante guerriero. Il border-line ha segnato la sua vicenda. Vinse tutto ma non proprio tutto. Si spinse oltre il credibile per smentire i dubbi sul suo potenziale come giocatore, fu sempre determinante, eppure non viene ricordato né tra i grandi stopper d’Oltremanica, né tra i grandissimi del ciclo di Ferguson.

La sua attitudine al sacrificio personale per la vittoria collettiva lo portò a immolare l’ultima possibilità residua di disputare un Mondiale, e forse solo per questo dovrebbe essere ricordato come il calciatore più generoso di sempre.

Tra il 1993 e il 1994, sfruttando il luogo di nascita di sua madre, l’allenatore dell’Irlanda Jack Charlton, campione del mondo nel ’66 e fratello dell’ancor più celebre Bob, gli offrì a più riprese di giocare con i Boys in Green, che – al contrario dell’Inghilterra – si qualificano a Usa ’94.

Bruce rifiuta, perché ciò avrebbe potuto creare dei problemi al Manchester, che sarebbe stato costretto a tesserarlo come straniero in un periodo in cui le regole della UEFA a riguardo erano ancora molto severe. Ironicamente, suo figlio Alex, mestierante men che mediocre, è riuscito a giocare con le nazionali maggiori di due paesi diversi, Irlanda e Irlanda del Nord.


A New Hope… Bruce Strikes Again

Cosa succede quando diventi più grande dei tuoi sogni di bambino, erto su un piedistallo così alto che non arrivi a tirarli fuori dal cassetto?

Passi la vita a farti incensare come un Imperator divinizzato, un generalissimo di tutti gli eserciti che si è letteralmente seduto su un soffice letto di allori; oppure ti rimetti in gioco e riparti ancora una volta dal via. Magari perché c’è ancora un achievement da sbloccare, o perché se hai collezionato tutti i colori e sei un perfezionista, vuoi raccogliere anche il bianco e il nero. Le due tonalità agli estremi: quella che accoglie ogni tinta entro di sé, e quella che le respinge tutte. Come un maniero di confine, capace di ospitare migliaia di valenti e prodi guerrieri, e di scacciarne altrettanti.

Bruce giocava in difesa e andava sempre all’attacco. In campo e nella vita. Ha rischiato di spargere imbarazzo sulla sua gloria da footballeur, avventurandosi subito dopo il ritiro in quella di Manager. Non è andata male, ha cambiato molte squadre ma ha sofferto pochi esoneri. Qualcuno direbbe però che non ha avuto altrettanta fortuna di quando indossava gli scarpini. Sarebbe stato sicuramente vero sino al 17 giugno 2019. Quando un Geordie si è seduto sulla panchina del Newcastle. E il suo mondo, pur ritornando esclusivamente bianco e nero, come era in un tempo distante quanto un vecchio film, si è fatto più colorato.

Una vecchia speranza, 2 anni e 6 mesi dopo

Qual è la principale differenza narrative tra le storie e la Storia? Le prime le finisci quando vuoi tu. Puoi anche ignorare i prolungamenti e i finali che non ti piacciono. Star Wars termina con l’episodio 6, Dragon Ball GT e il Super sono canonici quanto il bar mitzvah buddista e nella Ballata dell’Amore Cieco la donna che non l’amava niente quando lo vede partire tutto convinto a estrarre il cuore della madre per i suoi cani ci ripensa e si accontenta di una serenata sotto le stelle. Gianni Rodari fa vincere la cicala, Quentin Tarantino riporta in vita Sharon Tate e la coppia Ridley Scott-Massimo Decimo Meridio addirittura l’Impero Romano. Allora New Castle si chiama ancora Pons Elius, e il suo muro separa un sogno eterno chiamato Roma dagli incubi delle barbarie. Semplice: luce da una parte, oscurità dall’altra. Di qua del vallo le aspirazioni di un bambino, di un Geordie, che rincorreva il bianco e nero di un tango e di una squadra che era solo speranze, di là sono le ossessioni di un adulto disincantato, plurimilionario e stressato.

La Storia invece va sempre avanti. Nel bene e nel male. Il mondo ha superato quel ’42 in cui il Male aveva avvinghiato tutta l’umanità compresa tra Stalingrado e El Alamein. Ma Napoleone, John Lennon, Martin Luther King e Alan Turing non avrebbero potuto finire peggio le loro vicende. Il Newcastle potrebbe diventare il nuovo Manchester City, e magari vincere la Coppa Campioni anche prima degli sky blues. Sono arrivati gli sceicchi dall’Arabia. Hanno licenziato l’allenatore che c’era, 3 punti in 8 giornate, una miseria, che però veniva da un dodicesimo e tredicesimo posto, un’aurea mediocritas. Gli hanno dato 9 milioni di sterline di buona uscita. Tanti tifosi hanno giubilato. La sua colpa? Aver mantenuto la squadra sugli stessi livelli del suo predecessore, Rafael Benítez, averla fatta galleggiare nel pantano che intercorre tra una disperazione troppo spesso toccata e una gloria troppo spesso sfiorata. Il Nuovo Castello sopra il Tyne alla fine non è che un ponte su questa palude. Un orribile consapevolezza: se ti lasci scivolare via il trionfo quando ormai te lo senti tra le braccia, tra le mani ti rimane un’angoscia più grande. È meglio marciare sempre tra gli ultimi che puntare il sole e sfracellarsi a vertigine. Al Mister però non è stato perdonato di non esser stato capace di provarci, di osare il folle volo.

Non era il mister più bravo, ma la sua Storia non meritava un addio così. Nove milioni di risarcimento per aver sporcato irrimediabilmente il suo sogno. Possono bastare, sono anche troppi, dirà il realista. Il sognatore invece si racconterà un’altra storia. È finita l’estate precedente, Steve Bruce dopo due tranquilli ma onorevoli anni al servizio delle Magpies se ne è congedato con serenità, ha scelto il momento giusto. Ora le vedrà vincere tutto da tifoso. Coi petrodollari, certo, ma magari anche con un progetto incentrato sui giovani, che promuova qualche promessa dalla primavera. Non è mai stato trattato, per usare le sue stesse parole, «come un grasso spreco di spazio, una testa di cavolo tatticamente inetta»; non è mai successo che «la gente», la sua, almeno sino a prima che sedesse su quella panchina, «lo trattasse come se non fosse mai stato voluto, che lo volesse veder fallire».

Ma perché guardare con gli occhi del sognatore? La realtà puzza di spogliatoio e di poesia. Probabilmente non era già più la sua gente da quando ha vinto quello scudetto con i Red Devils. Non era più il suo United. Ne aveva trovato un altro. La sua gente non è più quella che canta a squarciagola ‘Blaydon Races‘, è quella che intona «Glory, glory just like the Busby Babes in days gone by».

Non era un figliol prodigo che se ne era andato di casa, accolto per perdonargli il fallimento. Era uno zio che aveva trovato l’America più a sud a cui fratelli e nipoti non perdonavano il successo, il quale provavano a lavorarsi per ereditarne una fetta. Doveva fare l’idraulico, ha sollevato trofei in Inghilterra ed Europa con la fascia al braccio. Ha fatto del suo fisico tondo e tozzo per cui era criticato lo scudo di una delle difese più impenetrabili della storia, dei suoi piedi lenti metronomi dettagliatissimi e dardi mortiferi, di ogni cicatrice una medaglia. Quest’ultima a livello del cuore sarà la prima tra tante a bruciargli un po’. Steve Bruce in quell’acquitrino lungo il Tyde sarà sempre uno come ce ne sono tanti; a Manchester, in quel porto che si affaccia su un mondo e che ha controllato per intero nell’Età degli Imperi, non ce ne sarà mai uno come lui. E a Gillingham. E a Norwich. Di qua e di là del muro. C’Mon Steve, non sei più un Geordie. Ormai sei diventato troppo grande.

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