Freddy Adu

Il fallimento annunciato di Freddy Adu

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Friedrich Nietzsche sosteneva che «bisogna avere buona memoria per mantenere le promesse», e il Dio del calcio con Freddy Adu si è mostrato particolarmente smemorato. Se infatti c’è un giocatore a cui è inscindibilmente collegata la parola fallimento, questo è proprio l’ex prodigio del calcio nordamericano.

Niente lasciava presagire il disastro che sarebbe avvenuto, anche se, a distanza di parecchi anni dal suo esordio fra i professionisti, appaiono chiari gli errori compiuti da lui e soprattutto dai media americani, rei di aver fatto diventare una star assoluta un ragazzino di appena quattordici anni, una sorta di giovanissimo profeta che doveva riformare uno sport che negli States stentava a decollare, nonostante tutti i tentativi fatti negli anni passati – dall’ingaggio di fuoriclasse sudamericani ed europei all’idea di ospitare i Mondiali del 1990. Una condanna alla completa morte calcistica di Freddy Adu, che, se fosse stato gestito “all’europea”, avrebbe anche potuto dirci qualcosa. Forse.


Un talento tutto da monetizzare

Nonostante gli Stati Uniti se ne siano appropriati, il talento di Fredua Koranteng Adu non è di origine americana. Freddy nasce infatti in Ghana, il 2 giugno del 1989, ma a otto anni si trasferisce oltreoceano perché i suoi genitori riescono ad ottenere una delle desideratissime green card – un’autorizzazione che permette ad uno straniero di andare a vivere negli USA.

Comincia a giocare a calcio nei club della capitale, Washington, e sin da subito mostra un talento fuori dal comune. Lo fa talmente tanto che, all’età di dieci anni, l’Inter offre una cifra vicina al milione di euro per portarlo in Italia, ma la sua famiglia rifiuta di trasferirsi nuovamente. Il piccolo continua dunque a stupire il pubblico degli States, che non ha mai avuto la possibilità di ammirare tanto talento calcistico in un solo corpo. I suoi coetanei sembrano bambole al suo cospetto, perciò viene sempre fatto giocare con i più grandi: a tredici anni gioca con l’Under-17 degli Stati Uniti e appena un anno dopo passa all’Under-20, perché fra lui e gli altri non c’è storia.

L’offerta dell’Inter, intanto, ha scatenato in Europa un crescente interesse verso di lui – tra i quali si annovera quello del Manchester United di Sir Alex Ferguson. Tutti si chiedono come un bambino faccia a giocare con i professionisti, spesso mettendoli in ridicolo come se fossero dilettanti. Nessuno, però, capisce che ciò che sta accadendo è una condanna a morte per la carriera di Adu.

Per Adu, infatti, non si tratta solo di ambizioni e pressioni calcistiche: negli Stati Uniti continua la sua inarrestabile ascesa all’Olimpo della fama. Fra lui e un qualsiasi cantante o attore non c’è alcuna differenza, e di conseguenza entra nel mondo delle sponsorizzazioni. La Nike e la Lega Americana gli fanno firmare un contratto da 1,5 milioni di dollari all’anno. Numeri impressionanti, per quella che a tutti gli effetti sta diventando una macchina da soldi senza precedenti nel calcio statunitense.


I primi problemi e l’apparente rinascita

A soli quattordici anni arriva il debutto in MLS, con la maglia del DC United. La squadra di Washington, con Adu che mette a referto l’ottimo score di 5 gol e 3 assist stagionali – il migliore della sua carriera –, riesce a conquistare il quarto e al momento ultimo campionato della propria storia.

Nella stagione successiva Adu perde però il posto da titolare, e a nemmeno sedici anni comincia a essere bersagliato dalle critiche. C’è chi dice che sia troppo giovane per giocare con costanza fra i professionisti, c’è chi dice che dovrebbe essere lasciato crescere come un normale ragazzino. Lui, intanto, continua a pratica lo sport che ama, il calcio, quasi per forza d’inerzia. Se smettesse, dopotutto, gli Stati Uniti perderebbero il loro Messia, e ciò manderebbe in fumo anni e anni di investimenti ingentissimi in uno sport che comunque gli statunitensi non riescono ad apprezzare come apprezzano il basket, il football o il baseball.

Freddy, però, recupera velocemente il posto da titolare e mette a tacere tutte le critiche: la sua velocità e il suo dribbling ritornano a fare la differenza, ma mancano sempre i gol, fondamentali per un attaccante che ormai in Europa sembra aver perso quell’aura di prodigio della natura, eppure è ancora minorenne e a breve dovrà giocare da protagonista il suo terzo Mondiale Under-20. I riflettori sono tutti puntati su quel ragazzino degli USA con la fascia da capitano al braccio, che sembra poter fare tutta la differenza del mondo. Realizza una grande tripletta contro la Polonia e due assist decisivi nella vittoria contro il Brasile, prima di essere eliminato ai tempi supplementari dei quarti di finale contro l’Austria – gara nella quale aveva mandato in rete per la terza volta nel torneo il compagno Jozy Altidore.


Europa, l’inizio della fine

Dopo il Mondiale, il Benfica decide finalmente di portarlo in Europa, convinto di aver trovato il nuovo Pelé – come era stato soprannominato in Patria – e di aver anticipato la concorrenza, che comunque non era così folta da quando Ferguson aveva posto il suo veto ad un suo possibile arrivo in Inghilterra. Da subito, tuttavia, si capisce che Freddy Adu non è assolutamente quel giocatore di cui si era tanto sentito parlare. In allenamento e in partita non riesce a dimostrare un decimo di ciò che sembrava potesse dare, e i tifosi del Benfica se lo dimenticano velocemente.

L’anno successivo comincia il suo giro di prestiti per l’Europa: prima al Monaco, poi al Belenenses e infine in Grecia e in Turchia, all’Arīs Salonicco e al Çaykur Rizespor. Sempre con lo stesso risultato: un fallimento costante. Qualche gol, qualche prestazione degna di nota, ma la continuità è un ricordo tremendamente torbido, quasi lontano per quanto siano passati solo quattro anni.

Quattro maledetti, lunghissimi anni per Freddy Adu, che decide di tornare negli Stati Uniti per provare a rilanciarsi. Dopotutto ha solo ventidue anni, ma il macigno delle aspettative grava sulle sue spalle come il globo celeste su Atlanta.

Al Philadelphia Union sembra effettivamente riprendersi, ricomincia a segnare, anche se i suoi gol e le sue giocate non fanno più scalpore e spesso rimangono fini a se stesse. Il Bahia lo porta in Brasile, la terra di O’ Rey, ma Adu non segna nemmeno un gol e gioca appena due partite, venendo svincolato dopo nemmeno sei mesi. Senza un contratto e con ancora tanti sogni da realizzare, prova a fare un provino in Inghilterra, uno in Norvegia e uno in Olanda: e in serie Blackpool, Stabaek e AZ Alkmaar lo rifiutano senza dargli nemmeno una possibilità di esprimere il suo talento. Quindi prova un’avventura in Serbia e in Finlandia, ma sono altri due fallimenti che si aggiungono alla sua personale lista senza fine.


Il ritorno a casa, fra ricordi e delusioni

Ritorna quindi in patria, ai Tampa Bay Rowdies, con cui rimane svincolato dopo un ennesimo anno deludente. Prova a tornare ancora una volta in Europa, ma è tutto inutile. Nessuno lo vuole, perché nessuno ci crede più. Le sue qualità si sono volatilizzate con la stessa rapidità della sua ascesa nel mondo del calcio – o dello spettacolo?.

Un anno dopo lo ingaggia il Las Vegas Lights, militante nella seconda divisione del calcio statunitense, e qui ritorna al gol dopo sei lunghi anni, il giorno stesso del suo ventinovesimo compleanno. Una beffa, quasi, uno scherzo del destino che serve a ricordargli che no, non è più un giovane fenomeno che rappresenta il movimento calcistico nordamericano.

Freddy Adu è al momento svincolato e non gioca una partita ufficiale dall’ottobre del 2018, eppure sembra non voglia smettere di giocare. Nella lunga intervista che gli è stata fatta da ESPN, si fa anche menzione della sua immutata fama negli States, a dimostrazione che la stessa gente che lo ha amato ed erto a idolo, non lo ha dimenticato, anzi. Si ricorda perfettamente di lui e delle sue giocate, si ricorda perfettamente di quel ragazzino che sembrava dover diventare il nuovo Pelé e che ora, invece, è uno come tanti. Uno che però dovrà vivere per sempre con un grande rimpianto, tanto che lui stesso ha ammesso: «Devi necessariamente soffrire di amnesia, altrimenti è una continua tortura».

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