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Ma il cielo è sempre più blu: uno spaccato del calcio italiano

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Il mondo della canzone italiana è da sempre ricco di brani meravigliosi, vere e proprie opere d’arte che hanno accompagnato e segnato intere generazioni. La forza della musica è proprio quella di raccontare le emozioni di ognuno di noi, dalla gioia alla tristezza passando per rabbia, delusione e speranza. Ci sono delle canzoni che, però, hanno una marcia in più, poiché hanno la capacità di raccontare tutta questa gamma di sentimenti in un unico pezzo coerente, riuscendo a lasciare un messaggio diverso a seconda dello stato d’animo di chi ascolta. Una di queste è sicuramente ‘Ma il cielo è sempre più blu‘, forse la canzone più celebre del repertorio del genio musicale di Salvatore Antonio Gaetano, in arte Rino, scomparso a soli 30 anni nel 1981. Con questo brano il cantautore crotonese ha composto un vero e proprio inno all’Italia e all’italianità tra gioie, dolori e compromessi: insomma, uno spaccato del nostro Paese. E cosa rappresenta al meglio l’Italia se non il pallone? Il calcio italiano è l’insieme di una miriade di emozioni: lo amiamo, lo odiamo, ce ne allontaniamo e ne siamo attratti, motivo per cui la canzone di Rino Gaetano si presta perfettamente a raccontarlo in alcune delle sue strofe.


Chi ama l’amore e i sogni di gloria

Quante volte avete sentito pronunciare la frase «le bandiere non esistono più»? Tante, sicuramente. Questa affermazione nasconde un evidente senso di nostalgia di un campionato che fino a non molti anni fa era pieno di calciatori legati indissolubilmente a una sola maglia, quella del proprio cuore. Il calcio italiano per certi versi è sempre stato romantico, ed è pieno di giocatori fantastici che avrebbero potuto vincere tanto e guadagnare maggiormente altrove, vestendo le maglie più blasonate del mondo, ma che invece hanno deciso di restare fedeli al proprio pubblico e ai propri ideali.

L’amore è un sentimento meraviglioso, complesso ma stupendo, e preferirlo a scelte materialmente più facili è sinonimo di grande coraggio. E poi l’amore e i sogni di gloria non sono due concetti diametralmente opposti, anzi, spesso si mescolano tra loro. Legarsi ad una squadra e scegliere l’attaccamento a determinati colori porta alla gloria, che non corrisponde necessariamente ai trofei. Francesco Totti ha amato l’amore e i sogni di gloria rinunciando al Real Madrid, la squadra più prestigiosa del mondo, per legarsi a vita con la sua Roma. Alessandro Del Piero, Pavel Nedvěd, Gianluigi Buffon, David Trezeguet e Mauro Camoranesi hanno amato l’amore e i sogni di gloria decidendo di rimanere in Serie B per la loro Juventus, e dicendo no per lei alle facili tentazioni dall’estero nel periodo più nero della storia del club torinese. Gigi Riva, che per restare a Cagliari ha rifiutato offerte miliardarie provenienti dalle big del nord, ha amato l’amore e i sogni di gloria sposando la Sardegna come sua terra adottiva fino alla fine dei suoi giorni. E ancora tanti altri come loro.

In un sistema che spesso ci ha resi disillusi, in cui pretendere l’attaccamento alla maglia è impossibile, storie come queste ci dimostrano che il calcio italiano ha visto tante figure preferire l’amore a tutto il resto, meritandosi la gloria eterna.


Chi sogna i milioni, chi gioca d’azzardo

Il calcio italiano è purtroppo legato a doppio filo al tema delle scommesse e del gioco d’azzardo. Il primo grande evento di questo genere fu il cosiddetto ‘Totonero‘, termine usato per indicare lo scandalo di calcioscommesse che investì il nostro Paese nel 1980. Durante la stagione 1979/1980, infatti, alcuni calciatori e dirigenti truccarono gli esiti di diverse partite dei campionati di Serie A e Serie B. Quando questo sistema venne scoperto, le conseguenze furono devastanti: Milan e Lazio vennero retrocesse in cadetteria, Avellino, Bologna e Perugia vennero penalizzate, e giocatori importanti come Paolo Rossi, Enrico Albertosi e Giuseppe Wilson vennero squalificati per anni – all’inizio addirittura radiati. La portata dell’evento e il numero di squadre e calciatori coinvolti furono così grandi che l’allora presidente della Lega Calcio Artemio Franchi fu costretto alle dimissioni.

Nel corso degli anni si sono poi succeduti tanti eventi di questo genere, e sul finire del 2023 varie intercettazioni hanno fatto emergere casi come quelli dei giovani centrocampisti Nicolò Fagioli e Sandro Tonali, estromessi dall’attività agonistica per diversi mesi, rei di aver scommesso sull’esito di partite di calcio. Fortunatamente, ci viene da aggiungere, non con l’intento di truccare o modificare gli esiti delle gare.

Non volendo entrare nello specifico di patologie come la ludopatia, bisognerebbe però interrogarsi sul motivo per cui è avvenuto e avviene tutto questo ancora oggi. I calciatori di alto livello sono dei privilegiati, in pochi anni di contratto riescono a guadagnare più di quanto una persona normale potrebbe mai immaginare, e allora viene da chiedersi il perché di certi comportamenti. Il brivido del gioco? La voglia di avere sempre di più? Difficile dirlo. Il tema delle scommesse è quanto mai paradossale, dato che viene condannato e allo stesso tempo costantemente sponsorizzato da club, Lega e televisioni, un compromesso tutto italiano.

Chi ha crisi interiori, chi scava nei cuori

In un paese pieno di tuttologi, sono in parecchi a pensare che il tema della salute mentale non abbia niente a che vedere con il mondo del pallone, affermando che avere un conto in banca con tanti zeri rappresenti la panacea, rendendo praticamente impossibile vivere momenti bui. La realtà è che la depressione è un male subdolo, un nemico invisibile che non guarda il portafoglio e la condizione sociale degli individui e che può colpire indistintamente chiunque, calciatori compresi.

Parlare di un tema così delicato, specialmente per delle persone così esposte ai giudizi della gente non è certo una passeggiata, ma negli anni sono stati in tanti a volersi aprire di fronte a questa tematica non temendo il giudizio altrui. Da Ronaldo a Josip Iličić, passando per Gianluigi Buffon.

L’ex numero uno della Nazionale è sempre stato considerato come la trasposizione di Superman sul campo da gioco, e invece era soltanto un uomo che ha dovuto confrontarsi con la salute mentale pur essendo una persona che ha avuto tutto dalla vita. Il carrarese ha confessato di aver iniziato a soffrire di depressione intorno ai 25 anni, quando venne colpito da un’insolita mancanza di energie. Le gambe iniziavano a tremare, il sudore cominciava a farsi sempre più freddo, il fiato era sempre più corto. È stato grazie al consulto con un medico e, afferma lui, con il confronto continuo con chi gli stava intorno che è riuscito a superare la propria condizione.

Rino era un’anima sensibile e ben sapeva che ognuno di noi può essere inghiottito dal grande buio, e chiunque ha il diritto di ritrovare la propria luce. Anche chi è Superman ha le proprie crisi interiori.


Chi suda, chi lotta, chi mangia una volta

Nel calcio, e quello italiano non fa certo eccezioni, sono sempre i grandi nomi a prendersi la luce dei riflettori. Parliamo sempre dei campioni, dei bomber, di chi entra nella classifica del Pallone d’Oro. Tuttavia, può capitare che a far sognare i tifosi siano i cosiddetti gregari, quei calciatori tanto cari agli allenatori che gettando il cuore oltre l’ostacolo riescono a sopperire alle proprie carenze tecniche.

Mangiare una volta, in questo caso, può voler dire arrivare all’obiettivo dopo anni di sudore e lotta, di fatica e gavetta, quando spesso e volentieri sono gli altri ad avere tutto apparecchiato per banchettare, alle volte immeritatamente. Chi si adatta perfettamente a questa descrizione è Fabio Grosso, uomo a cui tutta l’Italia calcistica deve inaspettatamente tantissimo.

Quando viene convocato per i Mondiali di Germania del 2006 Grosso è solo un terzino in forza al Palermo, un buon giocatore in una squadra che al suo interno ha dei veri e propri fuoriclasse. Grosso però diventa importantissimo nello scacchiere di Marcello Lippi, offre prestazioni di alto livello e risulta decisivo a più riprese, anche più di quanto non lo siano stati i campionissimi dei suoi compagni di squadra: si guadagna il rigore contro l’Australia agli ottavi, segna un gol incredibile alla Germania in semifinale e soprattutto realizza il rigore decisivo contro la Francia che ci regala la quarta Coppa del Mondo. Non Pirlo, non Totti, non Del Piero, ma Fabio Grosso. Si tratta del primo e unico grande acuto della carriera del giocatore romano che però, dopo una vita di sudore e lotta, ha potuto finalmente “mangiare”, concedendosi la scorpacciata più bella della sua vita.

Il calcio non è certo il più meritocratico degli sport così come l’Italia non è la terra delle opportunità, ma vittorie come quella di Grosso sono trionfi per tutti noi affamati della vita.


Chi arriva agli ottanta, chi muore al lavoro

Il tema delle morti sul lavoro ci colpisce da vicino ogni giorno, ed è sempre difficile accettare quando qualcuno ci lascia così, soprattutto quando queste dipendono da malagestione e noncuranza. In Italia ogni anno muoiono più di mille persone sul posto di lavoro, e il mondo del calcio purtroppo non fa eccezione.

Il primo caso a salire alla ribalta è del 1977, più precisamente del 30 ottobre, il giorno della scomparsa di Renato Curi. Nello stadio che oggi porta il suo nome, i perugini ospitano la Juventus, in una sfida importante per le ambizioni di alta classifica degli uomini di Ilario Castagner. All’inizio del secondo tempo il centrocampista marchigiano si accascia a terra e subito si forma un capannello di persone attorno a lui, con l’arbitro che capendo la situazione decide di far intervenire i soccorsi. Nonostante la corsa disperata all’ospedale non c’è più niente da fare, e alle 16:30 Sandro Ciotti annuncia la morte del centrocampista ventiquattrenne in diretta nazionale. L’autopsia rivelò che Curi soffriva di una malattia cronica del cuore, una condizione in parte conosciuta dal calciatore stesso e soprattutto dai medici del Perugia e della Nazionale, che però non fecero niente per impedire ciò che poi è successo. Questi vennero poi processati e condannati ad un anno di reclusione per l’accaduto.

E più recentemente, come dimenticare Piermario Morosini, centrocampista in forza al Livorno che il 14 aprile del 2012 durante una gara in casa del Pescara iniziò a rantolare a centrocampo, cercando di gridare aiuto con tutta la restante forza che aveva in corpo, senza però riuscirci. Morosini lotta, cerca di rialzarsi continuamente, ma alla fine deve arrendersi. Anche in quel caso si trattava di una malattia cardiaca congenita, ma secondo la perizia Piermario si sarebbe potuto salvare. C’era infatti il 70% di possibilità di sopravvivenza del ragazzo se i medici intervenuti in soccorso avessero utilizzato, come da procedura, il defibrillatore semiautomatico presente all’Adriatico. Per questo errore fatale i sanitari di Livorno e Pescara sono stati condannati a otto mesi di reclusione, mentre il medico del 118 a un anno, entrato peraltro in campo con non poco ritardo a causa di una macchina della polizia municipale che ostruiva l’ingresso dell’ambulanza. L’immagine di Marco Verratti che corre a portare in campo la barella fotografa il disastro gestionale di quella situazione.

La morte di Morosini ha scosso tantissimo il Paese e il mondo del calcio. Nei giorni successivi alla tragedia si è infatti parlato tantissimo del defibrillatore e della sua importanza, un dispositivo che dal 2013 è stato reso obbligatorio in tutti i campi e in tutte le strutture delle società professionistiche, e successivamente anche in quelle dilettantistiche.

Ultimo ma non per importanza, il capitano della Fiorentina Davide Astori, morto a causa di una tachiaritmia in un albergo di Udine, poche ore prima della partita tra la sua viola e i friulani dell’Udinese. Anche in questo caso si pensa possa esserci stata una gestione erronea del medico sportivo, che è stato condannato anch’egli ad un anno di reclusione, in attesa dell’udienza d’appello.

Queste non sono soltanto le storie di tre calciatori, sono anche e soprattutto le storie di tre giovani ragazzi che, con uno svolgimento corretto del lavoro di chi dovrebbe garantire la loro sicurezza, sarebbero probabilmente ancora con noi.


Chi ha torto o ragione, chi è Napoleone

Nel calcio italiano avere ragione o torto su una qualsiasi questione è assolutamente irrilevante, anzi, sarebbe fin troppo banale e risolutivo. L’unica cosa che conta davvero è la polemica, portare avanti la propria idea anche se si è nel torto marcio, ovviamente alzando la voce. L’Italia vive di calcio e quest’ultimo si nutre di dibattiti, litigi e dichiarazioni scriteriate che riempivano le televisioni prima come il feed dei social oggi, tra lo sconforto e, ammettiamolo, più di qualche risata.

Tutti voi sapete il vero motivo della discussione tra Luciano Gaucci e Vincenzo Matarrese appena fuori dal Curi in quel famoso litigio di fine anni Novanta? Non credo, ma leggendo il nome dei due avrete sicuramente sorriso e mandato un immaginario abbraccio al fratello dell’ex presidente del Bari. Chi aveva ragione tra Christian Panucci e Luciano Spalletti sulla questione della sostituzione di Edin Džeko in un dimenticato Roma-Pescara della stagione 2016/2017? E sempre per citare il tecnico di Certaldo, era «petto netto!» quello di D’Ambrosio contro la Fiorentina nel 2019? Ma che importa! Quel che è certo è che negli anni abbiamo assistito a polemiche a non finire su arbitraggi, allenatori e molto altro, e la realtà è che ci piace. Ne siamo assuefatti.

Non è importante che Aurelio De Laurentiis avesse ragione sulla questione del calendario avverso al Napoli, l’importante è che abbia fatto la sceneggiata per poi scappare via in motorino: una delle scene più iconiche degli ultimi anni. Siamo il paese del processo di Biscardi e della BoboTV, delle trasmissioni locali e dei canali Twitch, e spesso e volentieri non è importante l’argomentazione quanto il tono di quest’ultima, la capacità di spararla grossa e di fare clamore ad ogni costo.

Sicuramente è sbagliato, su questo non ci piove, ma sfido chiunque stia leggendo queste parole ad ammettere di non aver mai visto compilation di litigi negli studi televisivi o il celebre «Chapeu!» di Antonio Cassano dedicato a Cristiano Ronaldo. Il calcio italiano è questo e nel bene e nel male sarà sempre così, perché chi fa il Napoleone lo fa perché gli altri vogliono vederglielo fare, sempre, all’infinito.


Ma il cielo è sempre più blu

Nonostante tutte le incomprensioni e le contraddizioni, alla fine, il cielo è sempre più blu. Rino ci ha voluto dire che nonostante tutto il negativo di cui il nostro Paese è impregnato si riesce sempre ad andare avanti, a lasciarsi il resto alle spalle per fare qualcosa di meglio.

Amiamo il calcio italiano, poi lo detestiamo e vorremmo smettere di seguirlo. Non capiamo perché rovinarlo con il calcioscommesse, vorremmo non essere oggetti alle discussioni in tv e al bar con gli amici dove spesso si arriva alle mani, ci piacerebbe godere dei nostri idoli come eroi invincibili, ma non si può. Passiamo mesi a litigare tra di noi su un presunto fallo di mano fino a mettere a rischio amicizie decennali, piangiamo quando un calciatore della nostra squadra del cuore si trasferisce alla rivale storica per qualche soldo in più, ma alla fine il cielo è sempre più blu.

Ho voluto scrivere di questa canzone perché penso si adatti benissimo alle vicende del calcio italiano, e perché credo fortemente che nonostante tutto basti poco, pochissimo per mettersi tutto alle spalle, magari una maglietta blu. Vi siete mai resi conto che quando arriva l’estate e l’Italia va a giocare un grande torneo internazionale accantoniamo polemiche e rivalità per far prevalere il senso di comunità, e non c’è bandiera che tenga? E che quando arriviamo da sfavoriti, colpiti da vicende che affosserebbero chiunque, diamo il meglio di noi stessi? È vero, non mancano le discussioni, del resto nella sopracitata categoria di tuttologi bisogna far rientrare anche quella dei commissari tecnici, ma in quei novanta minuti in cui undici ragazzi vestono d’azzurro il resto non conta.

Noi italiani siamo fatti così, siamo orgogliosi fino al midollo, siamo lavoratori e sognatori che spesso sono costretti a vedere le vittorie altrui, ma quando riusciamo a fare un passo oltre, a vedere il bello delle cose, la situazione si ribalta. I trionfi della Nazionale sono le nostre vittorie, il nostro riscatto sociale. In quel momento non ci interessa se viviamo in baracca e sudiamo il salario, di chi ruba pensioni e di chi ha scarsa memoria, non importa l’essere contadini e spazzare i cortili, se siamo stati assunti alla Zecca o se la sera prima abbiamo fatto cilecca, se moriremo d’invidia o di gelosia. Alla fine ciò che conta è il cielo è sempre più blu.

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