Manuel José Joaquín del Sagrado Corazón de Jesús Belgrano y Peri: pronunciare questo nome richiede già qualche minuto, ma le sue gesta meriterebbero ancor più tempo per essere raccontate. Figlio di immigrati italiani, è lui che per primo crea e issa la bandiera dell’Argentina che oggi tutti conosciamo. Le due bande azzurre orizzontali abbracciano una banda bianca, con al centro il Sol de Mayo, emblema della resistenza e dell’indipendenza dalla Spagna. Rosario, culla di questa storia e luogo di primissimo piano per il calcio albiceleste, diventerà oltre un secolo dopo la città simbolo del Mondiale giocato in Argentina nel 1978, uno dei più controversi e discussi di sempre.
Quel torneo riflette perfettamente l’anima complessa e contraddittoria dell’Argentina: un paese dai mille volti, capace di grandi passioni e profondi drammi. Non è solo la terra dei colori vividi e dei sogni sfavillanti, ma anche un luogo segnato da fortissime tensioni politiche e sociali, che si riflettono in ogni angolo della sua storia. Il Mondiale 1978 racconta le speranze e le ferite di un paese vibrante e unico, ma avvolto da sempre in un velo di malinconia.
Desde el norte de Rosario hasta Bell Ville
Tra Rosario e Bell Ville intercorrono circa 209 km di distanza, appena due ore di macchina. Prima del 1978, nessuno in Argentina si era mai soffermato a pensare alla distanza che separa le province di Santa Fe e Córdoba, dove si trovano rispettivamente le due città. Nessuno avrebbe immaginato che César Luis Menotti e Mario Kempes potessero incontrarsi a metà strada, stringersi la mano, scrivere la storia e poi salutarsi dandosi le spalle.
Menotti, detto el Flaco per il suo aspetto magro e longilineo, nasce a Rosario. Il suo quartiere, Arroyito, è quello più a nord della città ed è situato vicino al Gigante, lo stadio del Rosario Central. Ad Arroyito i muri sono dipinti come vere opere d’arte, e più sono in cattivo stato, maggiore è il loro valore iconico. In Argentina, l’arte va oltre il semplice valore di un murales, di un dipinto, di un romanzo o di un tango: l’arte è ciò che un uomo riesce a fare della propria vita. E il Flaco sa bene cosa fare: riporta la nuestra a casa.
Il calcio è uno sport che gli argentini hanno importato dagli inglesi, da cui nasce però un mix esplosivo, reinterpretato a loro modo. La nuestra non è altro che una ribellione al vecchio football dei “maestri” britannici, sostituito da un calcio basato su estro e fantasia, che però si era perso di vista dopo i deludenti Mondiali del 1970 e del 1974.
Ma la nuestra rimane solo un concetto astratto senza qualcuno che se ne faccia carico anche in campo. E chi, in quel momento, può farlo meglio di Mario Kempes? Nel 1974, anno in cui Menotti inizia il suo cammino in Nazionale, l’attaccante di Bell Ville vanta già 43 presenze condite da 33 reti nel Rosario Central e l’esperienza mondiale di quell’anno, seppur negativa per l’Albiceleste, eliminata al primo turno. El Matador è uno di quei campioni che si adatterebbero perfettamente al calcio moderno: un terremoto muscolare dotato di grande tecnica, un diez atipico ma devastante, oltre che un leader silenzioso.
A unire i cardini di quella Selección c’è anche l’avversione alla barbarie umana, incarnata in quel determinato momento storico dalla dittatura argentina del generale Jorge Rafael Videla.
Una squadra, un uomo, un popolo
Il Mondiale di Argentina 1978 si gioca in un’atmosfera surreale. Nel 1976, con un colpo di stato, sale al potere Jorge Rafael Videla. La dittatura militare si presenta inizialmente aperta al dialogo, in netto contrasto con le sfumature autoritarie di Perón, attirando anche l’attenzione di intellettuali come Borges. Ma la vera faccia del regime emerge ben presto: i dissidenti scompaiono senza lasciare traccia. È una strage silenziosa, quella dei desaparecidos.
In questo contesto, il calcio diventa uno strumento efficace di propaganda. Argentina 1978 è un passepartout per rendere digeribile la dittatura agli occhi del mondo, soprattutto dopo le numerose contestazioni. Calcio e politica hanno da sempre legami profondi, e in questo caso lo sport si trasforma nel grimaldello con cui Videla cerca di aprirsi un varco nelle grazie dell’opinione pubblica internazionale.
Ai nastri di partenza, le grandi favorite sono senza dubbio i campioni in carica della Germania Ovest, il Brasile, i Paesi Bassi – orfani di Johan Cruijff – e una giovanissima Italia guidata da Enzo Bearzot. Il Mondiale è suddiviso in quattro gironi, da cui le prime due classificate accedono a una seconda fase a gruppi che decreterà le due finaliste.
L’Argentina di Menotti propone un calcio affascinante, schierata con un 4-3-3 e guidata da stelle come capitan Daniel Passarella, Osvaldo Ardiles e, appunto, Kempes, che nel frattempo aveva attraversato l’oceano per trasferirsi in Spagna, al Valencia. Da segnalare la mancata convocazione, non senza polemiche, di un giovanissimo Diego Armando Maradona, ancora considerato troppo acerbo.
Non manca però qualche difficoltà. Nel primo girone si qualifica ma chiudendo al secondo posto, subito dietro all’Italia, capace di imporsi 1-0 sui padroni di casa con un gol di Roberto Bettega. E il cammino non è semplice neanche nel secondo raggruppamento.
La principale rivale della seconda fase è il Brasile di Zico, che dopo aver battuto 3-0 il Perù e pareggiato 0-0 con la Selección, vince 3-1 contro la Polonia. L’Argentina, che aveva sconfitto i polacchi 2-0, con una vittoria all’ultima giornata può solo raggiungere i 5 punti in classifica dei rivali sudamericani, e ha bisogno di almeno 4 gol di scarto per ottenere una differenza reti superiore e approdare alla finale.
Lo snodo cruciale del viaggio di Argentina 1978 non poteva che arrivare in una sola città: quella di Menotti, quella che ha visto crescere Kempes, quella dei murales di Arroyito. La sfida tra Argentina e Perù, decisiva per l’accesso all’atto conclusivo della competizione, si gioca al Gigante di Rosario.
Menotti schiera quattro attaccanti in una partita che, per usare un eufemismo, si può definire parecchio sospetta – con tanto di visita agli spogliatoi ospiti del generale Videla, a braccetto con l’ex segretario di Stato degli USA Henry Kissinger, prima del fischio d’inizio. Al termine dell’incontro, un netto 6-0 spalanca all’Argentina le porte della finale, dove affronteranno i Paesi Bassi.
Il 25 giugno 1978, il Monumental si trasforma in un teatro danzante da 80.000 spettatori, un cuore pulsante al centro di Buenos Aires che annuncia l’arrivo di una finale storica. La partita si gioca sotto lo sguardo del generale Videla e, proprio in relazione a questo episodio, el Flaco Menotti, da sempre legato all’ideologia comunista, pronuncia uno dei discorsi più iconici della storia del calcio argentino: «Siamo il popolo, veniamo dalle classi oppresse e rappresentiamo l’unica cosa che ha legittimità in questo paese: il calcio. Non stiamo giocando per le tribune di lusso, piene di ufficiali dell’esercito. Rappresentiamo la libertà, non la dittatura».
La partita è caratterizzata da un gioco duro e combattuto fin dal primo minuto, e dimostra grande equilibrio. Alla rete di un ispiratissimo Kempes risponde Dick Nanninga per gli Oranje, rimandando la sfida ai supplementari. Nei tempi addizionali, però, prima la doppietta di Kempes e poi la rete di Daniel Bertoni stendono i Paesi Bassi. L’Argentina vince il Mondiale del 1978, per la prima volta è campione del mondo. Videla ha portato a termine la sua surreale missione, ma Mario Kempes e César Menotti non sono d’accordo e chiudono il cerchio della loro magica storia come meglio non potevano. Rappresentando una squadra, un popolo e il rispetto per sé stessi, el Matador ed el Flaco non stringono la mano a Videla: è pura fisica degli istanti.
Quella Coppa resta una pagina difficile della storia argentina. Il trionfo sportivo e la conseguente celebrazione di un popolo appassionato si è intrecciato con l’ombra della dittatura e con un dolore che non poteva essere ignorato. Un ricordo complesso, in cui entusiasmo e lutto si sono ritrovati, forzatamente, nello stesso abbraccio.
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