Banter Era Inter

Sette cotte antico-classiche della banter era interista

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Ma chi l’ha detto che una banter era è roba da drammi? Dipende da un sacco di fattori. Ad esempio, da come arrivi a questa mai auspicata epoca di degrado e desolazione. E poi cosa hai visto da tifoso prima della suddetta, quante lacrime hai da spendere, quanto ti piace soffrire intensamente annegando nel mare turbolento che ti piace chiamare anima. Insomma, a grandi linee, vivere una banter era è la versione calcistica dello studio delle lettere classiche: soffri come un cane, affronti le cose con mezzi che sai di non possedere e, alla fine, te ne viene in tasca soltanto una piacevolmente vaga sensazione di spleen racimolata guardando giocare Ishak Belfodil all’Inter e leggendo qualche sparsa lirica di Alceo o Catullo.

Lungi da me il sembrare ipocrita, ho amato l’una e l’altra cosa. Anzi, a scanso di equivoci, guardiamoci subito negli occhi mentre vi faccio una doverosa premessa: questo pezzo è celebrativo, celebrativo dell’amore del sottoscritto verso persone e cose che non lo meriterebbero per niente, come Zdravko Kuzmanović e Cicerone. Perché se la banter era è, a mio modesto parere, la più antico-classica delle esperienze sportive, ai suoi protagonisti va dedicato un autore, o almeno una poesia, che funga da prova di questo assioma. E allora eccoci qua, a districarci tra Callimaco di Cirene e Yann M’Vila per trovare sette giocatori della banter era dell’Inter di cui sono ancora tragicamente infatuato per diversi motivi, non ultimo dei quali il fatto che scorrendo il tempo idealizza anche il peggiore dei criminali.


Dodô

Sembrava un acquisto sensato, ma se dovessi stare a fare l’elenco di quelli che “lo sembravano” da quando ho iniziato a seguire l’Inter sul serio, la lista non finirebbe più – e includerebbe anche quel poveraccio di Senna Miangue, oggi in forza al Cercle Brugge, in Belgio. Eppure io a Dodô ho voluto bene, davvero, e ancora ne voglio. Sarà stato a causa di quel sorriso spiegato e speranzoso, di quel capello sbarazzino o di quella nomea di bel terzino brasiliano che si portava dietro, ma io avevo davvero fiducia in lui. Alla fine si trattava di un eroe giovane e di belle speranze che non amava fare più del compitino, che preferiva ritirarsi invece che osare. Un combattente statico, di raccordo, incapace di prendere le decisioni da solo. Un finto protagonista insomma, che riporta la mia mente ad uno dei personaggi più fighi di tutta la letteratura greca: il Giasone delle Argonautiche di Apollonio Rodio. Ora, siccome immagino che diversi lettori abbiano scelto meglio di me e si siano evitati cinque anni di liceo classico, occorre dare un po’ di contesto.

Giasone nelle Argonautiche

Le Argonautiche, poema epico ed opera principe di Apollonio Rodio, racconta delle vicissitudini di Giasone alla ricerca del Vello d’oro. La missione gli è stata affidata dal re Pelia di Iolco, che teme che il ragazzo gli ruberà il trono e, desideroso di sbarazzarsene, lo manda a compiere un compito ritenuto impossibile. Giasone raduna quindi un nutrito gruppo di eroi – tra cui Eracle, Orfeo e i Dioscuri – e salpa alla volta della selvaggia e pericolosa Colchide.

Il problema è uno solo: Giasone è un inetto. È tutto il contrario di un Achille o di un Diego Milito. È incapace di rendersi decisivo, e quando soffre – e quindi spesso, per non dire sempre – cerca appoggio. Tutte le sue imprese le fa senza iniziativa, comandato da qualcun altro, incapace di prendere il controllo. Nella prima parte della storia la sua figura è oscurata da quella di Eracle, nella seconda da quella di Medea. Le situazioni pericolose e complicate si risolvono da cliché, grazie ai suoi valorosi compagni o a veri e propri interventi divini.

Impossibile non rivedere in questa descrizione tutte quelle volte in cui, invece di andare sul fondo e crossare, Dodô scaricava la palla su Mateo Kovačić e sperava che si inventasse qualcosa anche per lui.

Yann M’Vila

Prima di tutto, so che qui non saremo d’accordo. Il 99% del mondo del pallone ha ormai classificato Yann M’Vila come bidone, compresi tutti gli addetti ai lavori, i tifosi e i giornalisti che seguivano l’Inter quando quel mostro di lentezza che era il mediano francese fece il suo glorioso approdo alla corte di Walter Mazzarri. Io, personalmente, non mi trovo d’accordo. Se tutta la banter era rappresenta un momento di «macomesistavameglioquandosistavapeggio», M’Vila è il capo dei suoi revanscisti. Quindi eccovi almeno tre motivi per amare Yann M’Vila e ricordarlo in quell’agrodolce modo in cui si ricordano gli amici che ci hanno lasciato o con cui ci siamo persi di vista:

  • valeva 5 stelle su PES 2013 per la Wii
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Tutto quello che internet ci offre per dimostravi quanto detto è questo capolavoro


Callimaco di Cirene, Prologo dei Telchini

Callimaco di Cirene non è un personaggio, è un poeta. Conosciuto nell’internet anche come «il gigachad della biblioteca di Alessandria», fu l’autore più importante del suo tempo. Nel Prologo dei Telchini, apertura degli Aitia, il suo capolavoro, Callimaco si inventa una discussione con i suoi detrattori e si inventa anche di stravincerla. A chi critica la novità e l’inconsuetudine della sua poesia, così corta e curata rispetto agli stigmi del grande poema epico, ribadisce infatti che lui non cammina dove passano i «carri pesanti» e non segue le «impronte degli altri per la via larga», ma sceglie i «sentieri non calpestati» e la «strada più angusta». Un modo molto elegante per dire che è bravo solo lui.

Voi direte, che c’entra con Yann M’Vila? È legato alla metafora del carro pesante e lento, che si muove a fatica per i solchi della via larga? Ma assolutamente no. I critici di M’Vila sono quelli che seguono l’opinione comune e arrancano nel fango delle strade battute dai carri. Io, che ho giocato a PES 2013, sono Callimaco.


Ricky Álvarez

Oddio. Da dove cominciare? Ah, ecco, sì: il miglior momento per fare quel passaggio, Ricky caro, era un secondo fa. Il secondo miglior momento è adesso, ma sono tutti in fuorigioco e quindi ormai è andata.

Pochi giocatori mi hanno fatto riflettere sull’ineluttabilità del continuum spaziotemporale quanto Álvarez. Sarà che intervallava una buona partita a cinque pessime, sarà stato quel mancino filtrante perennemente in ritardo sui movimenti del resto della squadra, ma non dubito che uno così avrebbe suscitato le ammirate riflessioni di Seneca e Orazio, che di tempo si occupavano, se fosse vissuto nel momento storico giusto. Insomma, più che essere-nel-tempo il buon Ricardo ci stava fuori, in una dimensione asettica e extramomentanea da cui ogni tanto veniva strappato per un gol o un assist, in un recidivo e raro momento di carpe diem. E allora parliamo di quello, già che ci siamo.

Carpe diem

Né un autore, né un personaggio, Ricky P.I.P. – simpatica abbreviazione che mio padre trovò per caratterizzare la mancanza di tempismo del nostro, in un acronimo solo casualmente dispregiativo di PassInPiù – si rispecchia nella cultura greco-romana principalmente per un tema, su cui si potrebbe scrivere una strabordante tesi di laurea o una ridicola tesina di maturità del 2021. Carpe diem, nei termini oraziani della sua concezione, si può tradurre con un «cogli l’attimo» nella famosissima Ode I, 11. La preoccupazione del futuro non ha senso, così come il pensiero del passato, perché l’unica cosa da fare è vivere il presente e approfittare delle occasioni che ci regala con il contagocce. Se Ricardo Álvarez fosse vissuto in età augustea, la conclusione sarebbe stata drammaticamente diversa: il tempo non è nient’altro che caos, e noi uomini lo regoliamo per un eccesso di controllo più che perché ci serve veramente farlo. Cogliere l’attimo è una casualità, che oscilla tra il troppo presto e il troppo tardi. O, come nel caso di Ricky Maravilla, tra il troppo tardi e il tardissimo.

Nemanja Vidić

Annunciato con una foto su Facebook contenente più anima che pixel, il gigante serbo non ebbe un grande impatto sul nostro campionato dopo la sua leggendaria esperienza a Manchester, sponda United. Tutti si possono ricordare l’esordio, uno squallido 0-0 in casa del Torino coronato, oltre che dal rigore fallito da Marcelo Larrondo, anche dalla sua espulsione per un sincerissimo applauso al direttore di gara. La verità è una: Vidić è arrivato all’Inter con tutti i crismi di un giocatore bollito, e ne aveva ben donde. Lo United dell’epoca di rado si lasciava soffiare a zero i suoi senatori. Avete presente quel lottatore instancabile che condivideva il reparto con Rio Ferdinand? Ecco, la vecchiaia se l’è portato via. Quindi, con immenso onore, vi presento Mimnermo.

Mimnermo di Colofone

Mimnermo di Colofone è un fighissimo poeta lirico vissuto tra il VII e il VI secolo a.C., il quale parla all’interno del suo vasto mondo poetico dominato dall’io, anche dell’odiosità della vecchiaia, che ci rende tutti poco atti all’amore, ai bei gesti, alle gozzoviglie e alla bellezza. Non c’è da vergognarsi nel dire che il  rispetto dell’anzianità è andato aumentando in modo direttamente proporzionale all’aspettativa di vita lungo la storia della classicità, soprattutto se uno come Mimnermo si augurava di tirare le cuoia raggiunta la soglia dei sessant’anni, oltre la quale, secondo lui, nulla di positivo poteva più succedere ad un uomo. Per fortuna questa cosa non è vera, e siamo passati oltre questi pregiudizi – da relegare, comunque, ad un contesto puramente poetico e decisamente poco realistico. Purtroppo però, siamo altrettanto certi di una cosa: Nemanja Vidić arrivò all’Inter già calcisticamente cadavere, e non aveva ancora passato i trentatré.


Rubén Botta

In un lontano, strano universo, Rubén Alejandro Botta Montero ha in mano un pallone d’oro, e sorride davanti alle telecamere dopo aver segnato 79 reti in un anno solare, portando la nuova golden generation interista – Benassi, Donkor, Mbaye, Miangué e Manaj – alla vittoria del secondo Triplete con una stagione stellare. In questo, purtroppo, Botta è quello che è: un attaccante con dieci presenze in nerazzurro nella stagione 2013/2014, condite da 0 reti e da diverse battute da bar – calcistiche e non – legate al suo nome. La domanda è semplice: ma l’Inter aveva davvero bisogno di Botta, o fu un acquisto assurdo, illogico e senza fondamenta di senso? La seconda risposta è decisamente quella più probabile, perché Rubén Botta è de facto il non essere, o, se di essere si tratta, un puro concentrato di quell’apeiron che tanto ti ha fatto dannare quando studiavi filosofia al liceo.

Anassimandro di Mileto

Filosofo dell’astrazione concettuale, Anassimandro di Mileto è uno dei più influenti presocratici della storia. Dopo aver contestato il suo maestro Talete, che affermava che tutto è acqua, e che lì risiedeva il principio (αρχή) di ogni cosa, Anassimandro teorizzò un mondo che dipendeva dall’infinito e dall’indefinito, riconoscendo in quest’ultimo – per l’appunto, l’apeiron (απειρον) – il vero inizio di tutto ciò che ci circonda. La teoria filosofica è progredita nel tempo, cercando prima nuovi motori immobili, poi nuovi concetti, e infine cercando di razionalizzare il caos del mondo e di trovare risposte alle angosce dell’uomo. Ma se Anassimandro avesse avuto tra le mani uno come Rubén Botta, la questione sarebbe sicuramente finita lì: tutto, in fondo, viene dall’infinito e dall’indefinito, e l’apeiron può assumere tutte le forme che vuole, persino quelle di un calciatore.

Caner Erkin

Io so che in futuro le auto voleranno, la scienza ci renderà immortali e nessuno ricorderà più il nome di Caner Erkin, o almeno nessuno lo assocerà all’Internazionale di Milano. Il motivo è semplice: non ha giocato, non ci è stato, ha visto a malapena la Pinetina nei tre mesi che hanno contraddistinto la sua inutilissima esperienza italiana. Il fatto è che nemmeno noi sapevamo bene perché Caner Erkin fosse stato acquistato – meglio, prelevato a parametro zero. Qualcuno ci aveva visto qualcosa evidentemente, ma cosa? Corsa? Tecnica? Leadership? La carriera direbbe tutt’altro. L’unica verità che posso accettare, è che quel giorno Piero Ausilio avesse letto qualche passo del De rerum natura.

Lucrezio, De rerum natura

Poeta dalla dimensione quasi messianica, Lucrezio fu uno dei grandi della letteratura romana del II secolo avanti Cristo. Desideroso di portare l’epicureismo a Roma come messaggio di salvezza, nei primi due libri dei sei che compongono il De rerum natura il poeta illustra ai suoi lettori-discepoli i principi dell’atomismo e della continua disgregazione e aggregazione di particelle che forma l’andamento naturale delle cose. Nulla si crea e nulla si distrugge, tutto si trasforma. Ecco, io la vedo così: Caner Erkin fu acquistato dall’Inter con la precisa motivazione, fin dall’inizio, di mostrare quanto siamo deperibili, non solo nei nostri corpi, ma anche nelle nostre azioni, e come passino in fretta le sorti di tutto ciò che è materiale. Bastano tre mesi e sparisci assieme al ricordo che hai lasciato negli altri – anche se, in questo caso, parliamo di pochissima roba anche da ricordare – in un ciclo di incessante clinamen che ti nebulizza e ti rigenera sotto una nuova forma.

Sic transit gloria mundi, Caner. Fattene una ragione, noi ci abbiamo impiegato poco.


Geoffrey Kondogbia

Quanto gasavi Geoffrey. Quanto gasavi. Sembrava che il tuo acquisto avrebbe cambiato la nostra intera percezione della parola centrocampista, sembrava che saresti stato il nostro Paul Pogba, sembrava che ci avresti portato di nuovo fra le stelle, in mezzo a quelle note di Handel che tanto ci piace sentire e cantare. Quanto facilmente s’illude l’uomo.

Cervellotico, impreparato, costantemente fuori posizione e senza nessuno spirito agonistico o proprietà tecnica, Kondogbia è stato forse il flop più costoso della banter era dell’Inter. Fu protagonista, tra l’altro, di un clamoroso autogol da metà campo in tournéé estiva e di una sostituzione nel primo tempo di uno squallido Inter-Bologna 1-1.

Ciononostante, eccomi qua ad impersonare il suo primo avvocato, il suo legale, il suo difensore, il suo Ace Attorney praticamente. Perché ti devi fare il sangue amaro in questa maniera, Sebastiano? Cos’è che ti spinge ad un così intenso masochismo, a detestare la tua persona al punto da inseguire delle cause perse come queste? Beh, amici miei, è evidente che non avete familiarità con il concetto di sublime.

Anonimo, Del Sublime

Di datazione e paternità assai difficili da definire, il trattato Del sublime è una delle opere più enigmatiche di tutta l’antichità classica. Centrata fondamentalmente sull’estetica, essa si dedica alla spiegazione di cosa sia il sublime, e in che strategie e forme di scrittura si concretizzi, riuscendo solo in parte a darci una definizione di questo sentimento. Il sublime è «l’eco di un animo grande», e può essere percepito nella lettura soltanto se chi lo riceve ha una disposizione interiore simile a quella di colui che lo ha scritto. Insomma, l’avrete capito: il sublime non c’è, non esiste, è polvere di stelle, è di qua è di là, non ha senso, non segue le leggi della fisica.

Ma, cosa ancora più importante, il sublime vive di picchi: non tutta l’opera di Omero, ad esempio, è sublime, ma alcuni momenti raggiungono vette talmente alte da entrare a pieno diritto nel novero della letteratura che genera sublime.

Da qui parte l’arringa della difesa: Geoffrey Kondogbia ha forse fatto pietà e misericordia lungo l’interezza della sua esperienza in nerazzurro, ma il poco che ha fatto vedere era un poco di altissima qualità. Se non ci credete, guardate il suo video skills & goals della stagione 2016/2017. Calciatore superiore, e non ditemi che non lo avete pensato anche voi dopo quell’assurdo no-look contro l’Empoli.

Poi lo so, Geoffrey, che le cose sono andate male e non ci siamo capiti, e tu te ne sei andato quando le cose si sono fatte serie e abbiamo cominciato a giocare a calcio per davvero. Però un pochino manchi.

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