Benfica Guttmann

Come Béla Guttmann ha reso grande il Benfica

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Tutti gli appassionati di calcio hanno sentito parlare della maledizione di Béla Guttmann al Benfica, ma in pochi conoscono bene la storia gloriosa del rapporto tra i lusitani e l’ungherese. Un rapporto che inizia a tremila chilometri di distanza dall’ambientazione, tagliando mezza Europa.

I punti di partenza sono tre: Buda, Obuda e Pest, sul finire della primavera del 1867, anno dell’Ausgleich, un compromesso che riscrive la storia di un Impero. Gli austriaci sono reduci dalla sconfitta nella guerra austro-prussiana, dove al fianco del cancelliere nemico Otto von Bismarck combatteva il neonato Regno d’Italia. Il conflitto termina con lo scontro decisivo di Sadowa vinto dalla Prussia. Quello dell’Impero austriaco è un fallimento militare che costringe, con l’armistizio di Nikolsburg, la cessione del Veneto all’Italia e la ritirata dai territori stranieri occupati.

Il clima post-bellico in Austria non è dei migliori, ci sono tante tensioni interne provenienti da territori ungheresi del regno, e con un’instabilità politica tale la soluzione è solo una, sedersi e trattare. Il tracollo viene evitato quasi un anno dopo Sadowa, quando l’imperatore Franz Joseph I von Österreich comunica la soluzione: l’Ungheria viene posta in una condizione di parità con l’Austria nella monarchia asburgica, l’impero non è più austriaco ma austro-ungarico. Buda, Obuda e Pest non esistono più, esiste Budapest, una grande fusione che sorge sul Danubio ed è promessa sposa con la storia del calcio.


Come Béla Guttmann è arrivato sulla panchina del Benfica

Budapest sarà la città dell’Aranycsapat, una delle nazionali più forti e dimenticate di sempre, in cui era protagonista un genio calcistico fra i più leggendari della storia, Ferenc Puskás. Ma sarà anche la città nella quale, a un anno dal nuovo secolo, Ábrahám ed Eszter, due ballerini di religione ebraica, daranno vita a Béla Guttmann. Così come i genitori, Béla è un predestinato del ballo. A sedici anni è già un istruttore di danza classica qualificato, anche se quello dell’istruttore sarà solo un lavoro che gli consentirà di continuare a coltivare la sua vera passione, quella per il calcio, nonostante condizioni economiche instabili. Nemmeno la laurea in psicologia conseguita negli anni successivi lo smuove dal suo obiettivo principale, ma gli tornerà senz’altro utile in futuro.

Nel 1933 appende gli scarpini al chiodo dopo un’ottima carriera da centrocampista difensivo, e passa dal campo alla panchina, ma l’imbattersi sempre più prepotente della furia nazista sull’Europa lo costringe a fermarsi. Nel 1944 viene internato e torturato in un campo di lavoro forzato a Budapest, ma pochi mesi dopo riesce miracolosamente a fuggire prima di essere trasferito ad Auschwitz, dove vennero uccisi il padre e la sorella maggiore Szeren.

Terminato l’incubo nazista, nonostante i pesanti strascichi psicologici, riprende subito ad allenare, e nel 1949 sbarca in Italia, firmando prima con il Padova, poi con la Triestina e infine con il Milan. Sostituisce Arrigo Morselli e raggiunge il terzo posto nel campionato 1953/1954, gettando le basi per la stagione successiva. È il Milan di Nils Liedholm, Juan Alberto Schiaffino – autore del gol del pareggio del Maracanazo –, Gunnar Nordahl e del nuovo arrivato Cesare Maldini. L’anno seguente i rossoneri dominano il campionato ma Béla Guttman viene esonerato a metà competizione per motivi ancora oggi avvolti nel mistero, ma legati con ogni probabilità a questioni extracalcistiche. Da quel momento in poi, fece aggiungere nei contratti delle sue future società una clausola per la quale non fosse possibile il suo licenziamento con la squadra al primo posto in classifica. Il Milan, seppur con qualche difficoltà, vincerà comunque sotto la guida di Héctor Puricelli in una lotta a distanza contro l’Udinese, retrocesso a fine campionato per illecito sportivo.

Due anni dopo Guttmann si ritrova in Brasile, alla guida del San Paolo, dove, oltre a vincere il Campionato Paulista, influenza la Nazionale verdeoro, che nel 1958, giocando con un occhio volto a come giocava il San Paolo di Guttmann, vinse il primo dei suoi cinque Mondiali. Dopo un anno, però, vuole tornare in Europa, e lo fa portandosi un bagaglio importante, quello della lingua portoghese, imparata nell’esperienza sudamericana.

Gli servirà, perché il destino lo porta inevitabilmente verso mete lusitane, prima al Porto, dove vince il campionato, e poi al Benfica, dove fa la storia.


Il primo Benfica europeo

Il Benfica nasce nel 1908, quando Béla Guttmann ha appena nove anni, da un’altra fusione – come quella di Budapest –, quella tra lo Sport Lisboa e il movimento ciclistico Grupo Sport Benfica. Lo scudo biancorosso della prima società, incastonato nella ruota di bicicletta appartenente al Grupo delle due ruote, è sorretto dalle zampe di una grande aquila. Sotto di lei un motto in latino: «E pluribus unum», «Da tutti uno». La frase è il minimo comun denominatore fra le due storie, quella di Guttmann e quella del Benfica. Sono storie che non possono non incrociarsi, ed infatti, nel segno del destino, si incontrano.

Guttmann incanta il Portogallo con il suo pioneristico 4-2-4, rivoluziona i metodi d’allenamento e determina la vittoria del campionato. L’anno dopo si punta all’Europa e l’ungherese sa bene che i presupposti per vincere ci sono tutti. Lo sa soprattutto perché può contare su José Águas, un veterano del club che non sa smettere di gonfiare reti – a fine carriera con il Benfica avrà più gol che presenze. La lotta per il campionato è con l’altra compagine di Lisbona, lo Sporting. L’attacco di cui Águas è condottiero tuttavia fa la differenza, 91 gol in 26 partite, dati fantascientifici, e il Benfica di Guttmann si conferma campione.

È qualche mese prima che però interviene di nuovo il destino: in un pomeriggio di fine autunno Guttmann riceve una telefonata da José Carlos Bauer, suo ex giocatore al San Paolo, che lo contatta proprio dal Brasile. Bauer parla al suo ex allenatore di un calciatore che ha scoperto in Portogallo, con un talento introvabile e una madre dal carattere un po’ difficile. Se la mamma non avesse impedito la sua partenza, in questo momento suo figlio giocherebbe con la casacca bianconera della Juventus. Guttmann si convince e chiede alla società di fargli un contratto. In cambio di 350.000 escudi, a Lisbona si trasferisce quello che diventerà il giocatore più importante nella storia del club. Il suo nome è Eusébio.

Nel frattempo il Benfica di Guttmann domina anche in Europa: sette gol all’Ujpest, altri sette ai danesi dell’Arhus e quattro al Rapid Vienna in semifinale. La finalissima si gioca in Svizzera, a Berna, contro il Barcellona.

Allo stadio Wankdorf, i catalani passano in vantaggio al ventesimo minuto con un grande stacco di testa del concittadino di Guttmann Sándor Kocsis, che sfrutta un ottimo traversone, e a pareggiare i conti è un tap-in del solito Águas, che realizza la sua undicesima ed ultima marcatura nella competizione – abbastanza per vincere la classifica dei capocannonieri con quasi il doppio dei gol di chiunque altro.

Solo un minuto dopo si alza un campanile nell’area di rigore del Barcellona, con il pallone diretto verso il portiere Antoni Ramallets. Ed è proprio lì che l’estremo difensore blaugrana commette l’errore più pesante della sua carriera: non riesce a trattenere la palla, che rimbalza lungo tutta la porta dopo aver colpito il palo. Per l’arbitro la sfera ha superato la linea, e fra le proteste spagnole viene convalidato il gol, è 2-1.

Con il morale sotto i tacchi, i catalani incassano anche il terzo gol, realizzato da Mário Coluna grazie a un magnifico tiro al volo dal limite dell’area. Zoltán Czibor, altro ungherese, accorcia le distanze ma non c’è nulla da fare: il Benfica per la prima volta vince la Coppa dei Campioni, interrompendo l’egemonia del Real Madrid di Puskás e Di Stéfano. Il Barcellona, per questo stesso traguardo, dovrà aspettare altri trentuno anni.


La seconda ed ultima Coppa dei Campioni

Nella stagione successiva Eusébio viene integrato in prima squadra e individua in Águas – arrivato al canto del cigno – la figura di mentore. Pur non ripetendosi in campionato, vinto dai rivali storici dello Sporting, la squadra di Guttmann continua ad incantare in Europa superando la fase a gironi e poi battendo con facilità Austria Vienna e Norimberga. Il doppio scontro in semifinale contro il Tottenham di Jimmy Greaves è uno dei più emozionanti degli anni Sessanta, ma a raggiungere la finale è proprio il Benfica, grazie a un complessivo di 4-3.

Per ironia della sorte l’ultimo scontro è con il leggendario Real Madrid, la quale egemonia in Coppa dei Campioni era stata interrotta dai lusitani l’anno precedente. La sfida è fra i due ungheresi, il primo in campo, Puskás, e il secondo in panchina, Guttmann.

Ferenc nelle partite importanti non è mai mancato, e, trasformando l’Olympisch Stadion di Amsterdam in un palcoscenico, dà il via al suo primo atto. Lanciato a rete da Di Stéfano, non sbaglia e regala il vantaggio ai Blancos, ma non si ferma qui. Raddoppia sempre lui, soli cinque minuti dopo, con un missile dai venticinque metri che si spegne ancora una volta alle spalle di Costa Pereira.

Si mette male per le Aquile, ma a mantenere accese le speranze è ancora e per un’ultima volta Josè Águas, che con un altro tap-in simile a quello di un anno prima regala il suo one more time ai tifosi portoghesi. Successivamente, il centrocampista Domiciano Cavém, ristabilisce l’equilibrio nel punteggio con un tiro “alla Puskás”, un mancino che prende velocità e partendo dal limite dell’area arriva dritto sotto al sette. L’attaccante magiaro ovviamente non ci sta, e pochi minuti dopo raggiunge una palla vacante nell’area avversaria, dribbla con una finta di corpo il difensore e sigla la sua personale tripletta in trentotto minuti – primo ed unico giocatore nella storia della Champions a segnare tre o più gol in almeno due finali, due anni prima aveva realizzato un poker contro l’Eintracht.

La seconda frazione, però, non va come da copione, e infatti è dominata dal Benfica. Al cinquantunesimo Mário Coluna, anche lui come un anno prima, trova il gol con un destro dalla distanza. La finale è bellissima, ha visto tanti gesti tecnici fantastici, ma il meglio deve ancora arrivare: deve ancora salire in cattedra Eusébio.

La Perla Nera raccoglie il pallone sulla metà campo a mezz’ora dalla fine, supera Di Stéfano in un dribbling che racchiude un ventennio di calcio, corre più veloce che può ed entra in area, dove punta un difensore, sposta la palla e viene messo giù. È rigore. Il ventenne che ha appena fatto girare la testa alla squadra più gloriosa al mondo si ritrova su un dischetto che cambia il corso della storia. Il copione di Puskás è stato stravolto da Béla Guttmann e da una telefonata che era nel destino: Eusébio spiazza Araquistáin, è 4-3. Tre giri di lancette dopo vene realizzato il quinto gol, sempre dal nativo di Maputo, sullo sviluppo di una punizione di seconda. È solo il preludio di una carriera straordinaria.

La sceneggiatura Guttmann si conclude con il risvolto che tutti si aspettavano: cala il sipario, il Benfica per la seconda volta è sul tetto d’Europa.

Béla si ripete, ma la sua storia finisce qui. Dopo la finale Guttmann chiede alla dirigenza del Benfica un aumento che non gli viene concesso, e lui, che ha vissuto la maggior parte della propria vita in estrema povertà, non può accettare questa decisione del club. La sua magnifica leggenda si conclude a causa del denaro e con una frase che sarà profezia: «Il Benfica non vincerà una coppa internazionale per almeno un secolo!».

Le sue parole si trasformarono fin da subito in una vera e propria maledizione. Da quel momento in poi, il Benfica perderà otto finali internazionali, cinque di Coppa dei Campioni/Champions League e tre di Coppa UEFA/Europa League, senza mai vincerne una. Il copione di un genio continua ad essere scritto, nel nome e nel segno del destino.

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