Anche se ultimamente l’imponente progetto di sportwashing del PIF, il Fondo d’Investimento Saudita, sembra scombussolare gli equilibri geografici del calcio mondiale, è difficile e probabilmente illusorio contrastare l’idea che l’Europa conservi, e presumibilmente conserverà, la massima influenza culturale, economica e prettamente sportiva su questo gioco.
Ma per quanto tale egemonia compiaccia noi europei, la cosa non va a genio a diverse tradizioni calcistiche seminate nel resto del globo, alcune delle quali rivendicano un’identità nobile e antica, contaminata dall’interpretazione mainstream del calcio che Premier League & Co. perpetrano, insinuandosi nel tessuto mentale calcistico del paese, dai campionati locali alle rappresentative nazionali.
Il Brasile è un paese che assegna al futebol un incarico di prim’ordine nell’espressione della propria essenza; esso è il tessuto che riveste la pelle verdeoro che il mondo trova davanti ai suoi occhi quando si rapporta con questo Paese. È quindi normale che qui il dibattito sull’“europeizzazione” del proprio calcio sia particolarmente concreto e alimentato, soprattutto in relazione al gioco della Seleção, per molti diventato privo di un’anima e di una coerenza a causa della volontà di snaturare le caratteristiche peculiari dei calciatori carioca, il modo in cui si approcciano al gioco fin da piccoli, per avvicinarsi allo stile dei rivali d’Europa. Dietro questo presunto complesso di inferiorità si celerebbe la motivazione del fallimento almeno agli ultimi due Mondiali di calcio, in cui in effetti il Brasile è parso, per dirlo con un po’ di cliché stereotipico, un bellissimo tucano dalle ali tarpate.
Ma per i brasiliani la rivolta a questo colonialismo calcistico non si è fermata alle polemiche nei talk televisivi, o nelle chiacchere da bar, almeno non per tutti. La sperimentazione concreta sul campo alla ricerca di una via di fuga, una rivendicazione di libertà, sta producendo quella che potrebbe risultare – e in parte già risulta – una nuova tendenza interpretativa del calcio moderno, che forse non è che la riscoperta di un passato sopito: il calcio relazionale, o come lo chiamano da quelle parti, jogo funcional.
Il gioco posizionale: rivalità e ispirazione
Oltre a una risposta al calcio “europeizzante”, il calcio relazionale – o relazionismo – pare essere un’alternativa al gioco posizionale, che rappresenta probabilmente la più grande innovazione tattica apportata nel ventunesimo secolo, da tutti immaginata figlia della mente di Pep Guardiola, propria oggi anche di Luis Enrique, Mikel Arteta, Maurizio Sarri, Roberto De Zerbi e in realtà già figlia di Rinus Michels, Johan Cruijff e della geniale scuola olandese anni Ottanta e Novanta, poi implementata da Arrigo Sacchi.
Un criticismo che viene spesso mosso al gioco di posizione è quello di trasformare i creatori in esecutori, gli artisti in soldatini, ingabbiare cioè l’estro e l’intuitività individuale di un calciatore in una codifica di movimenti e gesti tecnici ripetuti fino allo stremo: pensiamo alla fitta rete di passaggi eseguiti da portieri e difensori nella propria area di rigore, o all’attacco della profondità centrale da parte dei centrocampisti, o la larghezza degli esterni per avere ampiezza. Ovviamente non tutti gli allenatori “posizionali” applicano con lo stesso rigore questi accorgimenti, ma sicuramente nel loro piano-gara la capacità associativa dei giocatori, o la loro iniziativa personale, non hanno centralità.
Squadre come il San Paolo di Dorival Júnior, il Grêmio di Renato Gaúcho o il Fluminense di Fernando Diniz, tra i massimi esponenti del calcio relazionale ad oggi, si caratterizzano invece proprio per la prevalenza data ai fattori sopracitati, e non solo. Tendono a non sfruttare minimamente gli spazi lasciati vuoti sul campo, come un Manchester City farebbe, ma puntano a congestionare una porzione di terreno con diversi giocatori, per scambiarsi la palla in maniera ravvicinata e veloce; in queste situazioni claustrofobiche, il dribbling, la giocata individuale per eccellenza, diventa una chiave necessaria e voluta, rispetto allo smarcamento di un compagno per ricevere tra le linee. Ma soprattutto è imprescindibile l’elemento che dà il nome questa scuola, il concetto di “relazione” tra giocatori, di capacità di interagire autonomamente tra di loro, senza avere preordinata nella mente la giocata da compiere, inventandola con uno sguardo, una parola, un gesto, che nasce e muore in un istante. Un esercizio di empatia, potremmo forse dire.
Eppure, alcuni punti di affinità tra calcio relazionale e posizionale esistono: il movimento continuo è condizione fondamentale, così come la volontà di mantenere il controllo della palla e quindi “fare la partita”, difendendosi più con la sfera tra i piedi che non abbassandosi in campo; e ancora, una carta offensiva importante è il tilting offensivo, attraverso il quale si attrae la pressione avversaria da un solo lato del campo per poi aprire spazi sull’altro versante, lasciato sguarnito. Una tecnica che per esempio Maurizio Sarri ha elevato ad arte nell’arco della sua carriera.
It is a process of becoming, rather than being
Questa splendida definizione di Jamie Hamilton, in un articolo su Medium, spiega però meglio di qualunque cosa l’inconciliabilità, anche filosofica, del calcio relazionale rispetto alle altre scuole: non è questione di avere un piano, quanto di trovarlo.
La sua unicità è ben spiegata dalla varietà di giocate e schemi distintivi che in esso vengono impiegati. Il toco y me voy e la tabela sono due dei più riconoscibili, ying e yang basilari per il relazionarsi dei giocatori. Il primo, traducibile con ‘dai e vai‘, consiste nel passare la palla e gettarsi in avanti nello spazio, mentre il secondo indica colui che viene incontro a ricevere, come per liberare un amico da una patata bollente, che raffredda per poi restituire. Mentre nel gioco di posizione ci si aspetta di essere già nella zona in cui ricevere palla, in questo caso essa viene scelta sul momento, d’improvviso.
L’escadinha è un’altra chiave tattica distintiva, che permette la salita rapida del campo – in portoghese significa appunto ‘scaletta‘ – anche in zone affollate, attraverso l’illusione della presenza e dell’assenza, materialità e immaterialità dei corpi. I giocatori si dispongono su delle diagonali a diverse altezze del campo, affinché il possesso si possa sviluppare, come su una catena di montaggio, da un “gradino” all’altro della scala, a volte anche saltandone uno o più, attraverso il corta luz, quello che noi chiamiamo velo e che per i brasiliani, in maniera più poetica, è il ‘taglia-luce‘, la mossa che getta nell’oscurità l’avversario che va a pressare e si trova tagliato fuori dal pallone lasciato scorrere.
Può capitare però che la squadra avversaria sia brava a coprire gli spazi, bloccando ogni sbocco per avanzare. In quel caso Guardiola, Del Bosque o Xabi Alonso, ordinerebbero il movimento immediato in ampiezza negli spazi liberi, ma non farebbero lo stesso Diniz, Renato Gaúcho o Júnior, che anzi inviterebbero semplicemente a ritornare dal giocatore immediatamente alle spalle, che la ripasserà al giocatore immediatamente in avanti, e così via. Questo saggio di pazienza, lo yo-yo, altro non è che fiducia nel fatto che prima o poi, stanco di guardare questo continuo giro palla, un difendente cercherà di rompere l’ipnotismo e avanzerà, lasciando uno spazio alle spalle, che sarà puntualmente sfruttato dall’attacco.
La disposizione che ispira tutte queste soluzioni è il già citato tilting. L’assembrare uomini in una zona molto ristretta, convergendo entrambe le squadre su un solo lato del campo, è forse l’elemento più caratteristico del calcio relazionale. Il tilting deve avvenire necessariamente sulle fasce perché, se anche i centrali difensivi si avvicinano alla palla, ne consegue che si rischi di lasciare spazio in campo aperto. C’è bisogno di qualcosa che limiti il contropiede in caso di palla persa, e quel qualcosa non pensa, non si muove, ma chiude molto spazio: la linea laterale. A sfera perduta, si attiva il gegenpressing che contribuisce a spegnare sul nascere ogni velleità di ripartenza rapida.
Per mandare in tilt la difesa controparte c’è bisogno del coinvolgimento di tutti, anche dei terzini opposti, che eseguono una diagonale difensiva accentrandosi e spostando ulteriormente il centro di gravità su una sola fascia. Ma non solo, il terzino può anche sfruttare la convergenza degli avversari su un lato per attaccare in avanti l’altro, trasformandosi in ala; come menzionato prima, certamente un punto di maggior contatto con il gioco posizionale.
Siamo già stati qui
La verità indubitabile però, è che tutto questa rivoluzione è esattamente quello che la parola significa etimologicamente, da revolvere, ‘rivolgere, volgere nuovamente‘. Il calcio e le sue tendenze, come per moltissimi altri ambiti della vita umana, è quasi sempre un ritorno di cose che crediamo mai viste, e invece avevamo solo dimenticato, superato per poi ritrovarcele d’avanti.
Se vogliamo cercare nel passato, il primo luogo di riferimento non può che essere il Sud America. Il Brasile, certo, e il suo joga bonito, seminato già negli anni Trenta al Flamengo dall’ungherese Izidor Kürschner, esportatore assieme al suo allievo Flávio Costa della rivoluzione tattica magiara – che aveva rimescolato il 3-2-2-3 inglese – fusa all’estro danzante dei brasiliani, soprattutto dei quilombola, i discendenti dagli schiavi africani introdotti nel paese. Uno stile occultato nella vergogna dopo lo shock del Maracanazo, riesumato dalla grandezza di Pelé e Garrincha nel 1958, e poi sempre presente nelle migliori manifestazioni mondiali brazuca: nel 1970 con Zagallo e il suo stile associativo e corto, in cui Gérson, O Rey, Tostão e Rivelino chiacchieravano sul calcio senza dover aprire bocca; nel non fortunato 1982 con Santana in panchina e Sócrates, Júnior e Zico sul manto erboso; e infine con Scolari nel consacrante 2002 di Ronaldo – guardare l’escadinha con cui il Fenomeno segna il 2-0 nella finale, per averne conferma.
Ma anche il contributo dell’Argentina e de La Nuestra resta imprescindibile. Lo stile criollo, “autoctono” del paese albiceleste, rappresentò ancor prima del joga bonito la maniera unica di vedere questo sport in Sud America. Un calcio «basso, corto, preciso, artistico e dinamico», lo definiva il giornalista Dante Panzieri, dipinto con straordinaria maestria nella Máquina del River Plate degli anni Quaranta, come avrebbe fatto la Selección nella vittoriosa Copa América del 1957 in Perù, con successi sempre di almeno tre gol.
Come testimonia Carlo Pizzigoni, nel suo ‘Locos por el fútbol‘: «Nell’epoca d’oro del Fútbol rioplatense il calciatore aveva in sé le doti per riuscire a gestire una gara. Più di ogni altro, il calciatore aveva conoscenza del gioco, capacità tecnica, precisione nel passaggio, preparazione atletica, spaziatura adeguata in campo e ‹‹sentido del desprendimiento de la pelota››, cioè la sensazione del tempo, del momento in cui ci si doveva separare dalla palla, come in obbedienza a uno spartito superiore che si percepisce, si sente».
Pizzigoni parla a ragione di calcio “rioplatense”, perché i meriti argentini sono da spartire con l’Uruguay. Un paese di tre milioni di abitanti, che presentò la sua incredibile tradizione calcistica nel trittico vincente Olimpiadi del 1924, del 1928, e Campionato del Mondo nel 1930, attraverso un gioco ricco di finte, movimenti senza palla, passaggi corti e rapidità d’esecuzione.
Un successo già confermato
Si è parlato finora del gioco relazionale in termine di una novità, o una riscoperta, partita da un ambiente periferico al calcio europeo o delle nazionali. Ma la verità è che quello che solo ora stiamo cercando di codificare si è posato sotto i nostri occhi già negli ultimi mesi e anni, in squadre che hanno ottenuto risultati a noi ben noti.
Basta guardare il Napoli di Luciano Spalletti, il Benfica di Roger Schmidt o l’Argentina di Lionel Scaloni, che hanno fatto di concetti come tilting, toco y me voy e yo-yo parte preponderante delle loro tattiche, plasmando formazioni a tratti davvero meravigliose da vedere, oltre che maledettamente efficaci; questo ad ennesima riprova che prediligere un calcio tecnico, fantasioso e propositivo non significa assolutamente sacrificare o diminuire la sua capacità di ottenere il successo.
Anche il Brasile intanto, proprio con Diniz CT ad interim, sembra star avviando un viaggio alla riscoperta delle proprie radici, con l’idea ben chiara di trovare un nuovo successo mondiale con Carlo Ancelotti, il primo coach straniero dai tempi di Filpo Núñez nel 1965, paradossalmente però tanto vicino ai concetti del calcio relazionale.
Il calcio insomma prende e dà, un baratto eterno di tradizioni e idee che si spengono e riaccendono, partorendo però sempre qualcosa di nuovo.
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