Mi sono sempre chiesto cosa sia passato in mente ad un ragazzo promettente e di belle speranze come Gabriel Barbosa Almeida, per i più Gabigol, nel momento fatale della sua decisione di approdare in una delle più deludenti, poco organizzate ed emotivamente massacranti Inter della storia recente.
Sarà stato qualcosa come «Finalmente, ce l’ho fatta! Vado a giocare in un grande club in Europa!»? O, più semplicemente, vedeva la Beneamata come trampolino di lancio verso una nuova dimensione calcistica che, nelle sue fantasie, lo avrebbe consacrato come uno dei più grandi di tutti i tempi?
Ogni volta che ci penso, non posso non riflettere su quanto incomprensibilmente insignificante sia stato l’apporto del brasiliano alla causa nerazzurra. Qualche spezzone, chiamato a gran voce dal pubblico, e una rete da tre punti a Bologna. Per il resto, un vuoto cosmico che diventa difficile da spiegare, se si pensa che la prima alternativa all’allora inamovibile Mauro Icardi era, e lo dico con tutto il rispetto che riesco a raccogliere per lui, Éder Citadin Martins.
Nessuno in Europa ha mai capito veramente Gabigol, questa è la mia conclusione. Ma non nel senso che nessuno ha mai capito come collocarlo, come motivarlo, o come farlo rendere al meglio. Nessuno l’ha mai capito e basta. La domanda che si forma nella mente degli appassionati, quando ripensano alla sua breve esperienza europea tra Milano e Lisbona, si manifesta sotto forma di un cubitale «perché?». E sfido io a trovare una risposta sensata. Perché, in effetti, spendere 30 milioni di euro per portare a casa un calciatore che giocherà 183 minuti in totale in stagione? Perché non dargli una chance di qualche tipo, visti i pessimi tempi che correvano?
Per nostra fortuna, dove non arrivano la logica e la storia, arrivano il lirismo e l’immaginazione. Il futuro di Gabriel Barbosa poteva essere qualsiasi cosa nel momento in cui ha scelto l’Italia e l’Inter. Aveva davanti a sé infinite possibilità, era in completo divenire, in totale potenza. Sappiamo che per tanti motivi, alla fine non ha funzionato. Non importa. Anche le storie strane, quelle un po’ tristi, meritano qualche nota. È per questo che vi presento, con immenso piacere e giusto una punta di autolesionismo, le Gabigol Music Pictures, nate e concretizzate sotto questa normalissima domanda che ci saremo fatti un po’ tutti: ma se dovessi descrivere in forma di musical i vari momenti della carriera del nostro con alcune canzoni provenienti dalla mia playlist, che canzoni sceglierei?
Atto I
Ovvero l’atto in cui l’eroe si rende conto delle sue potenzialità, accoglie le sue aspirazioni, e si mette a risplendere come un gruppo di luminarie a forma di slitta tre settimane prima di Natale.
High Hopes, Panic! At the disco
Gabriel Barbosa Almeida è un ragazzo di enorme talento. Non lo diciamo a posteriori, non lo diciamo nemmeno con tono apologetico. Lo diciamo perché è un fatto. Non è un caso che sia stato notato da uno come Zito quando aveva solo otto anni e giocava a futsal. Non è un caso che la leggenda aurea narri di quattrocento reti solo nelle giovanili del Santos, motivo per cui si guadagnerà il lusinghiero soprannome di Gabigol. A sedici anni, il ragazzo prodigio fa il suo debutto in prima squadra, mettendo il primo timbro un paio di mesi dopo, e poi iniziando a giocare e a segnare regolarmente dopo l’addio di Robinho. Per questo High Hopes calza a pennello, perché è normale, e quasi doveroso, avere alte aspettative su di sé e sulla propria carriera quando si è diciannovenni, soprattutto se si è in grado di fare 41 reti in 130 presenze in uno dei club più blasonati del Brasile. Il primo singolo dell’album Pray for the Wicked richiama proprio il bisogno di sognare in grande, di non porre limiti alle proprie ambizioni.
Had to have high, high hopes on the living
shooting for the stars when I couldn’t make a killing
didn’t have a dime but I always had a vision
had to have high, high hopes
Come mi immagino la scena e il balletto
Siamo nel 2015. Gabigol sta andando all’allenamento a piedi, per le strade di Santos, con un pallone che rotola tra i suoi scarpini. Indossa una maglia della sua squadra, e porta sulla schiena un borsone da calcio. È felice e pieno di speranza per il futuro, tutti per strada lo conoscono e lo salutano, sorridendogli di rimando. La canzone parte. Il nostro eroe sta serenamente palleggiando con coscia e testa, senza guardare dove va. D’improvviso, il suo piede destro appoggia su un palazzone verticale di centocinquanta metri, che lui comincia a scalare, sempre palleggiando, ignorando completamente la forza di gravità, proprio come nel video musicale di High Hopes. La gente lo guarda stupita, applaude, canta con lui, balla, fa cose brasiliane. Ma ecco il twist: non appena, sul finire del brano, Gabigol arriva in cima al palazzo, esso si trasforma nel prato verde della finale olimpica di Rio 2016. La Nazionale brasiliana Under-21 sta venendo premiata con la medaglia d’oro, risultato a cui Gabi ha contribuito attivamente con due reti. Quest’immagine sublima il concetto di grandi speranze, mentre la canzone scema in sottofondo, Gabriel Barbosa china il capo per ricevere la giusta ricompensa per il suo talento e il suo lavoro.
Atto II
Ovvero l’atto in cui l’eroe fa il proverbiale passo più lungo della gamba, si sposta lontano da casa, tenta la fortuna all’estero e si fa carico di tanta pressione per colpa di alcuni illeciti paragoni.
Under Pressure, Queen and David Bowie
Il 2016 è il grande anno per Gabigol. Incantati dal suo sinistro, dalle sue capacità di inserimento e dalla sua versatilità offensiva, ma soprattutto snobbati dal suo connazionale Gabriel Jesus, Piero Ausilio e Marco Tronchetti Provera decidono di presentare un’offerta di 29,5 milioni di euro al Santos, più che disposto ad accettare una cifra così alta per un giocatore prodotto a costo zero nelle proprie giovanili. Il brasiliano e João Mário sono i due rinforzi che l’Inter aspettava dopo un inizio di stagione tutt’altro che scintillante sotto la direzione di Frank de Boer.
Ora, già il solo fatto di venire eletto a salvatore della patria, con zero esperienza nel calcio europeo, basterebbe a mandare in crisi qualunque ragazzo di vent’anni. Ma, non contento dei già pesanti macigni che l’opinione pubblica ha scaricato sulle spalle di Gabi, Tronchetti Provera usa delle parole decisamente eccessive durante la presentazione all’auditorium Pirelli, nel giorno non casuale del compleanno ufficiale di Ronaldo il fenomeno. E di Ronaldo si parla in conferenza stampa come «ultimo calciatore brasiliano presentato da Tronchetti Provera», allo stesso modo in cui Piero Ausilio parla di «sogno su cui ricostruire una nuova Inter». Gabigol allontana subito i paragoni, con l’atteggiamento dell’umile ragazzo di campagna appena arrivato in città, dicendo che Ronaldo ha fatto la storia del calcio, e che lui è solo Gabriel Barbosa, ma ormai il danno – psicologico – è fatto.
E allora lasciamo cantare Mercury e Bowie, che ci parlano con Under Pressure di una società che mette tutti sotto torchio, che usa il denaro e il successo come unico strumento di legittimazione del self, che rischia di ricoprire anche l’amore per qualcosa o qualcuno di un tenace e sottile velo di pura ansia.
Pressure pushing down on me
Pressing down on you, no man ask for
Under pressure that burns a building down
Splits a family in two
Puts people on streets
Come mi immagino la scena e il balletto
Gabigol è alla sua presentazione, preparata in pompa magna. Si sente già un pelo nervoso, mentre dà in pasto ai fotografi la sua nuova maglia numero 96. Il pensiero di quello che la gente si aspetta da lui gli torce lo stomaco. Poi Tronchetti Provera dice quel nome. Tutto si fa scuro, l’Auditorium Pirelli scompare in un nero notte senza profondità. Qualcuno comincia a vocalizzare per scaldarsi la voce, proprio come Freddie Mercury faceva nei suoi concerti.
«Mmm num ba de». Una figura rapidissima sfreccia gorgheggiando di fronte a Gabigol, che gira la testa nella sua direzione, terrorizzato, ma non riesce a identificarla.
«Dum bum ba be». Di nuovo, stavolta dietro Gabi, con un suono leggermente diverso. Il talentino brasiliano si volta e riesce ad incrociare per un attimo uno sguardo affamato, leopardesco, folle.
«Doo buh dum ba beh beh». La figura gli passa di nuovo davanti, fulminea, con l’ennesimo soave vocalizzo. Gabi riesce a distinguere una maglietta a righe orizzontali, in cui il grigio scuro si alterna al grigio chiaro. Ha capito, ma è troppo tardi. L’ectoplasma diafano che gli si palesa davanti è rasato, ha dei polpacci impressionanti e, soprattutto, un pallone tra i piedi. Con un ghigno malefico, l’ombra di Ronaldo il Fenomeno fa iniziare il duetto: «Pressure…».
Atto III
Ovvero il grande momento che tutti stavano aspettando, la prima preghiera pre-ingresso dell’eroe, la standing ovation e altri bizzarri accadimenti, latori di crudeli e tragiche ironie future.
Gabriel Barbosa esordisce il 25 settembre in un 1-1 casalingo contro il Bologna. Si capisce, qui, quello che Piero Ausilio intendeva con «sogno su cui costruire una nuova Inter» e non c’è testimonianza più chiara della clamorosa standing ovation riservatagli al suo ingresso in campo, prova ultima di una cultura dell’hype profondamente malata sin nelle sue fondamenta. Gabigol, alza le mani in preghiera, si scambia un saluto con Antonio Candreva, che si sta accomodando in panchina, e si prepara a calpestare per la prima volta il prato verde del Meazza.
Qualcuno diceva, in uno dei punti più alti di un’arcinota saga fantascientifica, che la libertà muore sotto scroscianti applausi. Forse vale anche per le fortune di alcuni calciatori. Ma Gabi non lo sa, non lo può sapere. Ha vent’anni, è giovane, è forte. Forse non si ricorda nemmeno più dei paragoni scomodi con Ronaldo, forse ha solo voglia di entrare in campo e far divertire la gente. E allora fa un bel respiro, soffia fuori tutta l’ansia, guarda in alto cercando l’aiuto di Dio, della sua famiglia, di sé stesso.
Per quanto possa sembrare ironico, il video di Walk of Life dei Dire Straits è completamente basato sulla riproposizione di alcune papere sportive, ma non è un senso di inadeguatezza prorompente che la canzone vuole trasmettere. La canzone parla di un ragazzo che ha tutte le carte in regola per diventare in gamba in quello che fa, e cioè nel suonare la chitarra. Se andate a leggere il testo, Walk of Life potrebbe essere un intrigante riferimento metaletterario, un meccanismo attraverso il quale il protagonista della canzone suona la canzone stessa. Oppure, senza stare a scervellarsi troppo, una metafora della vita, della gioventù, degli infiniti spazi aperti dal campo delle proprie possibilità e delle proprie qualità. L’uomo per progredire cammina, senza sapere se e dove arriverà con le proprie gambe. Per un attimo, spero che anche Gabriel Barbosa Almeida abbia pensato che sarebbe stato molto bello raccogliere in una canzone tutto il proprio futuro, e concedersi il lusso di vivere l’attimo.
He got the action, he got the motion
Oh yeah, the boy can play
Dedication, devotion
Turning all the night time into the day
He do the song about the sweet and lovin’ woman,
He do the song about the knife
He do the walk, he do the walk of life
Yeah, he do the walk of life
Come mi immagino la scena e il balletto
Ecco l’eccezione: questo brano non verrà cantato da Gabi. Penso piuttosto ad una scena in cui la squadra – e in particolar modo i panchinari – sta osservando il suo riscaldamento con grande interesse assieme a Frank de Boer. Ansaldi comincia a canticchiare, rivolto verso D’Ambrosio, a cui spettano due versi della prima strofa. A questo punto interviene proprio Felipe Melo, che con fare esperto riconosce che il ragazzo, come dice la canzone, ha action e motion e può assolutamente play. Il veterano Rodrigo Palacio sottolinea l’importanza di dedication e devotion, prima di cedere il passo allo staff tecnico che, guidato dalla soave voce del mister olandese, canta il ritornello improvvisandosi band, con movenze decisamente troppo anni Ottante – e quindi perfette. La cosa va avanti così anche per la seconda strofa, che vede coinvolti rispettivamente Jovetić, Yao, Carrizo – quest’ultimo nello stesso ruolo di Melo, a sottolineare il fatto che il ragazzo è in gamba – prima di lasciare, dopo il secondo ritornello dello staff medico, il bridge solitario a Yuto Nagatomo, che darà l’attacco al ritornello finale collettivo, con tutta la panchina che balla in piedi mentre Gabigol viene chiamato per entrare.
Atto IV
Ovvero l’atto in cui, nel naufragio generale, l’eroe mostra di presentare qualche problema di ambientamento e di impiego, perde la fiducia in sé stesso e cade in una spirale di sconforto ed inutilizzo fino alla oltremodo famosa partita del Murillo volante.
Per citare un famoso cattivo, la realtà è spesso deludente. Dopo questo esordio, Gabigol non vedrà il campo fino al 18 dicembre, già in piena gestione Pioli dopo il burrascoso esonero di Frank de Boer. L’Inter sta ricominciando a carburare, e il brasiliano avrà un minuto a disposizione a Reggio Emilia, contro il Sassuolo, e poi altri quattro minuti nella vittoria casalinga per 3-0 contro la Lazio, durante i quali si permetterà anche una rabona.
Per l’esordio da titolare – e anche l’unica partita che il promettente giocatore carioca giocherà dal primo minuto nell’intera stagione – dovrà aspettare il primo turno di Coppa Italia, in casa contro il Bologna. Una partita che verrà ricordata, più che altro, per uno splendido gol in rovesciata di quel fenomeno di Jeison Murillo. In settantadue minuti, Gabigol creerà qualche occasione e cercherà ripetutamente di portarsi sul sinistro e calciare, cercando di creare superiorità numerica sulla destra con il suo compagno di fascia Danilo D’Ambrosio. Non è una brutta partita la sua, anche se a tratti Gabi rimane un po’ fumoso. Quando tocca il pallone, la sensazione che possa accadere qualcosa di speciale c’è. Il problema però rimane: un giocatore per cui hai speso quasi 30 milioni di euro, può essere relegato ad un ruolo così comprimariale? Cosa può pensare un ragazzo di talento, palesemente ignorato nelle scelte anche quando la sua squadra offre prestazioni da film dell’orrore? Enigmi nell’oscurità.
Harden my Heart è una canzone semplicemente splendida, prima traccia del primo album dei Quarterflash. Uscita nel 1981, parla di qualcuno che ha appena subito un tradimento, una delusione, e che quindi decide di andarsene. Chi è familiare con i musical e ha visto quella meraviglia di Rock of Ages, se la ricorderà sicuramente, chi non sa di cosa sto parlando si sieda in un angolino e ripensi a cosa sta facendo della sua vita.
Cryin’ on the corner, waitin’ in the rain
I swear I’ll never, ever wait again
You gave me your word but words for you are lies
Darlin’ in my wildest dreams, I never thought I’d go
But it’s time to let you know, oh
I’m gonna harden my heart
I’m gonna swallow my tears
I’m gonna turn and leave you here
Come mi immagino la scena e il balletto
Piove. Esterno. Inquadratura sul portone d’ingresso alla Pinetina. È il 12 dicembre, e Gabigol si è appena fatto 90’ di panchina durante un’agevole vittoria casalinga contro il Genoa, portando a dieci partite la sua striscia da inutilizzato. Le porte sbattono con forza, e proprio il povero Gabi esce piangendo dal centro di allenamento, camminando a passi decisi sotto la pioggia scrosciante che gli bagna i capelli, la maglietta, l’anima. Le sue lacrime si confondono con le gocce d’acqua, mentre l’ormai ex-next-big-thing del calcio meneghino inizia ad intonare la prima parte della canzone. Tutto intorno a lui sembra farsi più cupo, il vento comincia a soffiare forte in direzione contraria. Il cielo grigio pare pateticamente piangere insieme all’eroe, che dichiara, sconfitto e deluso, che indurirà il suo cuore, ingoierà le sue lacrime, darà le spalle al suo antico amore e se ne andrà. Geoffrey Kondogbia osserva tutto da lontano, senza capire cosa succede.
Atto V
Ovvero l’atto del parziale riscatto e dell’ultima illusione dell’eroe, il quale scoprirà più avanti che la speranza altro non è che uno strumento di tortura per i sensibili e i sentimentali.
Alive and Kicking, Simple Minds
Oltre il velo della gestione de Boer, sembra che un nuovo sole stia sorgendo a Milano. Quello di uno strano manager, che poi troverà successo da un’altra parte, e che finirà in miseria la sua esperienza nerazzurra, ma che sarà in grado di regalare tre mesi di speranza ad una compagine – e ad una tifoseria – mentalmente a pezzi. L’Inter di Stefano Pioli è rombante. Rinforzata con l’arrivo di Roberto Gagliardini dall’Atalanta, sembra godere di uno straordinario momento di forma che la porterà a macinare gioco e classifica, con 33 punti conquistati dei 39 disponibili tra 16ª e 28ª giornata. Gabigol sfrutterà una finestra temporale di ben 61 minuti in quattro partite – quasi – consecutive, giocando spezzoni nella vittoria in casa con il Pescara, in quella con l’Empoli, nella vittoria a Bologna e nella sconfitta interna con la Roma.
Ecco, il Bologna. Con la formazione felsinea il talentino ex-Santos aveva esordito e aveva giocato la sua unica partita da titolare, in Coppa Italia. Ma nella sfida del Dall’Ara sembra si possa realizzare addirittura il miracolo. Contesto: la partita è bloccata, nessuno pare in grado di risolvere la situazione. L’Inter deve vincere per continuare a correre. Come se non bastasse, ha pure addosso la “maglia Sprite”. Gabigol non si è ancora visto, ma è praticamente appena entrato in campo. Banega lotta per un pallone al limite dell’area rossoblù, e riesce a servire un filtrante delizioso verso D’Ambrosio, il quale centra il pallone mettendolo perfettamente sul piede di Gabi, che deve solo spingere in rete. Gol vittoria e, come il telecronista non si fa problemi a ricordare, prima rete in nerazzurro nello stesso stadio in cui segnò il suo primo gol italiano anche Ronaldo. Esultanza pazza, tutti ad abbracciarlo, gente che lo sfonda di coppini, insomma, momento Inter. Sfido chiunque abbia visto quella partita in diretta, coinvolto oppure no, a giurarmi di non aver pensato in quell’esatto impasto di momenti drammatici: «Ecco, mo’ questo si sblocca e vanno a prendersi la Champions League».
Alive and Kicking è la risposta facile ad una serie di domande difficili. Che cosa fai quando tutto sembra andare male? Quando ti crolla il mondo addosso? Rimani, rimani finché il tuo amore è vivo e scalcia dentro di te. Con questa traccia del 1985, i Simple Minds ci dimostrano con allegria che la luce in fondo al tunnel c’è, bisogna solo essere abbastanza forti per cercare di arrivarci. La storia che stiamo raccontando terminerà diversamente, ma per il momento Gabi prende la teoria per buona.
What you gonna do when things go wrong?
What you gonna do when it all cracks up?
What you gonna do when the love burns down?
What you gonna do when the flames go up?
Who is gonna come and turn the tide?
What’s it gonna take to make a dream survive?
Who’s got the touch to calm the storm inside?
Who’s gonna save you?
Alive and kicking
Stay until your love is, alive and kicking
Stay until your love is, until your love is, alive
Come mi immagino la scena e il balletto
Gabigol ha appena segnato. Nemmeno lui si rende conto di quello che è appena successo, mentre passa dietro alla porta togliendosi la maglietta per andare ad esultare sotto i suoi tifosi. La canzone intanto sta montando in sottofondo, sempre più alta, fino a sovrastare i rumori dello stadio. Ad un certo punto Gabi capisce cosa sta succedendo: è il tifo organizzato dell’Inter che sta intonando i Simple Minds! Accorgendosi di essere in ritardo per il coretto – un po’ come Cremonini quando fa «by day» in Domani, Uniti per l’Abruzzo – decide di attendere fino al ritornello, per poi emergere dal gruppo di giocatori vestiti in modo discutibile che lo sta sovrastando cantando a squarciagola la sua risposta a tutte quelle domande, ricordando al mondo e a sé stesso che, se c’è ancora amore, vale la pena restare.
Atto VI
Ovvero la fine di ogni velleità di inutile gloria, il crollo verticale di tutto il gruppo, il ritorno del disamore e della panchina.
In una stagione ricca di sliding doors, l’ultima assumerà i contorni di una condanna. L’Inter incappa in un inutile pareggio a Torino. Da lì è una discesa verso gli inferi, con la Champions si allontana risultato dopo risultato, fino a scomparire oltre l’orizzonte, mentre tutto il sistema che aveva corso a perdifiato tra dicembre e marzo, si inceppa, inciampa e crolla. Nel disastro generale di una squadra che non si raccapezza più, Gabigol scompare. Si vedrà soltanto nei minuti finali delle ultime due partite dell’epoca Pioli, contro Genoa e Sassuolo, e in quest’ultima soltanto perché chiamato a gran voce dallo stadio – evento che peraltro meriterebbe un atto a parte, anche se non abbiamo abbastanza materiale per farlo. Gabi ancora non lo sa, ma saranno le sue ultime due partite ufficiali in nerazzurro.
In un quadro generale di piena e totale devastazione, allora, come non citare The Scientist? Il racconto di un amore che finisce, e le persone in essa coinvolte che cercano di vederla in modo analitico, scientifico, numerico, accorgendosi mentre lo fanno che a rigor di logica forse non sarebbero nemmeno dovute finire insieme. E, allo stesso tempo, questo incalcolabile desiderio di tornare all’inizio, quando tutto sembrava perfetto, e loro credevano che l’affetto che provavano l’uno per l’altra fosse reale e che il loro rapporto avrebbe potuto funzionare. Questa è, a mio modesto parere, la più bella canzone che i Coldplay abbiano mai tirato fuori dal cilindro: per concetti, per richiami interni, ma soprattutto perché fa piangere – e alla fine dalla musica cerchiamo questo.
Nobody said it was easy
It’s such a shame for us to part
Nobody said it was easy
No one ever said it would be this hard
Oh, take me back to the start
Come mi immagino la scena e il balletto
Come di sicuro saprete, il video è tutto al contrario. Motivo per cui, stavolta, metteremo un video tristissimo di Gabigol partendo dalla sua ultima entrata in campo, con chiamata a furor di popolo dallo stadio, e riavvolgeremo semplicemente il nastro, ripassando tutte le tappe importanti della sua esperienza interista fino alla presentazione di quell’infausto settembre 2016. Il tutto rigorosamente in bianco e nero e a bassa risoluzione, con i contorni sfumati dei video musicali degli anni duemila, mentre la voce di Chris Martin ci accompagna verso orizzonti di tristezza che non credevamo possibili, e che si raggiungono facendo lacrimare le nostre lacrime come nella più banale delle strutture ricorsive.
Atto VII
Dove osano le aquile, ovvero storie di altri banali fallimenti europei che tutto sommato ci si poteva aspettare, prima del ritorno in patria in grande stile.
Who Says You Can’t Go Home, Bon Jovi
Lasciato andare a fine stagione perché ritenuto immaturo e non pronto da Luciano Spalletti, Gabigol si accasa al Benfica, in prestito. Non c’è molto da dire se non che il Portogallo evidentemente non faceva per lui, visto che nella sua (breve) esperienza lusitana il povero Gabriel Barbosa collezionerà 165 minuti e una rete – che, bisogna dirlo, lo renderà decisamente più prolifico nel rapporto minutaggio/reti rispetto ai suoi trascorsi meneghini. Rimandato indietro in anticipo come un pacco di Amazon con dentro qualcosa che non si era ordinato – «avevo preso un calciatore, mi avete spedito un tostapane» –, a gennaio viene prestato al Santos senza nemmeno passare dal via, per un anno di detox nella nave madre. Qualcosa probabilmente cambia, e il quarto di giocatore che si era visto in Europa torna intero. A casa sua, senza gli annosi problemi di saudade che affossano ogni giocatore brasiliano di belle speranze che si ritrova a giocare per squadre nella loro banter era, Gabriel Barbosa ritorna Gabigol, con 22 reti in 43 presenze. Il brasiliano impressiona, ma non a sufficienza per potersi riguadagnare la fiducia e la stima dell’ambiente, che ormai ha virato su altri profili.
Who Says You Can’t Go Home è una canzone del 2005 di Bon Jovi – non giudicatemi – che parla del ritorno a casa. Una giovane anima che lascia casa, perché non riesce più a sopportare la monotona vista di ciò che conosce così bene e si sente in dovere di allontanarsi, e di fare un milione di miglia per trovare sé stesso. Alla fine del viaggio, però, si rende conto che nessun posto è come casa. E che nel pensarlo non c’è nessuna vergogna.
Who says you can’t go home?
There’s only one place they call me one of their own
Just a hometown boy born a rolling stone
Who says you can’t go home?
Who says you can’t go back?
Been all around the world, and as a matter of fact
There’s only one place left I want to go
Who says you can’t go home?
It’s alright, it’s alright, it’s alright, it’s alright, it’s alright
Who says you can’t go home?
It’s alright, it’s alright, it’s alright, it’s alright, it’s alright
Who says you can’t go home?
Come mi immagino la scena e il balletto
Questa è particolarmente facile. Il nostro protagonista ha le valigie pronte. È in aeroporto, pronto a prendere l’aereo che lo riporterà a casa dopo il periodo peggiore della sua carriera. È inconsolabile: la consapevolezza di non essere riuscito a fare la differenza pesa dentro di lui come un macigno. Dall’altoparlante chiamano l’imbarco del suo aereo. I momenti si allargano, si dilatano, ogni secondo diventa un’eternità. All’improvviso, una mano si posa sulla spalla del triste giovane. Gabigol si volta, e vede di fronte a sé un essere che potremmo definire antropomorfo, con il volto e il corpo di Bon Jovi e la pelata di Grīgorīs Geōrgatos – che soffriva pesantemente di saudade ellenica, o νοσταλγία se preferite – il quale comincia a cantare la bellezza del tornare a casa, dell’essere di nuovo un tutt’uno con il proprio luogo d’origine. Il nostro eroe si unisce al canto, assieme a tutto il gate 14 di Milano Malpensa, in un finale gioioso e ballerino che vede l’aereo diretto a Rio de Janeiro volare verso l’alto e sfumare nel sole, prima di un cambio scena che ci riporta, con la dissolvenza della canzone, direttamente all’Estádio Urbano Caldeira. Una perfetta ringkomposition con la canzone iniziale, che sfumava nella premiazione delle Olimpiadi.
Atto VIII
Ovvero la fine, l’atto in cui l’eroe si riprende finalmente ciò che è suo: la sua fiducia, i suoi successi, il suo piccolo, grande pezzo di storia.
All These Things That I’ve Done, The Killers
Che il Brasile a Gabigol abbia fatto bene pare ovvio. Nessuno, però, avrebbe potuto immaginare una ripresa così enfatica dopo un tonfo così imponente nel calcio d’Europa. Dopo la breve parentesi al Santos, Gabigol arriva al Flamengo con aspettative di nuovo molto alte, e stavolta non fallisce. 32 gol in 41 presenze sono numeri da grande giocatore, ma conta soprattutto il contesto. Nel 2019 infatti il Flamengo vincerà, con il fondamentale contributo dei gol di Gabi, il Brasileirão e il Carioca, oltre alla finalissima di Copa Libertadores con il River Plate, in cui il protagonista si rivela decisivo con una doppietta nel finale per sigillare il risultato sul 2-1. Il Flamengo, convinto dalle buonissime prestazioni, decide di sborsare quasi venti milioni di euro per riportarlo in patria a titolo definitivo nel 2020. Da lì in poi è un idillio, con reti a valanga, una ogni due partite in pratica, e un’altra Copa Libertadores, un altro Brasileirão, altri due Carioca, una Recopa, una Copa do Brasil e due Supercopa do Brasil. È il giocatore più giovane ad aver mai raggiunto i 100 gol nella storia del Brasileirão, ed è entrato nella Top 10 dei marcatori del Flamengo di sempre.
Insomma, alla fine rimaniamo confusi. Ma Gabriel Barbosa è forte o no? Era solo la saudade il problema? O siamo noi che l’abbiamo giudicato troppo in fretta e non l’abbiamo capito? Suppongo che la verità dimori soltanto dentro al suo cuore. E allora forse All These Things That I’ve Done, una canzone che è a tutto tondo, senza spigoli, ma che racconta una storia complicata, la storia di una dualità dell’individuo, che non sa se affidarsi agli altri oppure abbandonarsi al mondo e muoversi da solo, che non sa se cambiare o rimanere lo stesso. E allora chiede aiuto, forse sinceramente, forse solo per prendersi e prenderci in giro, perché sa che in verità le uniche cose che contano sono tutte quelle che ha fatto.
Over and in
Last call for sin
While everyone’s lost
The battle is won
With all these things that I’ve done
All these things that I’ve done (time, truth and hearts)
If you can hold on
If you can hold on
Hold on
Come mi immagino la scena e il balletto
Qua potrebbero starci, e penso che sarebbe il modo migliore per chiudere, una serie di immagini confuse su Gabigol che si sovrappongono a seconda del momento della canzone. All’inizio potrebbe essere semplicemente il suo esordio con la maglia del Flamengo, con la musica che a tratti si abbassa gradualmente per lasciare spazio alla voce soave di qualche folle telecronista brasiliano che commenta le prodezze dell’eroe sul campo di gioco. Pian piano la musica cresce, e non sono più i The Killers a cantare, ma l’eroe stesso che sacrifica metà del suo fiato mentre corre sulla fascia per vocalizzare al meglio il suo desiderio di risplendere nei cuori degli uomini e di dare un senso al suo dolore. Il musical ha perso il controllo ed è diventato lirica, tragedia, teatro. La canzone va avanti prendendo sempre più forma, in un fast forward continuo fino al momento in cui quel pallone, quello della vittoria in finale di Libertadores, gli viene servito sul piede da un brutto errore di Pinola. Il ritornello prende forma e Gabigol si blocca nell’atto del tiro, come in un episodio di Holly e Benji. Nella sua testa forse scorre tutta la sua carriera, coordinata alle parole con cui Brandon Flowers descrive la sua vita e quella di tutti.
Over and in, mentre lo tormentano i ricordi dei suoi fallimenti, della sua incapacità di reagire al mondo.
Last call for sin, l’ultima chiamata per il peccato e forse per la gloria, quel pallone che gli si sta offrendo sul sinistro, il suo piede forte.
While everyone’s lost, e tutte le facce di chi non l’ha capito, non l’ha responsabilizzato, non gli ha dato fiducia.
The battle is won, la determinazione a non mollare, mentre la gamba sinistra rilascia elegantemente la sua potenza muscolare, calciando il pallone con forza.
With all these things that I’ve done, un boato pazzesco che riempie lo stadio, l’immagine sfuocata della rete che si muove. Tutti i crismi della gioia che si concretizzano in un attimo, mentre la telecamera, che lo sta osservando mentre si toglie la maglietta per esultare, riprende il figliol prodigo a mezzo busto. Fermo immagine, scalo in bianco e nero, titoli di coda.
Bonus Track
Ovvero quella canzoncina che senti mentre i titoli di coda scorrono e tu, seduto sul divano, riflettendo sulle vicende dell’eroe, stai cristianamente pensando «ma che c*zzo ho appena visto?» mentre io tiro le somme filosofiche ed esistenziali di tutta questa faccenda.
Insomma, ormai l’avrete capito. Sulle qualità effettive di Gabigol abbiamo poca sicurezza e tante domande. Perché in Brasile sì e qui no? È davvero di un livello così basso il mondo sudamericano del pallone, o c’è dell’altro? Sono domande che sono destinate a rimanere senza una risposta definitiva. Forse fu un insieme di fattori a mettere Gabriel Barbosa Almeida fuori causa nella sua esperienza europea. Forse invece, semplicemente, aveva nostalgia. Tutte queste teorie le lascio a chi legge. A me, onestamente, basta sapere che ora è felice e vive l’affetto di un tifo che lo ama per quello che è e non per quello che spallettianamente potrebbe essere. Nella mia testa Gabigol passeggia sereno per le strade di Rio de Janeiro, saluta tutte le persone che conosce, sorride a chi gli sorride, proprio come quando era ragazzino a Santos. La sua vita è bella e piena, è ammirato e rispettato e soprattutto si sente a casa.
I Bastille sono il mio gruppo preferito, come confermano a più riprese le mie assai monotone Wrapped annuali di Spotify. Se non li conoscete, si tratta di una band indie-pop britannica formatasi nel 2010. A loro devo più di qualche ringraziamento, vista la costanza con cui li seguo e con cui li rendo parte della mia esperienza e della mia riflessione sul mondo. È per questo, forse, che mi sento moralmente obbligato a chiudere con loro, per non fare torto a me stesso e per regalare un’esperienza migliore anche a voi. Del resto, penso di essere stato chiaro fin dall’inizio: in questo articolo c’è qualcosa di più di un pezzetto di Inter, o di Gabigol. C’è anche quel pezzetto di meraviglia.
Pompeii è la canzone più famosa dei Bastille in assoluto, probabilmente più per musicalità che per testo e tematica. Un vero peccato, perché di fatto è una canzone bellissima anche e soprattutto se avete la voglia di ascoltarla bene. È la storia delle persone che vennero sepolte dall’eruzione del Vesuvio del 78 d.C., e che, forse ormai già diventate statue di cenere, si parlano, ricordando quei tragici momenti, dai terremoti alle nuvole nere che coprivano il cielo della città. Ma è solo una la parte di questo brano che mi interessa riportare.
But if you close your eyes, does it almost feel like nothing changed at all?
And if you close your eyes, does it almost feel like you’ve been here before?
Ogni tanto chiudiamo gli occhi per ignorare, per dimenticare, per fare finta di non vedere. Proprio come, forse, nel 78 d.C., gli abitanti di Pompei chiusero gli occhi di fronte ai grandi segnali che li avvertivano di un imminente disastro. Qualche volta, li chiudiamo per vedere come siamo ripartiti, per aiutare la memoria nel difficile sforzo che richiede passare in rassegna il nostro passato. Chissà se quel ragazzino che sognava grandi palcoscenici, ora che è diventato uomo, riesce a ricordare se stesso da giovane, e quella spensieratezza rubata dall’Europa. Chissà se riusciremo a farlo noi quando, da grandi, deposti i sogni di gloria e fugate le nostre sciocche ambizioni, guarderemo a quel ragazzino che eravamo, e che si divertiva tanto con il pallone, immaginando di calcare i campi della Serie A. Tutti i nostri sogni sono in comune, tutti i perché dell’umanità sono universali, tutte le storie meritano un loro musical. E allora prendete un bel respiro, fate girare indietro le lancette, abbassate le palpebre. Alla fine, se chiudete gli occhi, sembra quasi che non sia cambiato nulla.
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