Meazza

Giuseppe Meazza, il primo divo del calcio italiano

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A Milano, ogni settimana – a meno di soste, pause nazionali e altre diavolerie che interrompono il flusso naturale dell’esistenza di chi come noi misura la propria vita in stagioni, e non in anni –, migliaia di tifosi, armati di bandiere e sciarpe tinte di rossonero o nerazzurro a seconda dell’occasione, si riversano a San Siro, Piazzale Angelo Moratti, per poi assieparsi fra gli spalti dello Stadio Giuseppe Meazza.

Il Meazza è uno stadio celebre in tutto il mondo: se un calciatore non ci ha mai giocato, probabilmente qualcosa nella sua carriera non è andato come sperava. Ma in quanti conoscono l’uomo a cui è intitolato lo stadio? Certo, quasi tutti gli appassionati possono esprimere due parole su chi fosse Giuseppe Meazza: una lontana leggenda del calcio italiano, protagonista di una scena sportiva quasi preistorica nell’immaginario popolare. Tuttavia, toccare con mano ciò che resta dell’uomo, e non solo del suo mito, non è mai un’esperienza banale.

Giuseppe Meazza non è stato sempre un prato verde circondato da iconiche curve e tribune, è stato prima di tutto un uomo, e nel mezzo un divo: il primo della storia del calcio.


Quanto sappiamo veramente di Giuseppe Meazza?

Essere tifosi è un po’ come appartenere a una specifica comunità confessionale o ideologica. Sappiamo di condividere con migliaia, se non milioni, di sconosciuti una stessa fede, un obiettivo e un ideale. La passione o l’interesse non possono giustificare da soli l’irrazionalità del tifo sportivo: è necessario un sistema di valori e credenze condiviso che non faccia apparire la vergogna o la timidezza per l’esplosione di gioia a un goal o per l’insulto goliardico all’avversario come inaccettabili. Il tifoso è così guidato da un regime comportamentale tradizionale e condiviso, che rende appropriato, e anzi doveroso, ciò che sarebbe folle in qualsiasi altro contesto. In questo ombrello sono poi comprese e sottodeterminate le pratiche tradizionali e i valori peculiari di ogni specifica tifoseria. Spesso non sappiamo bene perché sosteniamo una determinata tesi, sappiamo solo che così va fatto, che sarebbe fuori luogo fare diversamente: se con gli amici ci prendiamo gioco di chi passa le sue giornate a inferocirsi perché «la Juve ruba!» o «l’Inter è prescritta!», allo stadio non ci permetteremmo mai di esimerci dal partecipare ai cori di scherno, a chiamare falli inesistenti e dal trattare i tifosi avversari come i rappresentanti di un intero sistema ideale e valoriale contrapposto al nostro.

E così, nel mondo nerazzurro sono tante le narrazioni tramandate di padre in figlio da generazioni, spesso colorite di elementi leggendari o del tutto false, come quella che vede l’arrivo di Javier Zanetti all’Inter come un ricatto dell’Independiente: «se volete Rambert, dovete prendervi anche Zanetti, che vi piaccia o no». Un aneddoto che rende ancora più mitico il percorso dell’argentino da giovane centrocampista sconosciuto a storico capitano dell’Inter.  

Ci sono però altre storie che si sono perse nel tempo. L’Inter, attraverso le sue pagine social, ci ricorda ogni anno la data della sua fondazione, il 9 marzo 1908: quante volte abbiamo sentito il racconto della “costola del Milan” riunitasi al ristorante l’Orologio; che la scelta del nome Internazionale discese dalla volontà ad aprirsi ai calciatori provenienti da altre scuole e altri paesi, in particolare dalla Svizzera; e del pittore Giorgio Muggiani, ispiratore del distacco dal Milan e della fondazione del nuovo club, che in quei giorni aveva sulla tavolozza solo il blu e il nero: i colori del cielo e della notte, come dirà Gianfelice Facchetti nel suo discorso da brividi durante la festa del centenario.

Quanti, però, conoscono i fratelli Cevenini e il contributo che diedero all’Inter negli anni Dieci e Venti dello scorso secolo? In particolare Luigi, detto Zizì, prima bandiera nerazzurra e primo “personaggio” del calcio nazionale, un ragazzo descritto come bizzarro e pettegolo, quanto fenomenale in campo, che alla vigilia di una grande partita semplicemente scomparve, per poi ricomparire due settimane dopo a Londra, unitosi al Plymouth Arghile, desideroso di confrontarsi con i professionisti inglesi, e infine sparire anche da Londra così come era sparito da Milano. Ma soprattutto, quanto sappiamo veramente di Giuseppe Meazza?

Sappiamo che nacque a Milano nel 1910, che fu in grado di segnare nell’Inter ben 284 reti, che fu capocannoniere del campionato per ben tre volte, che vinse due Mondiali con la Nazionale, che detiene tutt’oggi il record di miglior marcatore della storia nerazzurra, e poco altro in effetti. Eppure, Meazza fu tanto altro.

Nel settembre del 1927, l’ungherese Árpád Weisz, allora allenatore dell’Inter, è costretto a ricercare soluzioni tattiche differenti da quelle abituali, a causa dello scandalo che ha colpito Luigi Allemandi, calciatore intorno a cui l’Inter sperava di basare il suo calcio. E così Weisz concede più spazio al già noto Fulvio Bernardini e a un ragazzino del vivaio, di soli 17 anni, appunto Giuseppe Meazza. Il Balilla, come verrà presto soprannominato, si distingue da subito per il suo grande talento.

A soli 19 anni trascinerà l’Inter con 31 goal verso il terzo scudetto della sua storia. Nello stesso anno, il 1930, arriverà anche il suo esordio in nazionale. Pozzo lo convocò il 9 febbraio, per affrontare la Svizzera. Meazza quel giorno avrebbe dovuto affrontare una rappresentativa della Francia del Sud-Est con la squadra B, ma l’infortunio di Marcello Mihalich in allenamento gli valse una maglia da titolare con i Moschettieri – come all’epoca gli Azzurri venivano chiamati per distinguerli dai cadetti della Nazionale B. I tifosi del Napoli, di cui Mihalich era l’idolo, non furono affatto contenti di questa “retrocessione” del loro pupillo nella squadra di riserva, e invasero lo Stadio del Partito Fascista a Roma per inveire con sarcasmo e insulti contro il giovane esordiente milanese, difeso dalla battagliera mamma seduta in tribuna. Meazza, dopo un po’ di comprensibile emozione, segnò due reti in quell’occasione, contribuendo al successo dell’Italia.

L’11 maggio 1930 Meazza conquista fama mondiale, segnando tre goal a Budapest contro la temibilissima rappresentativa magiara. E fu proprio grazie a una sua tripletta che l’Inter formalizzò la vittoria del primo scudetto in senso moderno della storia, dopo la riforma della Serie A, in quel magico 1930. Nella terzultima giornata l’Ambrosiana affrontò il Genova – oggi Genoa: il fascismo non faceva sconti a nessuno, in quella che viene ricordata come una delle sfide più appassionanti del nostro calcio. All’Inter bastò un pareggio per confermare il primato in classifica, in una partita folle, iniziata in svantaggio di tre reti e con un uomo in meno – data l’espulsione del terzino Allemandi, ancora nervoso a causa di un incidente automobilistico nel pomeriggio – e culminata con un calcio di rigore sbagliato dal Genoa allo scadere. E Meazza fu l’unico, nella rassegnazione generale, che si dice abbia risposto a chi dava la sconfitta ormai per certa: «Ma che finito, siamo ancora in tempo!».

Come detto in precedenza, vincerà due Mondiali consecutivi da assoluto protagonista nell’Italia di Vittorio Pozzo. In particolare, l’1 giugno del 1934 deciderà il quarto di finale contro la Spagna con un suo gol all’11’, l’unico della partita; mentre nel 1938 segnerà un solo goal, in semifinale contro il Brasile, nella cornice di un episodio divenuto iconico. Meazza venne definito «il bello della squadra, elegante esecutore di penalty, che alzava la testa come il matador col toro nell’assalto finale». E quindi cosa accadde al 60’ di quella partita decisiva? Meazza è un tiratore infallibile, ma Walter, il portiere brasiliano, è molto bravo nel parare i rigori. Meazza prende la rincorsa, e proprio quando sta per calciare, gli cadono i pantaloni. Tutti rimasero di sasso, portiere compreso, ma non Meazza, che se li tirò su con la mano e insaccò alle spalle del portiere.

«Bisognerà tornare a parlare di Meazza […], ma fin d’ora si può sottolineare con la sua presenza ogni luminosa giornata della nostra rappresentativa». Basterebbe questa citazione del giornalista Antonio Ghirelli per comprendere come Meazza sia stato decisivo per i successi della nostra Nazionale, tanto quanto Pelé per il Brasile o Maradona per l’Argentina.


L’uomo, il campione, la celebrità

Giuseppe Meazza fu il primo grande campione del calcio mondiale, il prodromo di quello che sarà l’immaginario associato al calciatore: donne, fama, dicerie, enorme celebrità e una classe straordinaria.

Grazie all’intervista rilasciata da un dirigente di una squadra locale milanese, il Maestri Campionesi, apprendiamo come Meazza si sia presentato una domenica mattina al loro campo d’allenamento e abbia così ottenuto il suo primo provino, semplicemente chiedendolo: un ragazzino esile e per nulla atletico, ma evidentemente sfacciato e sicuro di sé. Il portiere che si allenò con Meazza, di nome Marinoni, alla fine dell’allenamento dirà: «Ma sa che ha un tiro forte?». Però non era tanto furbo, tirava sempre centrale: andava plasmato. Arriverà nelle giovanili dell’Inter a 14 anni, dopo tre stagioni al Maestri Campionesi.

E Meazza ci impiegherà pochissimo a divenire il primo grande personaggio della storia del calcio, l’idolo delle donne, che gira per Milano a bordo di auto di lusso, un uomo in cui una strana Inter si identifica totalmente.

Meazza è sia costruttore che finalizzatore del gioco. È interista in senso stretto, pentitosi fino alla morte di aver giocato per Milan, Juventus, Varese e Atalanta per ragioni economiche: «Erano anni difficili, i tempi della guerra», si giustificherà.

Nel campionato 1939/1940, vinto dall’Inter, Meazza però non gioca neanche una partita: come ogni leggenda, la sua storia ha una fine particolare. Meazza è colpito dalla sindrome del piede gelato, la vasocostrizione di un’arteria non permette al sangue il suo regolare afflusso. Tornerà all’Inter qualche stagione dopo, a 36 anni, da calciatore-allenatore, per poi proseguire solo da allenatore, concedendosi sparute esperienze al Beşiktaş e in Nazionale.

Peppino Prisco, che da bambino ebbe la fortuna di vederlo giocare, ne delinea questo quadro: «Era l’italiano perfetto. Orfano di guerra, legatissimo alla mamma. Aveva fatto uno strano servizio militare, credo di un giorno solo, in tempo però per essere fotografato con il cappello d’alpino. E poi Meazza, amato e popolare, giocava proprio bene: rimanevano impressi le sue azioni, i suoi gol, il suo modo di saltare i portieri in uscita. […] Tanti anni dopo ho scoperto perché Meazza giocava con i due piedi. Era stato costretto dall’allenatore Árpád Weisz a palleggiare per ore e ore con il piede sinistro».

Meazza era anche preda di crisi paurose, continua Prisco, dovute alla sua passione per il calcio e alla sua intensa attività sessuale. Sembrava che stesse per perdere la testa, e poi faceva cose impensabili, con quella testa stessa: nonostante fosse alto appena 179 centimetri era bravissimo nel gioco aereo.

Pozzo lo descrisse come un attaccante nato, che capiva le situazioni e distribuiva con criterio, facendo funzionare l’intero attacco. Ma a renderlo così amato erano le prodezze individuali: scatto da fermo sulla trequarti, palla incollata al piede, dribbling in successione, finte e così via.

Nel 1979 Giuseppe Meazza muore a Lissone, lasciando in eredità il suo mito e il suo nome, che resisteranno nella memoria collettiva fin quando un padre avrà ancora voglia di tramandare a suo figlio, dopo avergli messo al collo la sciarpa dell’Inter o quella della Nazionale, chi fu il primo a renderle grandi.

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