Milinković-Savić

Sergej Milinković-Savić, imparare l’arte dai giganti

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Da un’acrobata o da un ginnasta ci si aspetta da un momento all’altro la magia, un gesto che fa rimanere a bocca aperta chi guarda. Uno stupore che diventa meraviglia, quando colui o colei che esegue certe azioni da una prima impressione parrebbe non poter mai riuscire nell’intento di emozionare a tal punto. Ecco, Sergej Milinković-Savić traslato in un campo verde è anche questo. Un ragazzone enorme, alcuni direbbero rubato ad altri sport come la pallacanestro – sport in cui la madre ha ben figurato – o la pallavolo, ma che invece proprio con il pallone tra i piedi riesce a proiettare illusioni nello spettatore.



Quello nato in Spagna, a Lleida, da genitori serbi, il 26 febbraio del 1995 è un talento innato, uscito dal calderone magico del calcio serbo e innestato in una struttura fisica dominante. Il contesto familiare ha certamente aiutato, con il padre ex calciatore e la madre, come accennato, giocatrice di basket a livello professionistico. Tra Vojvodina – squadra culto per quanto riguarda le giovani promesse da lanciare tra i grandi d’Europa – e Genk – altra compagine abile nell’accaparrarsi le stelle del domani –, Sergej Milinković-Savić si forma come giocatore totale. Dopo 18 presenze e 3 reti con la squadra belga nella stagione 2014/2015, è la vetrina internazionale del Mondiale Under-20 a far brillare la luce negli occhi di Igli Tare, oggi come allora direttore sportivo della Lazio.

Nel torneo iridato disputatosi in Nuova Zelanda è proprio la Serbia a trionfare, grazie al successo per 1-2 in finale contro il Brasile. Una Selezione che mise dinanzi al mondo la sconfinata classe del calcio serbo e che, peraltro, negli anni precedenti aveva fatto man bassa di trofei internazionali – tra cui un Europeo Under-19 vinto nel 2013.

La stella di Milinković-Savić esplode completamente in quella rassegna – sarà suo il Pallone di Bronzo della competizione alle spalle di Adama Traorè e Danilo – e in Belgio piovono chiamate provenienti da tutta Europa. Dopo un clamoroso dietrofront ad un passo dalla firma con la Fiorentina, è la Lazio a spuntarla, per una cifra vicina ai 10 milioni di euro, accompagnata – come spesso accade con giocatori futuribili come il serbo – da una percentuale sulla futura rivendita del ragazzo.

Vuoi per l’ambientamento alla nuova realtà o per un calcio nuovo, più attento alla tattica, l’inizio della sua avventura in Italia è un po’ complicato. Milinković-Savić approda a Roma quando sulla panchina laziale siede Stefano Pioli, il quale intravede subito le potenzialità del serbo, malgrado non siano originariamente espresse sotto forma di reti e prestazioni convincenti. La svolta arriva nella stagione successiva, con l’avvicendamento in casa Lazio tra Pioli e Simone Inzaghi – con in mezzo tre giorni di Marcelo Bielsa. Il tecnico piacentino passa dal 4-2-3-1 del suo predecessore al 4-3-3 – poi trasformato progressivamente in 3-5-2 – arretrando la posizione di Milinković di quel poco che basta per esaltare il suo dominio a tinte verticali sul centrocampo laziale.

Una verticalità in senso lato, ben visibile dai tagli con e senza palla nella zona di conflitto tra centrocampo e difesa avversaria, o dai lanci millimetrici alla ricerca della profondità dettata dalla punta. Il serbo ama premiare le tracce offensive dei compagni come dimostrano i numeri sui passaggi medi e lunghi tentati a stagione, sempre o quasi superiori alla metà dei complessivi. Il destro del classe ’95 fa cantare il pallone sul prato verde e regala sprazzi di estasi in chi guarda.

Vedere per credere le innumerevoli conclusioni della distanza, veri e propri gioielli scagliati con la precisione di un orologiaio svizzero e la potenza di un destro di Tyson. Milinković-Savić per natura sa e vuole essere decisivo nei 90’, facendo emergere l’arroganza di prevalere nei confronti dei diretti avversari sul piano tattico e fisico. Dalle parti di Bergamo hanno ancora tutti negli occhi quanto accaduto nella finale di Coppa Italia 2018/2019, secondo trofeo dei tre vinti dal serbo in maglia Lazio.

Il suo ingresso al minuto 78 ha di fatto deciso e stappato una partita ricca di capovolgimenti e quantomai aperta. Alla prima occasione utile – ad appena quattro minuti dal cambio – il 21 biancoceleste si erge imperioso nel cuore dell’area atalantina e azzanna il pallone proveniente dal calcio d’angolo di Lucas Leiva. Una scena a tratti iconica e che in quella porzione di campo si è vista e rivista nel corso degli anni. I suoi imperiosi stacchi di testa in zona goal sono un must della gestione Inzaghi, con il serbo sempre pronto a inserirsi sul lato debole delle difese.

Durante il percorso alla Lazio, il ragazzo ha imposto la sua fisicità e il suo piede delicatissimo in un sistema tattico perfettamente adeguato alle sue caratteristiche, migliorando anche quelle parti del gioco in cui non sempre è il primo della classe. Dal punto di vista difensivo, per esempio, sono ancora molte le pecche visibili soprattutto in fase di lettura del gioco avversario e che si traducono in qualche giallo evitabile. La sua esuberanza, inoltre – perlopiù visibile nei primi anni dal suo arrivo in Italia – talvolta porta la giocata ai limiti del narcisismo, caratteristica che il serbo ha saputo limare con il proseguo degli anni.

Annate fatte di luci e qualche ombra dinanzi agli occhi strabuzzati dell’Olimpico. Un prime vissuto nella stagione 2017/2018, quella iniziata con la vittoria in Supercoppa Italiana contro la Juventus e che è caratterizzata dall’apoteosi dal punto di vista realizzativo – 14 reti e 8 assist in tutte le competizioni – e dai famosi milioni rifiutati dal Presidente Claudio Lotito: «Milinković-Savić? Non bastano 100 milioni di euro, ne ho già rifiutati 110 di milioni ad agosto».

Un’etichetta che, forse, può aver pesato sul rendimento dell’annata successiva, la peggiore per condizione e bottino di reti, da inserire però in un contesto particolare come quello post-Mondiale. Da lì in avanti il giocatore ha saputo ritrovarsi e ritrovare quei lampi di supremazia visti con la stessa, rara, frequenza del passaggio di una cometa in Serie A. Nel momento in cui scriviamo ha raggiunto quota 50 reti e 42 assist in poco più di 260 apparizioni con i colori della Lazio, della quale ha conquistato ormai i gradi di vicecapitano. Un simbolo che allontana, almeno momentaneamente, le ennesime sirene di mercato riguardanti il suo futuro in biancoceleste.

Il giocatore è chiamato però ad un doveroso bilancio parziale sul prosieguo della sua carriera calcistica. La Lazio è ormai una famiglia per lui, ma a prevalere potrebbe essere il desiderio di arricchire una bacheca dalla grandezza proporzionalmente squilibrata rispetto al valore tecnico del serbo. L’ultimo titolo in ordine di tempo risale alla Supercoppa del dicembre 2019, aperta dalla rete di Luis Alberto su assist dello stesso Milinković-Savić e poi conclusa sul risultato di 1-3 in favore dei capitolini.

All’orizzonte una stagione tutta in divenire agli ordini del nuovo tecnico Maurizio Sarri – e iniziata già con 3 reti e 4 assist – e soprattutto un Mondiale, quello di Qatar 2022, conquistato nello scontro diretto contro il Portogallo e che potrebbe dare ulteriore lustro al gigante ex Genk. Il pressing delle grandi d’Europa è tangibile e noto, così come il rapporto creatosi negli anni con la sua gente, non ancora pronta a veder partire il fuoriclasse nativo di Lleida. La speranza dei laziali è dunque quella di vederlo a lungo con la maglia biancoceleste, quella dei tifosi italiani in generale risiede nel vederlo ancora in Serie A, ma a prescindere dalla società che vorrà rappresentare, ogni amante del calcio si potrà accontentare di ammirare le sue giocate in campo, perché anche dai giganti è lecito e doveroso apprendere la delicatezza dell’arte.

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