Hatzipanagis

Cantami, o Diva, di Vasilis Hatzipanagis l’Īraklīs funesto

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A Salonicco la notte è sempre calda. Se pure non è uno di quei giorni di calura, in cui il sole ha seminato per tutto il giorno il suo fuoco tra le distese azzurro scuro del mare e le vestigia dell’antica Tessalonica, per far salire la temperatura è sufficiente che uno del PAOK si metta a discutere con un altro dell’Aris.

«Chi è più in gamba? Qual è la vera squadra della città? Noi dominiamo pure nel basket, mentre voi… cani come siete giusto le palline di gomma potete cavarvela, da riportare a noi, vostri padroni naturali!». E se quel giorno sono stufi di darsele e prendersele nel complesso rituale dello sfottò, con un’occhiata curiosamente complice si girano verso quello dell’Īraklīs, che per certo stava poco distante, incerto se ridersela sotto i baffi o maledire di aver ben poco da dire sulla questione. A Salonicco, ovunque ci sia uno del PAOK e un altro dell’Aris, ce n’è pure uno dell’Īraklīs. E tutti e tre sono convinti di tifare per la vera squadra della città, depositari dell’unica vera fede.

Essere dell’Īraklīs è veramente dura: sul rettangolo verde o sul parquet, non solo sei sempre terzo, ma i rivali che incontri tutti i giorni per strada, in classifica li vedi solo col binocolo. Condividere la loro medesima serie è un miracolo. Batterli più che una speranza è un mistero divino; più nello specifico, quello di Vasilis Hatzipanagis.

Nella lotta per la sopravvivenza al dileggio quotidiano, i Ghireos hanno una sola vera carta da giocarsi, ma che sbaraglia tutto il mazzo: «Sì, sì, tutto vero… facciamo più ridere dei nostri titoli di stato. Ma noi abbiamo avuto il più grande», e gli altri due ammutoliscono e annuiscono. Nell’Īraklīs ha giocato il più grande. Di sempre, e non della sola Ellade.


Il Maradona Greco

Al termine del ventesimo secolo Hatzipanagis è stato dichiarato dalla Federazione greca il calciatore più forte della storia del calcio ellenico. Con la divisa della nazionale giocò appena due partite, la seconda delle quali fu un amichevole nel 1999, a 45 anni, contro il Senegal. Una sgambata di venti minuti prima della sostituzione, nove anni dopo il ritiro, e a ventitré dall’unico vero match disputato con quella maglia, un’altra amichevole. Fu il disperato tentativo della Federazione di omaggiare un uomo che con il suo sinistro aveva sparso gioia in tutto il Paese, e che in cambio della sua devozione alla terra avita a prima vista sembrava aver ricevuto solo una mortificazione del suo sconfinato talento.

Veniva chiamato il Mago, il Nureyev greco, e il Maradona Greco, cui era accostabile non solo per la somiglianza fisica, ma anche perché entrambi col mancino in campo facevano quello che volevano: ala o regista, poteva essere ugualmente suadente e fatale.

Il destino è stato generoso alla nascita con Hatzipanagis, donandogli una bacchetta magica al posto del piede sinistro, ma si è rivelato più avaro in seguito, costringendolo, come in un sortilegio delle fiabe, a esercitare i suoi talenti in una minuscola prigione azzurra e candida. Un semidio prigioniero delle sue prerogative celesti.

Potrebbe sembrare che, come a volte capita con le espressioni del calcio minore, le narrazioni sulla sua classe siano state ingigantite dal contesto provinciale in cui era chiamato a esercitarla, ma dei video aiutano a rendere adeguata giustizia alla bellezza e all’incisività dei suoi tocchi.

Un Mago nascosto nella Torre Bianca (e blu) di Salonicco

Dal momento che non mancano i confronti con i titani di altre discipline, si può dire che fosse un Michael Jordan costretto a giocare per sempre negli scoraggianti Bulls del suo anno da matricola. Se i suoi compagni avessero potuto essere appena un poco più forti, forse l’Īraklīs avrebbe potuto trasformarsi in una regina del campionato, da Cenerentola che è sempre stata, così come accaduto a Chicago. Un fato di dannazione che solo un dribbling di Hatzipanagis avrebbe potuto eludere, lui che tra una finta e un tunnel aveva saltato dittature, regimi e catastrofi aeree.


Dal Mediterraneo alla Steppe e ritorno

Durante la Seconda Guerra Mondiale, i genitori fuggono dalla Grecia fascista nell’Uzbekistan sovietico, nella capitale Tashkent. È lì che nasce Vasilis, nel 1954. In migliaia di chilometri, forse nell’intero continente, non c’è nessuno forte come lui, e non ci mette molto a spiccare. Il Paxtaxor, la squadra locale, l’unica uzbeka ad aver militato nella Vysšaja Liga – la massima serie dell’URSS –, vuole tesserarlo, ma per farlo è necessario possedere la cittadinanza sovietica. Non avendo alternative, accetta ben volentieri.

A 17 anni è la stellina che risplende da Samarcanda alla Vistola, il CT Konstantin Beskov lo convoca in nazionale senza farlo esordire e lo definisce il più grande talento dopo il futuro pallone d’oro Oleh Blochin. A 21 anni viene convocato nella selezione olimpica e segna in uno dei tre match di qualificazione a Montreal ’76, dove l’URSS coglierà il bronzo, ma senza di lui.

Hatzipanagis

A destra Hatzipanagis, a sinistra i suoi compagni nell’URSS Under-19 nel Paxtakor: il centravanti Vladimir Fedorov e il centrocampista di origini coreane Mikhail An

Nel 1975 scappa nella Grecia degli avi, appena liberatasi dalla dittatura dei Colonnelli, accettando l’offerta della terza scalcagnata squadra di Salonicco, l’Īraklīs. La voce in città si diffonde in un attimo e ad attenderlo alla stazione del treno c’è una folla: ad Hatzipanagis basta scendere dalla carrozza, magari poggiando prima il sinistro, per divenire il calciatore più forte dell’Īraklīs e della Grecia. Sorpassata la cortina di ferro, dovrebbe esserci il mondo ad attenderlo.


Il Mago nella cella a righe di zaffiro e alabastro

Il primo anno asseconda tutte le illusioni di un futuro che non si preclude orizzonti: conduce il club a vincere il primo titolo della propria storia, la Coppa di Grecia, segnando una doppietta in finale in un 4–4 nei 120′ con l’Olympiakos, poi la compagine si rivela troppo poco competitiva per permettergli di arricchire la bacheca, nonostante le 300 partite in quindici anni.

Arriveranno altre due finali di Coppa di Grecia, e piazzamenti validi per la Coppa UEFA, ma decisamente briciole rispetto a quanto gli sarebbe spettato, se si esclude l’adorazione di una tifoseria e l’affetto di un’intera nazione. Si interessano a lui Arsenal, Lazio e Stoccarda, ma i tifosi minacciano di bruciare la sede della società in caso di partenza. Salonicco da via di fuga diventa una dolce prigionia: Hatzipanagis è un campione completo, e sino all’ultimo match coi Vecchi non smette di correre, per vincere, per infrangere ogni filo in cui le Moire hanno inteso legarlo.

Dopo la prima presenza con la Grecia è invece l’URSS a insorgere, pretendendo dalla FIFA che non possa più giocare con gli ellenici avendo già presenziato con i suoi Olimpionici; l’istanza viene accolta.

Anni dopo il suo ritiro dichiara di avere dei rimpianti, e che se potesse tornare indietro avrebbe preso decisioni diverse, che premiassero maggiormente il suo valore.

La spirale del suo fato è una perpetua finta. Al contrario dei due grandi eroi achei, Eracle, da cui prende il nome la squadra, e Achille piè veloce, non gli è stato concesso di scegliersi il destino a tavolino, ma prova di tutto per gabbarlo: appena tre anni dopo il Do svidanija all’URSS, i suoi tovarish del Paxtaxor caddero tutti vittime di un tragico incidente aereo a Dniprodzeržyns’k.

Non ha dovuto, come il Pelide, decidere tra una vita lunga e un nome imperituro, e nemmeno come il figlio di Zeus tra il comodo sentiero del vizio e quello più sofferto della virtù. Si conquistò molta più gloria di quanta ne accampa il semplice mortale, e molta di meno di quanta avrebbe dovuto ambire. Diede tutto laddove gli sarebbe bastato poco più di niente per essere immenso, ed apparentemente poco più di niente raccolse. Schivò una morte precoce e brutale, assisté alla dolce inedia della sua arte.

Nella notte sempre calda di Salonicco, cullati dal ritmo delle onde, sollazzati dalle reciproche contumelie di quei tre, quello del PAOK, dell’Aris, e quello dell’Īraklīs, non si può fare a meno di sorridere e sognare, di essere i più grandi con la casacca più scalcagnata.

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