Quando si parla di promesse non mantenute, è impossibile non pensare a Freddy Adu. Questo perché se c’è un giocatore a cui è inscindibilmente collegata la parola fallimento, quello è proprio l’ex prodigio del calcio nordamericano.
Niente lasciava presagire il disastro che sarebbe avvenuto, anche se, a distanza di parecchi anni dal suo esordio fra i professionisti, appaiono chiari gli errori compiuti da lui e soprattutto dai media americani, rei di aver fatto diventare una star assoluta un ragazzino appena 14enne, una sorta di giovanissimo profeta che doveva riformare uno sport che negli States stentava a decollare, nonostante tutti i tentativi fatti negli anni passati, dall’ingaggio di fuoriclasse sudamericani ed europei all’idea di ospitare i Mondiali del 1990. Una condanna alla completa morte calcistica di Freddy Adu, che, se fosse stato gestito all’europea, avrebbe anche potuto dirci qualcosa. Forse.
Un talento tutto da monetizzare
Nonostante gli States se ne siano brutalmente appropriati, il talento di Freddy Adu non è di origine americana. Lui nasce in Ghana, il 2 giugno del 1989, ma a 8 anni si trasferisce oltreoceano perché i suoi genitori riescono ad ottenere una delle desideratissime green card. Comincia a giocare a calcio nei club della capitale, Washington, e sin da subito mostra un talento fuori dal comune, tanto che quando compie 10 anni l’Inter offre 750 mila euro per portarlo in Italia. La sua famiglia rifiuta di trasferirsi nuovamente, ma il piccolo continua a stupire il pubblico degli States, che non ha mai avuto la possibilità di ammirare tanto talento calcistico in un solo corpo. I suoi coetanei sembrano bambole al suo cospetto, perciò viene sempre fatto giocare con i più grandi: a 13 anni gioca con l’Under-17 degli Stati Uniti e appena un anno dopo passa all’Under-20, perché fra lui e gli altri non c’è storia.
L’offerta dell’Inter, intanto, ha scatenato in Europa un crescente interesse verso di lui: tutti si chiedono come un bambino faccia a giocare con i professionisti, spesso mettendoli in ridicolo come se fossero dilettanti. Nessuno, però, capisce che ciò che sta accadendo è una condanna a morte per Adu. Nessuno o quasi, chi lo capisce è Sir Alex Ferguson, che lo chiama per un provino al Manchester United ma lo rispedisce indietro dopo tre settimane. Forse non è abbastanza bravo, o forse l’esperto allenatore ha capito che è ancora un ragazzino e che dovrebbe crescere come tale.
Negli Stati Uniti, però, continua la sua inarrestabile ascesa all’Olimpo della fama. Fra lui e un qualsiasi cantante o attore non c’è alcuna differenza: lo si ritrova in televisione, sia che si parli di show televisivi sia che si parli di pubblicità. La Nike e la Lega Americana gli fanno firmare un contratto da 1,5 milioni di dollari complessivi all’anno. Numeri impressionanti, per quella che a tutti gli effetti sta diventando una macchina da soldi senza precedenti nel calcio statunitense.
I primi problemi e l’apparente rinascita
Macchina da soldi che, però, calcisticamente sembra si stia inceppando. Dopo la buona stagione di esordio, dove è riuscito a realizzare 5 gol e 3 assist, risultando molto importante nella vittoria della MLS del DC United, Adu perde il posto da titolare e a nemmeno 16 anni comincia a essere bersagliato dalle critiche. C’è chi dice che sia troppo giovane per giocare con costanza fra i professionisti, c’è chi dice che dovrebbe essere lasciato crescere come un normale ragazzino. Lui, intanto, continua a pratica lo sport che ama, il calcio, quasi per forza d’inerzia. Se smettesse, dopotutto, gli Stati Uniti perderebbero il loro Messia, e ciò manderebbe in fumo decine di anni di investimenti ingentissimi in uno sport che comunque gli statunitensi non riescono ad apprezzare come apprezzano la pallacanestro o il rugby.
Freddy, però, recupera velocemente il posto da titolare e mette a tacere tutte le critiche: la sua velocità e il suo dribbling ritornano a fare la differenza, ma mancano sempre i gol, fondamentali per un attaccante che ormai in Europa sembra aver perso quell’aura di prodigio della natura, eppure ha solo 17 anni e a breve dovrà giocare da protagonista un Mondiale Under-20. I riflettori sono tutti puntati su quel ragazzino di colore alto 170 centimetri, che là davanti sembra poter fare tutta la differenza del mondo, anche con la fascia di capitano al braccio. Realizza una grande tripletta contro la Polonia e due assist decisivi nella vittoria contro il Brasile, giocando con grande consapevolezza dei propri mezzi, o almeno così sembra.
Europa, l’inizio della fine
Il Benfica decide finalmente di portarlo in Europa, convinto di aver trovato il nuovo Pelé – come era stato soprannominato in Patria – e di aver anticipato la concorrenza, che comunque non era così folta da quando Ferguson aveva posto il suo veto ad un suo possibile arrivo in Inghilterra. Da subito, tuttavia, si capisce che Freddy Adu non è assolutamente quel giocatore di cui si era tanto sentito parlare. In allenamento e in partita non riesce a dimostrare un decimo di ciò che sembrava potesse dare, e i tifosi del Benfica se lo dimenticano velocemente.
L’anno successivo comincia il suo giro di prestiti per l’Europa: prima al Monaco, poi al Belenenses e infine in Grecia e in Turchia, all’Arīs Salonicco e al Çaykur Rizespor. Sempre con lo stesso risultato: un fallimento costante. Qualche gol, qualche prestazione degna di nota, ma la continuità è un ricordo tremendamente torbido, quasi lontano per quanto siano passati solo quattro anni.
Quattro maledetti, lunghissimi anni per Freddy Adu, che decide di tornare negli Stati Uniti per provare a rilanciarsi. Dopotutto ha solo 22 anni, ma il macigno delle aspettative grava sulle sue spalle come il globo celeste su Atlanta.
A Philadelphia sembra effettivamente riprendersi, ricomincia a segnare, anche se i suoi gol e le sue giocate non fanno più scalpore e spesso rimangono fini a se stesse. Il Bahia lo porta in Brasile, la terra di O’ Rey, ma Adu non segna nemmeno un gol e gioca appena due partite, venendo svincolato dopo nemmeno 6 mesi. Senza un contratto e con ancora tanti sogni da realizzare, prova a fare un provino in Inghilterra, uno in Norvegia e uno in Olanda: e in serie Blackpool, Stabaek e AZ Alkmaar lo rifiutano senza dargli nemmeno una possibilità di esprimere il suo talento. Quindi prova un’avventura in Serbia e in Finlandia, ma sono altri due fallimenti che si aggiungono alla sua personale lista senza fine.
Il ritorno a casa, fra ricordi e delusioni
Ritorna quindi in patria, ai Tampa Bay Rowdies, con cui rimane svincolato dopo un anno deludente, in cui le presenze sono appena 13. Prova a tornare ancora una volta in Europa, ma è tutto inutile. Nessuno lo vuole, perché nessuno ci crede più. Le sue qualità si sono volatilizzate con la stessa rapidità della sua ascesa nel mondo del calcio – o dello spettacolo?.
Un anno dopo lo ingaggia il Las Vegas Lights, militante nella seconda divisione del calcio statunitense, e qui ritorna al gol dopo 6 lunghi anni, il giorno stesso del suo 29esimo compleanno. Una beffa, quasi, uno scherzo del destino che serve a ricordargli che no, non è più un giovane fenomeno che rappresenta il movimento calcistico nordamericano.
Ora Freddy Adu si trova senza squadra da più di due anni, eppure sembra non voglia smettere, almeno da quanto ha dichiarato recentemente a ESPN. Nella lunga intervista che gli è stato fatta si fa anche menzione della sua immutata fama negli States, a dimostrazione che la stessa gente che lo ha amato ed erto a idolo, non lo ha dimenticato, anzi. Si ricorda perfettamente di lui e delle sue giocate, si ricorda perfettamente di quel ragazzino che sembrava dover diventare il nuovo Pelé e che ora, invece, è uno come tanti. Uno che però dovrà vivere per sempre con un grande rimpianto, tanto che lui stesso ha ammesso: «Devi necessariamente soffrire di amnesia, altrimenti è una continua tortura».
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