Tomislav Ivić

Il calcio Industriale-Internazionale di Tomislav Ivić

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Industriale è un aggettivo terribile. Industrioso è una parola senza difetti: si può eccedere col lavoro, ma non si è mai troppo industriosi. Industriale invece nella maggior parte dei casi evoca un agglomerato di ciminiere che vomitano fumo, ingombranti macchine d’acciaio e Charlie Chaplin che avvita ossessivamente bulloni. Si possono innalzare imperi, sogni, e città, con le industrie, qualcuno che aveva a che fare con Gaber le ha persino poste come le basi necessarie del paradiso terrestre, ma nell’immaginario comune resterà perlopiù il grigio che cancella il verde. La magia di Tomislav Ivić era un calcio assolutamente, orgogliosamente, prettamente industriale, e al contempo bellissimo, come fosse stato semplicemente industrioso.



Lo si metta subito in chiaro: era comunista quello che aveva a che fare con Gaber; Ivić era qualcosa di meno o di più, lui era socialista. E così il suo calcio, scolpito sul credo Titino, che se il social-comunismo fosse riuscito a radunare tutti gli slavi dei Balcani sotto un’unica bandiera, allora sarebbe stato uno scherzo unire i proletari di tutto il mondo. Del resto, sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti e un solo Tito. Per Ivić invece sono 13 i paesi in cui ha allenato, 8 quelli in cui ha vinto un titolo, 5 quelli di cui ha vinto il campionato, 2 i titoli internazionali e sempre e comunque un solo Tito. Molto più difficile completare una filastrocca partendo da 13. Si parta dall’abbellirla: Tito è un nome terribile, che suona bene solo da Trieste in giù, e solo dal lato opposto dell’Adriatico, dove si fa bene l’amore. Da sostituirsi con Spalato. Una sola Spalato, da portarsi ovunque nel mondo, l’altro polo della bussola assieme al socialismo.

Da Spalato proveniva quello che potrebbe essere considerato, con un anacronismo più grande del palazzo che si fece costruire, l’Imperatore Romano più socialista di tutti, e nel contempo il più keynesiano, un’indebita, immensa incoerenza degna figlia dell’anacronismo che l’ha partorita. Diocleziano era di umilissime origini, figlio di un liberto, uno schiavo affrancato, e scalò l’esercito dai ranghi più bassi sino al porporato. Praticamente pose fine a mezzo secolo di anarchia militare e recessione, con quattro lustri di lavori socialmente utili. Vinse guerre, varò molte riforme economiche, alcune di successo, tutte popolari, talune fallimentari. Era persuaso che tutti dovessero poter mangiare e lavorare. Pane e lavoro, a ognuno secondo le sue necessità, da ognuno secondo le sue qualità. Accentrò definitivamente il potere nelle mani dell’Imperatore, per poi suddividerlo in quattro distinte figure, la Tetrarchia Imperiale. L’organizzazione del lavoro a livelli Cesaristi. Similmente Tomislav Ivić veniva dalle fabbriche, l’importanza della suddivisione dei compiti l’aveva imparata lavorando come umile operaio al porto, ed è su quella che ha costruito i suoi successi e la sua utopia realizzata, un calcio che fosse funzionale e nel contempo espressione di un’idea che andasse oltre il rettangolo verde. Calciatori di tutto il mondo, unitevi!


Da Spalato con amore

Tomislav Ivić è stato un maestro ma non un autodidatta. Ha appreso tutto il necessario da Barba Luka, ovvero da Luka Kaliterna, allenatore quasi ininterrottamente dal 1923 al 1967 delle due squadre di Spalato, l’RNK, Radnički nogometni klub Split, Associazione Calcistica dei Lavoratori Spalato, e il più famoso Hajduk. Per la gente del porto esiste soprattutto il primo, che vincerà pure di meno, ma ha la maglia rossa. L’Hajduk fu fondato dal fratello di Luka, Fabjan, che ne fu dirigente per 40 anni, disputando una sola partita da giocatore – andando peraltro in gol. Probabilmente non volle mai rischiare di rovinarsi la media.

Fabjan fu anche un brillante architetto e del resto l’Hajduk fu fondato a Praga, nel 1911, dove lui e altri giovini spalatini d’ingegno borghese erano andati a studiare. L’RNK invece venne fondato nel 1912, durante uno sciopero. In principio aveva le divise nere come il movimento anarchico e si chiamava Anarh, con una C finale elisa per non irretire eccessivamente polizia e tribunali austro-ungarici. Solo più avanti si tinsero dei vermigli riflessi che contraddistinguevano l’Internazionale Comunista. Il club durante la Guerra Civile Spagnola organizzò una spedizione di volontari per fronteggiare Francisco Franco e, durante la Seconda Guerra Mondiale, molti giocatori entrarono nelle formazioni partigiane capitanate da Tito.

Tra il 1953, quando ha 20 anni esatti, e il 1957, Tomislav tutte le mattine dal lunedì al venerdì va al porto, carica, scarica, braga, aggiusta, smonta, sfacchina e, in ultima, orgogliosa, dignitosa sintesi, lavora. Dopodiché va al campo di allenamento e gioco sino a sera inoltrata. La domenica gioca la partita. Ne disputa 125 coi Rossi di Spalato, poi altre 11 in 6 anni coi bianchi dell’Hajduk, dove ovviamente è perlopiù uno sparring partner negli allenamenti. A segnarlo sono però gli anni con l’RNK, con Barba Luka, già vincitore di 3 titoli jugoslavi con l’Hajduk, che gli spiega: «è il gioco a segnare, non il giocatore», il collettivo è più importante del singolo, le cui qualità contano esclusivamente nella misura in cui riescono a far risaltare il gioco di squadra. Ogni elemento in campo è un ingranaggio, da solo non vale nulla, nella totalità può essere nel contempo indispensabile e sacrificabilissimo. Può essere rimpiazzato da un altro ingranaggio eguale o sufficientemente funzionale all’insieme, da elevarlo.

Come sosterrebbe il Tenente Aldo Raine in ‘Bastardi Senza Gloria‘, la via per la perfezione è la ripetizione sistematica e maniacale, e così, proprio come gli aveva insegnato Kaliterna, i primi anni da allenatore sono una successione infinita di schemi da curare, provare, levigare. E così anche gli altri: a cambiare saranno giocatori, costumi e nazioni, il metodo sarà sempre lo stesso. Semplicemente, come Platone con la sua filosofia, tornerà su passi, deduzione e idee, solo per cogliervi eventuali falle e possibili migliorie nell’applicazione, non nell’impostazione.

Dražen Mužinić, suo fedelissimo libero, all’Hajduk, in cui ha giocato dal 1970, 17enne, al 1980, divenne così legato ai suoi schemi da basare il suo intero stile di gioco sul chiamare il fuorigioco e far salire la difesa in tempo per applicarne la trappola. Ne divenne ossessionato: raccontò che gli capitava mentre passeggiava per strada di «invocare lo schema del fuorigioco, cosicché le persone si allineassero per prepararlo». Il Norwich pagò la cifra record di 300.000 pounds per portarlo in Inghilterra, dove però fece una figura mediocre perché, secondo il compagno Justin Fashanu, impossibilitato dalla barriera linguistica, in due anni non fu mai in grado di farsi intendere dai compagni di reparto. Finì così per ritirarsi a 29 anni dopo appena due stagioni in gialloverde.

Il suo è un calcio totale, come quello dell’Ajax di Rinus Michels prima, e poi di Ștefan Kovács, che va affermandosi in quegli anni. Tutti attaccano e tutti difendono, solo che mentre i Lancieri partono da quest’esatta idea, ovvero che tutti prima di tutto attaccano e poi difendono, per Ivić tutti difendono e poi attaccano. L’attacco totale e la difesa totale sono la stessa cosa, come il bicchiere mezzo vuoto e quello mezzo pieno, e ad Amsterdam qualche brillante dirigente con un occhio sul pallone dell’est se ne accorge.

Michels ha vinto, se ne è andato in Oranje, è tornato, non ha vinto e se né andato di nuovo. Kovács pure. Già da tempo anche Cruijff e Neeskens sono via, impegnati a colonizzare Barcellona. Mancano coppe che contano da 3 anni. Rivoluzionato il calcio, ora serve un’altra rivoluzione affinché nulla cambi e tutto rimanga com’è, ovvero l’Ajax in cima, se non al mondo, perlomeno alla piatta Olanda, che però in quegli anni sta toccando irripetibili vette. Nel 1976 Tomislav Ivić viene quindi chiamato dalla nazione più progressista e aperta del Vecchio Continente, lui Jugoslavo, dal paese meno socialista del blocco comunista, formalmente a capo del così detto ‘Terzo Mondo‘, i non allineati né agli Atlantici né a Varsavia. È proprio Michels a consigliarlo, il tecnico a cui lo spalatino, per sua stessa ammissione, si è ispirato di più dopo Kaliterna. È come se la tua stella preferita di Hollywood, dopo averti visto recitare nel teatro della tua città, decida di proporti un ruolo da protagonista per il blockbuster più prossimo, vaticinandoti quale futuro Oscar per la recitazione. Considerazioni che valgono più di qualsiasi titolo.

Ha 43 anni, allena da 8. È arrivato due volte primo negli ultimi due campionati jugoslavi, ha vinto 3 delle ultime 4 coppe nazionali e ha sconfitto 2-0 il PSV ai quarti di finale della Coppa Campioni, tutto con l’Hajduk. Ci ritornerà e ci si ritornerà, ma ora siamo esattamente a metà tra il 1974 e il 1978 ed è il momento dei Paesi Bassi.


L’Inizio del Gran Tour

Per dirigenti e tifosi dell’Ajax fare la rivoluzione è normale. Hanno rivoluzionato il pallone meno di 10 anni prima, divelto gli schemi classici, danzano al ritmo di Crujff e prendere un allenatore jugoslavo con delle teorie interessanti non è un’idea buona o cattiva, è semplicemente innovativa, ed è ciò che più conta. Lo scenario non ti piace? Ridisegnalo daccapo con nuovi colori. E non si può tollerare la vista di un triennio senza trofei, non dopo che hai dipinto l’Europa del tuo rosso e bianco.

Sarà un matrimonio coi suoi alti e bassi, ma cambierà la vita di Ivić. Ruota tutto attorno a Lavoro e Organizzazione, parole ben note sulle rive dell’Amstel. I problemi sono due: un altro principio cardine è che pure il talento deve essere asservito alla causa della squadra, mentre l’Ajax delle 3 Coppe Campioni in ogni caso cercava di esaltarlo, e poi i Lancieri ormai vogliono segnare sempre almeno un gol in più degli avversari, anche 3 o 4, non prenderne uno in meno. C’è una fortissima contrapposizione tra la star della squadra, Ruud Krool, appena diventato capitano, caposaldo del periodo d’oro e dei Paesi Bassi vicecampioni del Mondo e d’Europa, e il suo mister. Krool con l’avanzare dell’età si è spostato dalla fascia sinistra della retroguardia, dove si era già adattato da giovane, cambiando l’interpretazione del ruolo, al centro, dove vuole fare il libero che avanza, lancia, crossa e all’occasione pure segna. Il tecnico lo vorrebbe perennemente nelle retrovie a sbrigare matasse.

Seppur con fatica i giocatori lo seguono e arriva subito la vittoria in campionato, 5 punti davanti al PSV. Il percorso non era però cominciato benissimo: già al primo turno arrivò l’eliminazione nella Coppa Nazionale, e in UEFA, a causa di un sorteggio avverso che li aveva visti contrapporsi al Manchester United, superati in casa per 1-0, ma vincente all’Old Trafford con un doppio vantaggio. I Red Devils incontreranno la Juventus al turno successivo e verranno eliminati, mentre la Vecchia Signora andrà a vincere la competizione.

Positiva ma meno vincente la stagione seguente, con il secondo posto in campionato a 5 punti dal PSV, la KNVB beker persa solo in finale con l’AZ Alkmaar, e il cammino in Coppa dei Campioni che si conclude soltanto ai quarti, ai rigori, proprio contro la lanciatissima Juventus di fine anni ’70.

La spedizione in Batavia, la prima fuori dalla Croazia, apparentemente si conclude con un mezzo successo. In realtà rispetto al campionato e agli argenti, che ne hanno rinvigorito la bacheca, l’esperienza conta molto di più per quanto lo ha saputo arricchire. Rimarrà sempre un uomo fedelissimo a sé stesso, ma ora ha una nuova convinzione a guidarlo.


Un Uomo in Missione, Prequel e Sequel

È il momento di fare un salto indietro, ai primi passi in avanti, quelli fuori dal campo, dov’era solo un umile ma intelligente gregario. Comincia ad allenare come secondo di Kaliterna al RNK, qualche anno dopo aver appeso i tacchetti al chiodo, e senza aver mai smesso di lavorare al porto. Nel 1967/1968, a 35 anni, gli affidano la panchina, l’anno dopo è già all’Hajduk. Nessun tradimento: c’è un solo Tito, ma prima ancora di Spalatini relativamente borghesi – siamo pur sempre in una Repubblica Socialista – contro proletari, prima ancora di Spalato contro Zagabria, è la Croazia contro il resto della Jugoslavia, e la Serbia in particolare.

Del resto l’Hajduk non avrà arruolato tesserati per combattere Francisco Franco, ma ha sempre orgogliosamente difeso onore e prerogative della città e dei suoi abitanti da qualsivoglia ingerenza. Nel 1930 i suoi tesserati aderirono al boicottaggio della Nazionale jugoslava partente per il Primo Mondiale, contro l’avvallamento della dittatura serba da parte della monarchia; sotto l’occupazione dei Fascisti di Mussolini rifiutarono la proposta della FIGC di gareggiare in Serie A, e in seguito anche di aderire alla lega messa su dall’Ustascia, il partito dei croati collaborazionisti e filonazisti; nel 1944 entrarono nelle file dei partigiani e divennero ufficialmente la squadra dell’esercito di liberazione, per poi una volta conseguita la vittoria, addirittura rifiutare la proposta dello sloveno-croato Tito di spostarsi a Belgrado e diventare la fiera squadra dell’esercito, un ruolo quindi ricoperto dalla Stella Rossa, con tutti i prevedibili vantaggi sul campo che ne sono conseguiti.

Ivić si fa 4 anni di giovanili, che conduce per 3 volte alla vittoria del titolo di categoria. Nel frattempo l’Hajduk con allenatore Slavko Luštica vince nel 1970/1971 il titolo che mancava dal 1955, ma diffusasi la notizia del 3-0 a tavolino, con la quale la squadra viene sanzionata, per una monetina finita in testa all’arbitro durante un match con l’Ofk Belgrado, gli spalatini si riversano per le vie delle città e spingono in mare tutte le automobili con la targa della capitale. Il risultato viene riportato e fissato al 2-2 del momento della sospensione.

L’anno successivo Luštica non va altrettanto bene e inaugura quella che sarà una spiacevole tradizione per il club dalmata, l’uscita dalle coppe per la regola dei gol in trasferta, 0-0 a Valencia, 1-1 in casa, e addio alla Coppa dei Campioni al primo turno. Viene esonerato e subentra Ivić, che vince la Coppa di Jugoslavia al primo tentativo, prendendo la squadra in corsa, in finale con la Dinamo Zagabria. È il definitivo varo della zlatna generacija (“generazione d’oro”) vincitrice di cinque Coppe di Jugoslavia consecutive e tre campionati jugoslavi tra il 1972 e il 1979.


La versione Jugo di Clough-Taylor

Il tirocinio sembrerebbe finito, viene però relegato a secondo dell’ex ala, una vera leggenda per i tempi, Branko Zebec, da poco pure allenatore di successo, con in bacheca un campionato e una coppa di Germania conquistati col Bayern Monaco e una finale di Coppa delle Fiere persa contro the Damned‘ Leeds United di Don Revie con la Dinamo Zagabria nel 1965/1966. Zebec era un maniaco della disciplina ferrea e dell’allenamento intensivo, che però aveva la tendenza a scolarsi generose bottiglie di alcolici, che si portava in panchina, un vizio acuitosi nell’anno in cui ha portato, in seguito, l’Amburgo in finale di Coppa dei Campioni, contro il Nottingham Forest di un certo Brian Clough. Per queste e altre ragioni attorno a lui potrebbe tranquillamente ruotare uno spin-off del Maledetto United.

Nel corso di questa stagione Ivić, curiosamente a un certo punto diventa anche allenatore del Šibenik, il club della piccola Sebenico, qualche divisione più in basso, anche se continua a fare da fedele scudiero a Zebec. Questi slavi hanno preso a fare cose da turchi dopo anni di sottomissione alla Sublime Porta.

Zebec e Ivić alla Brian Clough e Peter Taylor, anche se forse sarebbe più corretto vederli come una duplice fusione della celebre coppia traslata dalle brughiere delle Midlands alle selve dei Balcani, danno vita a un emozionante percorso in Coppa delle Coppe. Liquidato il norvegese Fredrikstad con un duplice 1-0, già agli ottavi serve un 2-0 interno per ribaltare l’1-3 dell’andata rifilato dai gallesi del Wrexham. Similmente gli scozzesi dell’Hibernian s’impongono per 4-2 nelle Highlands e serve uno 0-3 a Spalato per accedere alle semifinali. Per la terza volta si va nel Regno Unito, a perdere ancora, nuovamente contro il Leeds di Reevie, per 0-1, ma stavolta in Croazia non si ripete la magia, onorevole ma insufficiente lo 0-0. In compenso si rivince la Coppa di Jugoslavia, stavolta in finale con la Stella Rossa.

Pilota solitario della Jugo

Zebec se ne torna ad allenare in Germania, e finalmente Ivić può cominciare una stagione da allenatore dell’Hajduk. Nel frattempo, per giusta misura, lo fanno anche allenatore della nazionale Jugoslava. In realtà è inserito per un breve periodo, in una specie di commissione tecnica, seguita alle dimissioni del 42nne Vujadin Boškov, in dissapore con Tito – è sempre in mezzo! – e partito alla volta dei Paesi Bassi, con un piccolo anticipo su Tomislav. Al Mondiale del ’74 ci andrà il mister della Stella Rossa, Miljan Miljanić, che poi subito dopo andrà ad allenare il Real Madrid. Dopodiché è il secondo di Ivić ai tempi delle giovanili dell’Hajduk, che non aveva mai allenato una prima squadra, a prendere le redini della nazionale.

A quella rassegna iridata, la Jugoslavia infligge un memorabile 9-0 allo Zaire e raggiunge la seconda fase a gironi. Sei giocatori sono dell’Hajduk Campione di Jugoslavia. Al suo primo anno da “titolare”, infatti, Ivić ha subito vinto il campionato e la Coppa nazionale. ‘Dupla Kruna‘, ‘Doppia Corona‘, ovvero Double in serbo.


«Saremo campioni se ce lo permetteranno»

L’anno successivo in campionato, Partizan e Hajduk arrivano a pari punti all’ultima giornata, a luglio, la differenza reti è a favore degli spalatini di 5 gol. Praticamente quelle messe a segno dall’undici di Ivić nello scontro diretto, un 6-1 devastante. Alla fine del match aveva dichiarato mestamente profetico: «Bit ćemo prvaci samo ako nam dozvole», «Saremo campioni se ce lo permetteranno». Il Partizan gioca a Lubiana contro l’Olimpia, che si è salvato dalla retrocessione nella giornata precedente, l’Hajduk è pure in trasferta, contro l’OFK Belgrado, la terza squadra della capitale. Le partite dovrebbero essere disputate in contemporanea, ma in realtà quella di Lubiana inizia con 7-8 minuti di ritardo.

L’OFK si spende per difendere l’onore della propria città in uno stadio infuocato e porta a casa l’1-1, mentre a Lubiana ancora si gioca col risultato stagnante sullo 0-0. L’Olimpia è in 10 dai primi minuti a causa della severissima espulsione del suo giocatore più rappresentativo, Goran Jurišić, tra l’altro l’unica che rimedierà in carriera. L’arbitro Dušan Maksimović, serbo di Novi Sad, non pago, concede un largo recupero ,anche se ai tempi non c’era ancora questa consuetudine. Il terzino Nenad Stojković, vent’anni dopo, ha ammesso che al 95’ ha detto all’arbitro «Facci giocare ancora un minuto, poi segniamo», dopodiché ha ricevuto la palla per passarla a Nenad Bjeković, che ha segnato la rete decisiva. Furia croata per il furto legittimato dall’ordine costituito, che impedisce nel 1975/76 di bissare il successo dell’anno precedente.

In compenso arriva il replay in Coppa di Jugoslavia, 1-0 ai supplementari, ancora a Belgrado in un derby croato contro la Dinamo Zagabria. E in Coppa dei Campioni si tenta il folle volo: spazzati via i maltesi del Floriana e i belgi del Molenbeek, è il PSV campione d’Olanda e spavaldo maestro di calcio totale il rivale dei quarti. All’andata però allo stadio Stari Plac sono loro a non capirci niente: gli spalatini giocano un calcio fuori dal mondo e da ogni schema conosciuto anche per i loro raffinati standard. Finisce 2-0, ma il risultato potrebbe essere molto più generoso. I dirigenti dell’Ajax si innamorano del tecnico che ha regolato i rivali con tanta maestria, l’Europa segna il suo nome. Fuori dall’Illiria però la magia si spezza. Al ritorno a Eindhoven i padroni di casa ribaltano il risultato e nei supplementari completano la rimonta, un 3-0 epico.

Ritorno dopo un biennio e conquista del titolo con 4 anni d’anticipo sul secondo posto

Quindi la chiamata dei Lancieri e il ritorno. Ora ha maturato l’esperienza internazionale per poter andare sino in fondo e portare un titolo europeo nella città che ai tempi di Diocleziano era la Capitale del Mondo. Nel biennio orfano del “loro” mister, i suoi ragazzi, con due allenatori diversi, hanno collezionato un ottavo e un terzo posto, e l’ennesima Coppa di Jugoslavia.

Subito si rivince il campionato, anche se soltanto per una differenza reti di +5 sulla Dinamo Zagabria, prima a parimerito, e dietro c’è un’altra storia incredibile a raccontarsi. Si può dire che il destino e la follia dei Balcani abbiano restituito all’Hajduk il titolo che la squadra dell’Esercito gli aveva portato via appena 3 anni prima. È successo infatti che alla prima giornata, il Rijeka, che quell’anno vincerà la Coppa Nazionale, aveva battuto la Dinamo 2-1, ma schierando il neoacquisto Edmond Tomić, che doveva finire di scontare una squalifica rimediata due mesi prima, quando ancora era tesserato per il Liria. Dopo due mesi viene assegnato il 3-0 a favore della Dinamo, poi però il Rijeka vince il ricorso, e la lite continua, finché la Federazione non opta per premiare il risultato del campo. Quattro anni dopo addirittura il Tribunale del Lavoro opta per la vittoria a tavolino della Dinamo, che così diventa vincitrice morale del campionato. Il titolo però era già stato assegnato ai rivali di Spalato, e lì infine rimarrà.


Dio è morto coi miti della razza, Dio è morto con gli odi di partito

Tomislav Ivić ha due sogni, per niente nel cassetto: ne è apostolo sulle piazze, nei campi, negli stadi e nei porti. Il Socialismo Internazionale e il Calcio Industriale. Ne è condottiero, li difende a spada tratta e a pugno alzato. In un anno rischia di perdere l’uno e l’altro.

L’obiettivo della stagione è uno soltanto: la Coppa dalle Grandi Orecchie. Spalato si è creata una Sala D’Onore sufficientemente vasta e nobile per accoglierla: nella zona denominata Poljud – ‘Paludi‘- per i Giochi del Mediterraneo del 1979, viene edificato l’omonimo stadio in cui ancora oggi giocano i bianchi: 50.000 posti, un design futuristico, uno sguardo sicuro verso il Sol dell’Avvenir. Diventerà il teatro di uno spettacolo irripetibile.

Il 4 maggio si gioca la 25° giornata, i campioni in carica croati dell’Hajduk contro i lanciatissimi sfidanti serbi della Stella Rossa, che stanno per entrare nel periodo d’oro della loro epopea. In palio c’è lo scudetto e probabilmente la supremazia sull’intero paese nel nuovo decennio. Il match segnerà la Storia.

Al 41′ tre uomini entrano in campo e segnalano all’arbitro Husref Muharemagić di interrompere la partita. Il sindaco di Spalato Ante Skataretiko prende il microfono ed informa la folla di 35.000 persone che il presidente jugoslavo Josip Broz Tito è morto. Gli spalti scoppiano in un pianto di massa, alcuni giocatori crollano a terra a piangere. La folla si lancia a cantare «Druže Tito, mi ti se kunemo, da sa tvoga puta ne skrenemo», «Compagno Tito, non ti tradiremo, dalla tua strada non devieremo». Tomislav Ivić è in campo. Il Sole dell’Avvenire declina sulla Jugoslavia, un’alba prima rosso sangue e in ultimo verde speranza si leva su Slovenia, Croazia, Macedonia, Bosnia, Montenegro, Serbia e Kosovo.

Appena qualche mese prima, l’altra grande delusione. Portare Spalato sul tetto d’Europa avrebbe decretato l’avvento del suo calcio. La definitiva realizzazione della missione per cui sapeva di esser nato. La gente del suo porto a festeggiare il suo calcio industriale, con gli occhi del mondo puntati addosso.

In Coppa dei Campioni, la prima delle partite che non si possono sbagliare sono i quarti di finale contro l’Amburgo di Kevin Keegan e Felix Magath. Vincitori della competizione nel 1977, sono allenati da Branko Zebec, il vecchio collega di Ivić. L’uno conosce a menadito gli schemi dell’altro, e la paura in riva all’Adriatico è che a decidere le sorti del doppio confronto possa essere il valore dei singoli piuttosto che il collettivo, ciò su cui Ivić ha sempre puntato. Così fosse, la bilancia propenderebbe per gli Anseatici. La battaglia al Volksparkstadion finisce 1-0 per i padroni di casa; il ritorno al Poljud è al cardiopalma. I tedeschi riescono nel blitz: sono avanti già al 2’ con una scorribanda eseguita alla perfezione. Seguono però 90 minuti di dominio totale spalatino, incentrato su possesso palla, tagli e sovrapposizioni oliati da 10 anni di pratica. Una macchina pensata però per minimizzare l’errore umano, non per cancellarlo: subito dopo il pareggio del terzino Vujović al 21′, con i croati in totale controllo, il compagno di reparto Boro Primorac sbaglia un tocco e gli avversari tornano sopra. Ora a causa dei gol in trasferta servono di nuovo 3 gol per passare. Zebec si asserraglia nella propria area, si gioca in una sola metà campo. Al 49’ arriva il pareggio, al 85’ Primorac vendica il suo errore siglando la marcatura per una vittoria tanto memorabile quanto inutile. L’Amburgo poi perderà in finale contro il Nottingham Forest di Brian Clough.

«Come ogni altro club, l’Hajduk necessitava di organizzazione, esperienza e giocatori. In tutte e tre l’Hajduk aveva superato la Jugoslavia ma non l’Europa. Per essere campione d’Europa, devi essere perfetto in tutte e tre», spiegherà una volta ritiratosi. «Non ero al mio meglio, stavo ancora crescendo, assieme alla squadra. Se quell’undici fosse rimasto assieme, sono sicuro che sarebbe potuto diventare Campione d’Europa».

Più di un ciclo è finito in quel 1980. Per rendere il suo Calcio Industriale finalmente internazionale la strada è andare per il mondo.


Collezionista di paesi

A questo punto la carriera di Tomislav Ivić assume i connotati di una partita particolarissima di Football Manager, in cui l’utente si diverte a cambiare squadra e paese ogni anno, o a collezionare determinati achievement. Per essere un tecnico divenuto noto per la forza dei progetti costruiti nel tempo e gli schemi affinati con l’esercizio, la sua vita assume un ritmo schizofrenico, quasi come se non fosse mai uscito dalla Jugoslavia e avesse fame di assaporare l’intero pianeta. Eppure poteva vantare un biennio all’estero nel ricco Occidente che rappresentava un unicum rispetto alla quasi totalità dei suoi connazionali. Forse al contrario era stata proprio l’avventura nei liberissimi Paesi Bassi a stimolargli l’appetito per nuove culture e spedizioni per il globo. O forse è stato semplicemente il caso a spingerlo qua e là come un novello Odisseo.

Ancora a caccia della Coppa dei Campioni, quindi Odissea per il Mediterraneo

Nelle Fiandre conservano il ricordo di lui come di uno specialista nel riportare al titolo club blasonati che non vincono il campionato da troppo tempo. Così è l’Anderlecht, mattatore in Coppa delle Coppe durante gli anni ’70 ma a secco di affermazioni in massima serie dal 1973/1974, ad affidargli una nuova panchina. Arriva e centra subito l’obiettivo: umilia la concorrenza ed è campione in tutti e 3 i paesi in cui ha allenato, al primo tentativo.

Il 1981/1982 è una delle sue annate epiche: la campagna europea lo distrae dal campionato, dove per soli due punti manca il primo posto. A dirla tutta a sottrargli il primato nazionale è lo Standard Liegi di Raymond Goethals, che all’ultima giornata è avanti due punti e a cui basta un pareggio contro il modesto Waterschei per vincere il campionato. Incredibilmente colui che diventerà il tecnico più anziano a vincere la Coppa dei Campioni con l’Olympique Marsiglia, decide di comprarsi, per una cifra irrisoria, i migliori giocatori del Waterschei, che sono tutti amici del capitano del Liegi, Gerets. Ancor più incredibilmente, l’intera vicenda verrà scoperta solo due anni dopo per un banale controllo fiscale e il titolo non verrà revocato a Les Rouches, che però a causa delle sanzioni, dovranno affrontare il periodo peggiore della loro storia come polisportiva.

In Coppa dei Campioni arriva sino alle semifinali, record nella storia della società, venendo sconfitto solo dai futuri vincitori dell’Aston Villa. Agli ottavi elimina la Juventus, che dà ben 7 titolari alla selezione che l’estate successiva solleverà la Rimet in Spagna, battendo dunque, praticamente, la futura squadra campione del mondo. E se da un lato i bianconeri lamentano qualche assenza di troppo, i quotidiani italiani ammettono sportivamente, che a Ivić mancavano i tre giocatori più forti in assoluto, gli autoctoni Renquin, Coeck, e il terzino Luka Peruzović, un fedelissimo del tecnico, essendo con lui da quando esordì, a 18 anni, nel 1969, nell’Hajduk. È una vittoria della sua organizzazione, sul valore degli stessi campioni della sua rosa. 3-1 ad Anversa, 1-1 a Torino.

Ai quarti si toglie la soddisfazione di battere due volte per 2-1 la Stella Rossa, poi coi Villans di Mortimer in 180’ un solo gol, all’andata in terra albionica, ma è sufficiente.

Nel 1983 subisce il primo esonero in carriera. Forse all’Anderlecht sono ansiosi di far esordire come allenatore la leggenda bianco-malva e del calcio belga Paul Van Himst, da calciatore ribattezzato ‘Il Pelè Bianco‘. I Paars-wit a fine anno festeggiano un secondo posto, ad appena un punto dalla capolista, e, soprattutto una Coppa Uefa. Plausibile che sui brillanti risultati del debuttante Van Himst ci abbia lasciato un’impronta il suo predecessore.

Per la stagione seguente lo cerca un’altra nobile in cerca di riscatto. Dal Mare del Nord si ritorna al Mediterraneo: il Galatasaray, a cui manca lo “scudetto” dal 1972/1973, gli apre la Sublime Porta. Non si ripete però il miracolo: appena 3° posto.

Prova il ritorno in patria: la Dinamo Zagabria lo accoglie a braccia aperte. L’annata però è deludente: 6° posto e fuori dalle coppe, mentre in Kup Maršala Tita, dove tante volte ha primeggiato, deve cedere alla Stella Rossa.


In bocca al Lupo

A questo punto arriva una delle avventure più particolari e, dal suo punto di vista, più esotiche del mister giramondo. Dopo una carriera passata a far vincere titoli a candidate proclamate e attendibili outsider, a seconda del contesto, o perlomeno a provarci, è invocato alla pugna per non retrocedere. Ma la chiamata è di quelle prestigiose: l’Avellino più forte di sempre e la Serie A, che sta rapidamente diventando il campionato più competitivo, ricco e glamour del pianeta, con tutte le sue contraddizioni.

I campani sono da 7 anni consecutivi in massima divisione, in pianta stabile da quando l’hanno raggiunta la prima volta: qualche anno meno sofferto, ha fatto da intervallo alle rincorse sino all’ultima giornata per la permanenza nel tribolato paradiso. La rosa è una collezione di onesti mestieranti, in cui spiccano due affermate stelle di scintillante talento: l’agile centravanti Ramón Ángel Díaz e l’energico regista Fernando De Napoli.

«Ho sempre guidato squadre che puntavano al titolo. In Italia dirigerò una squadra che cerca la salvezza. Sarà tutto più difficile, ma troverò un nuovo modo per emergere» – dichiara alla presentazione – «La squadra giocherà in velocità, con rapidissimi passaggi e un pressing asfissiante. Si deve arrivare al tiro con meno passaggi possibili. Dalle fasce dovranno arrivare cross tesi e bassi. Fondamentale la tenuta fisica». Quindi l’alzata dell’asticella: «Porterò l’Avellino in Europa!».

Ivìc con il presidente dell’Avellino Pecoriello in conferenza Stampa

Per il presidente Pecoriello è un colpaccio. L’ambiente è in fibrillazione: il magnate Elio Graziano, che si rivelerà in seguito uno dei fuoriclasse della corruzione della Prima Repubblica, tenta la scalata societaria e si aggiudica il 49% delle azioni. Pecoriello e Spina prendono Ivić anche come risposta alla bramosia dello ‘Zio Elio‘, come comincia a farsi chiamare.

Con la liquidità immessa a disposizione, per una volta l’Avellino non è la società che deve solo vendere a tanto e comprare a poco per sopravvivere. L’Udinese dell’ex allenatore Vinicio ne acquista in blocco mezzo centrocampo ma i rimpiazzi sono all’altezza: vengono riscattate le migliori comproprietà in ballo, si puntano addirittura Falcao, Sócrates e Cerezo; De Napoli e Díaz vengono trattenuti e rinnovati; infine il colpaccio in difesa, Galvani dalla Cremonese per 2,8 miliardi di lire, giudicato ‘il nuovo Cabrini‘.

Dopo un’estate sotto tono, il calendario è terribile: nelle prime 4 Juventus, Verona campione d’Italia in carica, Inter e Milan. Mancano solo il Real Madrid, il Partizan o la Stella Rossa e due liocorni. E infatti alla sesta c’è pure la Roma.

In realtà pur portando a casa un solo punto nelle prime 4 giornate la squadra tiene botta. Alla quinta però, il pareggio interno con l’Udinese fa ballare la panchina. Si mormora che siano stati sentiti un po’ di potenziali rimpiazzi ma nessuno si sia voluto accollare l’onere. La squadra risponde alla grande alle critiche e vince contro la Roma. Un altro momento difficile poco dopo, scontro diretto col Como e 4-1 per i lariani. Poi però la squadra ingrana e per un mese abbondante macina punti. Addirittura il Partenio diventa un fortino inespugnabile. Più nessuno riesce a passare in Irpinia. Nel frattempo verso la vigilia, Graziano riesce a spuntarla e diventa il nuovo presidente. In vetrina l’inizio del girone di ritorno: 0-0 con la Juve, 1-0 all’Inter, 1-1 col Milan. Poi però una doppia batosta: 3-1 dall’Udinese, 5-1 dalla Roma. Prima del successivo match col Pisa, il tecnico ammette: «C’è qualcosa che non riesco a correggere in questa squadra, qualcosa che a 9 giornate dalla fine mi preoccupa molto». Colomba sbaglia un rigore e finisce 0-0. L’Avellino è quart’ultimo, un punto sopra la zona retrocessione, dov’è accampata l’Udinese. In piena linea con le realistiche aspettative stagionali, viene esonerato. Graziano si giustifica: lo avrebbe tenuto, ma l’intero consiglio premeva per tagliarlo. Gli imputano una convivenza troppo difficile con le consuetudini del calcio italiano, scarsa permeabilità, il mancato utilizzo di Galvani e qualche screzio coi giocatori.

A sorpresa i tifosi insorgono, ed è una delle sue vittorie più belle: nonostante non sia durato nemmeno una stagione intera, nella lettera in cui si protesta contro il suo allontanamento i toni sono indignati, viene dipinto come un eroe a cui tutti sono affezionati tradito e vilipeso. «Un tecnico stimato da tutti i tifosi per le sue doti tecniche e umane», «un uomo, un tecnico dagli alti valori umani e professionali».

Il più sorpreso è proprio Ivić, al solito sia accanitamente passionale che freddamente lucido: «Non me l’aspettavo. La classifica era sì preoccupante, ma quando mai non lo è stata per l’Avellino? Le classifiche degli anni passati non sono migliori. Non ho dubbi che ci saremmo salvati. Peccato, avrei dato il mio premio salvezza ai terremotati. Mi sento legato a questo popolo».

Ne prende il posto colui che già prima formalmente faceva le veci del mister, Enzo Robotti, da calciatore una leggenda della Fiorentina con 15 presenze in nazionale, da mister poco più di un carneade. Nelle ultime 8 giornate l’Avellino rivela una brillante forma atletica e si salva con relativo agio. La profezia dell’uomo dell’Est, bistrattato come una Cassandra, si perpetra.

L’anno dopo è al Panathīnaïkos, ma evidentemente non è destinato a sposarsi bene col biancoverde. Nonostante il trifoglio e lo sgargiante smeraldino che ornano le casacche del club ateniese, l’avventura greca dell’Ulisse delle panchine è poco fortunata e piuttosto incolore. Approdato ai Prasinoi dopo che avevano centrato il Double Alpha Ethniki, campionato, e Kypello Ellados, coppa, mentre due anni prima erano approdati in semifinale di Coppa dei Campioni, venendo eliminati solo dal Liverpool detentore in carica del trofeo. Il materiale per far bene c’è, eppure l’inizio è deludente, e il 30 settembre è già fuori dall’Europa a causa della Stella Rossa, una rivale che negli anni si rivela ben più ostica del Partizan. A novembre gli subentra Vassilis Daniel, che conduce i “verdi” al secondo posto e alla finale nella Kypello, e nel tempo assurgerà a loro leggenda con 106 vittorie in 161 partite. Per Ivić invece è la terza esperienza tra le ultime 4 a chiudersi con un esonero a stagione in corso. La sua stella sembra prossima al declino, e invece a sorpresa tornerà a luccicare, come forse nemmeno nei ruggenti anni di Hakduk e Ajax.


Apogeo

Un po’ a sorpresa infatti lo chiamano ad allenare i Campioni d’Europa in carica del Porto. Il loro mister, Artur Jorge, nonostante ambisse a centrare l’Intercontinentale, ha deciso di accettare la ricchissima offerta di Jean-Luc Lagardère, patron della Matra, di un impero dei Media e dell’ambizioso Racing Club de France di Parigi.

Os Dragões hanno bisogno di un timoniere esperto, in grado di gestire l’immenso potenziale di talento ed esperienza accumulato e capitalizzato da Jorje. Il “Pallone d’Argento” Paolo Futre se ne va all’Atlético Madrid, Juary torna in Brasile, ma restano il tacco di Allah Madjer, Rui Barrios, il bomber Fernando Gomes, e leggenda con la fascia al braccio nel suo prime, João Pinto. In effetti la scelta di Ivić non è spiazzante come potrebbe sembrare. È abituato ai grandi palcoscenici e a integrarsi prontamente in campionati non ancora esplorati. Sa come si vince e come si trattano i grandi calciatori. La scelta non si rivela vincente, ma trionfale: la Super Coppa Europa, l’Intercontinentale, il campionato e la coppa. 15 punti sul Benfica secondo, su 38 partite, 29 vittorie e 1 sola sconfitta, 88 gol fatti e appena 15 subiti. In Coppa dei Campioni deve cedere agli ottavi al Real della ‘Quinta del Buitre‘, che poi sarà finalista. Sino all’exploit di André Villas-Boas nel 2013 nessun’altro allenatore del Porto si rivelerà capace di vincere 4 titoli al suo debutto sulla panchina degli Azuis e Brancos.

A fine stagione viene allontanato solo perché Artur Jorje per dei problemi personali deve tornare in Portogallo e chiede il suo vecchio posto, e ovviamente nessuno può rifiutargli la richiesta. Ma Tomìc si è definitivamente rilanciato. Così è lui a staccare il biglietto per Parigi, ma dall’altro lato del Parco dei Principi: ad attenderlo c’è il Paris Saint-Germain.

Deve nuovamente rimpiazzare un pezzo da novanta: Gérard Houllier, che nel 1985/1986 aveva portato al loro primo titolo i Rouge-et-Bleu. Viene però arruolato come Direttore Tecnico della Nazionale francese e del resto nel 1987/1988 il PSG è vittima di un brutto crollo, sprofondando al quindicesimo posto, appena tre punti sopra la zona retrocessione. Ivić si rende artefice di un emozionante duello nel primo campionato a 3 punti per vittoria nella storia francese: in vetta dalla settima giornata e in solitaria dalla sedicesima, Campione d’Inverno, dalla ventiduesima si vede raggiunto dallo stellare Olympique di Bernard Tapie, alla caccia del primo titolo del loro ciclo. La sfida viene diramata solo dallo scontro diretto della trentacinquesima: 1-0 a favore dei Bianchi del Midì. Per Ivić è comunque una stagione in più da incorniciare: dal quindicesimo al secondo posto. Meno memorabile il quinto posto dell’anno successivo con cui dice Adieu anche alla Ville Lumière.

La prossima tappa è Madrid, a volerlo è l’Atlético di Jesús Gil, assettato di titoli. La squadra viene da un quarto posto non troppo emozionante e l’accordo tarda a venire, per cui Ivić s’insidia in panchina solo dopo la prima giornata, formalmente al posto della bandiera del club e preparatore delle giovanili Iselín Ovejero. Dà vita a un altro serratissimo testa a testa con una squadra all’alba della sua era d’oro, il Barcellona di Cruijff. I suoi Colchoneros dalla sesta alla trentesima giornata non perdono una partita, e dalla nona alla ventiseiesima non subiscono gol, stabilendo un record per le lande Iberiche. Crollano però nel finale, con appena 3 punti nelle ultime 10, che permettono agli Azulgrana di vincere con 10 punti di distacco. Nonostante ciò la dirigenza lo terrebbe volentieri, se non fosse che la Juventus comincia a corteggiarlo non riuscendo a riportare Trapattoni, legato all’Inter, in bianconero. Nonostante il secondo posto, viene dunque esonerato a fine stagione, sentendosi già a Torino, ma c’è ancora la Copa del Rey da concludere e da vincere. Arriva infatti l’agognato titolo, attribuito in compartecipazione al croato e a Ovejero, visto che il mister di Spalato viene allontanato subito prima della finale. Beffa: c’era già il contratto scritto, ma alla fine Agnelli con un – infelice – intuizione dell’ultimo minuto opta per Maifredi.

Il croato è però ambitissimo e trova subito un altro portone che dà sul grandissimo calcio: ritorna in Francia, lo vuole l’Olympique Marsiglia di Tapie. Il temerario magnate francese vede in lui l’uomo giusto per sollevare la Coppa dalle Grandi Orecchie, un’ossessione comune, persa l’anno precedente soltanto ai rigori nella finale di Bari, a causa della Stella Rossa, un incubo comune con Ivić. Il suo predecessore, subentrato a gennaio a Franz Beckenbauer, è Raymond Goethals, l’allenatore del Liegi nel 1982. Ivić viene quindi raccomandato dai suoi stessi (ex) avversari.

Il campionato comincia il 20 luglio e sino al 20 agosto vince 5 partite su 7 con 2 pareggi, portandosi rapidamente in testa, poi la situazione incredibilmente prima s’incrina e poi precipita. Dopo la prima sconfitta il 28 agosto, col croato la squadra perde una sola altra partita in 11 disputate, con 3 pareggi in Ligue 1 su 7 match, ma è decisiva: è il ritorno del secondo turno di Coppa dei Campioni. Il 23 ottobre in casa i suoi si impongono 3-2 sullo Sparta Praga, per l’ultima volta rappresentanti della Cecoslovacchia, ma in Boemia finisce 2-1. Tapie, già piuttosto annoiato dal gioco difensivo espresso dalla squadra, ne rimane così deluso che lo esonera e rimette Goethals in panchina.

I Les Phocéens vinceranno in seguito il terzo campionato di fila, ed essendo che formalmente Goethals e Ivić erano in tandem sin dalla prima giornata, alcune fonti gli assegnano anche la conquista dello scudetto francese, in bella compagnia in bacheca affianco ai corrispettivi di Jugoslavia, Paesi Bassi, Belgio e Portogallo.

Proprio in Lusitania la prossima panchina: lo chiama il Benfica per sostituire Sven-Göran Eriksson. È però un’esperienza deludente. Rimuove Toni, bandiera del club e già vincente nel ruolo di allenatore capo, dal ruolo di Secondo e Assistente in ragione di Sheù. Parte maluccio, perde il replay della Supercoppa col Porto nonostante fosse avanti di due reti, e viene esonerato dopo aver perso il derby con lo Sporting Lisbona, la prima disfatta da 8 anni nella stracittadina. Gli subentra proprio Toni, che arriverà a giocarsi il titolo sino all’ultimo col Porto e vincerà la Coppa di Portogallo.

La disfatta non ne ostacola un sorprendente ritorno proprio al Porto. Il brasiliano vincente Carlos Alberto Silva, infatti, se ne torna in patria e Os Dragões lo considerano un sicuro cavallo vincente su cui i rivali non hanno saputo puntare a modo. La stagione però non va come programmato. La squadra lotta per il titolo ma stenta, non è come da pronostico l’ammazzacampionato. In Champions League, o meglio in un misto tra la Champions che sarà e la vecchia Coppa dei Campioni, conduce la squadra al Girone a 4 in cui i primi due posti valgono le semifinali. Non è sufficiente. Ad autunno inoltrato lo Sporting Lisbona esonera inspiegabilmente Brian Robson, che stava facendo benissimo. I dirigenti del Porto decidono che non possono lasciarselo scappare e il 30 gennaio silurano Ivić. Il ciclo del tecnico inglese sarà leggendario, vincerà subito la Coppa Nazionale, arriverà secondo quell’anno, e poi dominerà in Lusitania per un biennio. Verrà soprannominato ‘Mr Five 0‘ a causa delle numerose Manite rifilate agli avversari, mentre Mourinho e Villas Boas gli facevano da assistenti. Nel frattempo il suo predecessore è entrato in una nuova fase della sua carriera, forse un po’ meno prestigiosa della precedente ma non meno affascinante.


Fine turno, si ritorna domani al Calcio Industriale

Il Mister che veniva dal Porto di Spalato e che credeva nel Socialismo, che è partito per mille avventure in giro per l’Europa che calcisticamente conta, si concede agli ingaggi di lusso in mete di scarso rilievo pallonaro, ma estremamente esotiche, prima di seguire un’ulteriore svolta e tornare nell’agone, sin oltre ai 70 anni. È plausibile che anche nelle spedizioni oltre il Vecchio Continente fosse comunque spinto dal gusto dell’esplorazione e della sfida, dal desiderio di insegnare e far crescere.

In realtà la prima esperienza sui generis di questo ciclo, e per molti versi l’ennesima della sua epopea, è l’unica partita come allenatore della Croazia. Sostituisce ad interim Miroslav Blažević, quest’ultimo squalificato per la partita di Qualificazione all’Europeo del ‘96, contro l’Italia, del 16 novembre 1994. Finisce così per allenare sia la Jugoslavia che la sua nuova patria senza esserne davvero l’allenatore. E vince. Doppietta di Suker. Il suo record con la Croazia lo vede quindi lasciare con uno score di vittorie del 100%, ottenute peraltro solo contro avversari non inferiori ai vicecampioni del mondo. Insomma, una boutade.

Lo spalatino si trovava libero di accettare questo cameo in quanto impegnato in un ruolo teoricamente meno stressante dell’allenatore, ovvero il Direttore Tecnico. Il Monaco infatti già a settembre dopo un brutto inizio esonera Wenger arrivato solo nono l’anno precedente, e chiama al debutto in panchina, subito dopo il ritiro, la leggenda 40enne Jean-Luc Ettori, 602 presenze in Ligue 1 dal 1973, tutte con la compagine del Principato. Gli viene affiancato Ivić per dargli l’esperienza che gli manca. Nonostante la rosa sia ricca di talenti – Thuram, Petit, Djorkaeff, Henry, Weah, Scifo – Ettori non ingrana in quella che sarà la sua unica esperienza in panchina. Verrà esonerato a febbraio, ma per allora Ivić è già dall’altra parte del Mediterraneo. Praticamente subito dopo aver sconfitto l’Italia a Palermo nel suo interim come CT croato, accetta la chiamata del Fenerbahçe, coi gialloblu al quarto posto, costretti a rimpiazzare repentinamente Holger Osieck, in partenza per il Giappone. E al quarto posto li lascia a fine campionato.

Arriva dunque il momento degli scenari e degli stipendi da mille e una notte. E forse per questo continua a sognare e a far sognare, spingendo due nazionali ai loro massimi risultati storici. Prima gli Emirati Arabi Uniti gli offrono la panchina. C’è da ospitare la Coppa D’Asia 1996. Il gruppo della fase finale vede come avversarie nell’ordine Corea del Sud, Kuwait e Indonesia. Pari 1-1 contro i primi, quindi due vittorie, per 3-2 e 2-0. Primo posto nel girone. Ai quarti una vittoria sull’Iraq, per 1-0 con il golden gol di Abdulrahman Ibrahim al 103′ e in semifinale rivincita a segno contro il Kuwait, ancora 1-0. Per la prima e, al momento, unica volta gli Emirati sono in finale. Solo i calci di rigore impediscono loro di sollevare il trofeo, aggiudicato dall’Arabia Saudita. Praticamente Ivić ha allenato due nazionali senza aver mai perso una partita ufficiale, un’altra curiosa statistica di una carriera senza pari.

Lascia la panchina della nazionale degli Emirati per una comparsata nella loro squadra di maggior successo, l’Al Wasl, che abbandona a sua volta per andarsene in Iran, che ha appena raggiunto una qualificazione storica al Mondiale, superando l’Australia in un concitato match di fronte a 85.000 Aussie, intenti a scoprire un pallone che non fosse ovale, e le sue segrete spigolature. È l’ennesima disavventura tra il suggestivo e il bislacco della sua carriera. Deve allenare in contemporanea la Nazionale e la squadra più forte, il Persepolis, due squadre che coincidono in larga parte. Lascia però l’Iran prima dell’inizio dei Mondiali di Francia per entrare nello Staff della Croazia, che vi raggiungerà il terzo posto, mentre il Persepolis nonostante la buona forma, a causa degli impegni nel Campionato d’Asia per club e il gran numero di nazionali in rosa, si ritira dal campionato, e questo perché la Federcalcio del paese non è sufficientemente organizzata nel coordinare le partite degli uni e degli altri. In quella che diventa l’unica competizione, la Coppa d’Asia, arriva “solo” una semifinale, persa con i cinesi del Dalian Wanda. Nel frattempo l’Al Wasl senza di lui aveva vinto il titolo precedente ai play-off, confermando un’altra curiosissima ricorrenza nella carriera di Ivić, ossia quella di veder vincere le sue squadre, una volta lasciate. Ciò rende complesso stabilire il numero effettivo di titoli vinti dal tecnico croato.

La sua carriera ha ancora tempo per gli ultimi arzigogoli e punte di lirismo da calcio che non esiste più, che va a morire col secolo e il millennio. Rigira il mondo da capo a tondo e se ne torna in Belgio, allo Standard Liegi, che, a parte una Coppa del Belgio, non ha più vinto nulla da quando è stato beccato per quella partita aggiustata nel 1982, quasi vent’anni prima. A inizio decennio ha sfiorato lo scudetto, poi è scivolata più in basso sino a farsi estromettere persino dall’Intertoto. Col croato arriva un buon sesto posto e la finale di Coppa.

Comincia al Liegi anche l’annata successiva, poi però fiaccato dai primi problemi al cuore prova per la prima volta ad allontanarsi dal calcio. Non sa però resistere a un’altra chiamata di rilievo. Bernard Tapie non è riuscito a diventare il Berlusconi di Francia, la sua ascesa è finita col caso Valenciennes-Olympique, ma gli vengono egualmente riconosciuti doti manageriali e un amore spropositato per il club, quindi dopo che i marsigliesi passano dal secondo posto in Ligue 1 e dalla finale di Coppa UEFA del 1998/1999 ad un passo dalla retrocessione per due volte di fila, è proprio l’istrionico magnate che chiamano come Direttore Sportivo. E questi ha un nome in cima al taccuino per la panchina. Tomislav Ivić ritorna all’Olympique di Tapie. Obiettivo salvezza, come non gli capitava dai tempi di Avellino: arriva alla trentunesima giornata con ancora quattro partite da disputare: due vittorie, un pareggio e una sola sconfitta. Missione raggiunta, fosse arrivato prima magari ci sarebbe scappato anche un Intertoto. Per la stagione successiva svolge tutta la preparazione, le amichevoli e i primi match di Coppa, ma poi il cuore, inteso come organo umano, lo allontana dal suo grande amore, inteso come mestiere di allenatore. Nonostante la Costa Azzurra sia perfetta per svernare, le passioni del Vélodrome rappresentano uno sforzo eccessivo. Lascia prima dell’inizio del campionato.

C’è però tempo per un ultimissimo giro del mondo e di roulette: Ittihād Football Club, tradizionalmente la seconda squadra più titolata dell’Arabia Saudita, dal porto di Gedda, nel Mar Rosso, gli offre la panchina nel giugno 2003. Ambiente rilassato, stipendio sontuoso, sta per compiere 70 anni da milionario, il ragazzo cresciuto lavorando al porto nel mito di Tito e di Kaliterna. Il primo dei 17 trofei nella sua bacheca è stato una Kup Maršala Tita, una Coppa del Maresciallo Tito, l’ultimo una Coppa del Principe della Corona saudita, ovvero il campionato del paese arabo. Questo semplice cenno dice così tanto e così poco sulla sua carriera, sulla sua parabola da scheggia impazzita, che tanto stonerebbe se infilata tra gli ingranaggi del suo Calcio Industriale.

Lascia definitivamente il calcio e se ne torna per sempre a Spalato, dove è sepolto dal 2011, quando l’unico avversario che non avrebbe potuto sorprendere, come nessuno del resto, gli concede il ritiro dal campo tra gli applausi di gente dispersa, di maglia, di lingua diversa, che da ogni angolo, dall’Atlantico all’Oceano Arabico, dall’Istria all’Irpinia, dal Portogallo a Persepoli, gli ha riservato un posto nel cuore. Per molti aveva già disegnato il calcio del futuro, i terzini come stantuffi dai movimenti di automi, le sovrapposizioni calibrate come istruzioni da reparto metallurgico, la meccanicizzazione dei ruoli più fantasiosi. Per chi questo futuro lo vive come il suo presente, il suo Calcio Industriale, la sua vita industriosa, probabilmente rappresentano una poesia che non si stancò mai di cercare una chiosa ideale. La perfezione non è di questo mondo e il socialismo resterà per sempre un’utopia, ma c’è chi su un rettangolo verde per 90 minuti riusciva a realizzare l’una e l’altro.

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