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Ha senso discutere sul merito di una vittoria?

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È facile intuire come sia sostanzialmente impossibile chiedere agli appassionati di calcio di accettare passivamente l’esito di una partita. Troppo forte la voglia di esprimere la nostra opinione, nella speranza – tramite più o meno valide argomentazioni a supporto delle nostre idee – di convincere altre persone della veridicità del nostro pensiero riguardo al merito o meno di una vittoria.

Ci capita frequentemente di vedere partite che secondo noi non rispecchiano il loro reale andamento, in quanto a nostro avviso il risultato più corretto sarebbe dovuto essere differente, ma è davvero possibile giustificare una divergenza tra la nostra visione e l’effettiva realtà? Ha realmente senso ammettere che possa non esistere una meritocrazia all’interno del campo da gioco? Sono domande che non ammettono una soluzione che possa essere considerata universalmente corretta, ma in questo articolo proveremo ad analizzarle e di conseguenza a rispondere.


Il risultato non è il criterio migliore per stabilire il merito di una vittoria?

Esistono sostanzialmente due correnti di pensiero, seppur con le relative sfumature: la prima è seguita da coloro che sostengono che nonostante il risultato legittimi una vittoria – o una sconfitta –, questa possa non essere realmente meritata; sul versante opposto si schiera chi crede che ogni verdetto emesso dal campo di gioco sia inequivocabile. Entrambe le fazioni portano a favore della loro tesi argomentazioni in sé valide, sta ad ognuno di noi scegliere quali considerare più convincenti.

Analizziamo la prima corrente di pensiero. Se il verdetto del campo secondo noi non rispecchia il reale andamento della partita, possiamo trovare un criterio che garantisca meritocrazia nel risultato?

Alcuni sostengono che il possesso palla nettamente superiore possa essere la principale discriminante che ci permetta di affermare che una squadra avrebbe meritato la vittoria, altri invece ritengono che questa sia il numero di tiri in porta, altri quello delle grandi occasioni create. Tutte queste convinzioni però possono essere facilmente smontate, in quanto non necessariamente sinonimo di merito.

Se infatti il possesso palla fosse maggiore ma risultasse sterile, e non portasse a conclusioni nello specchio della porta, perché dovrebbe apparire più meritevole di uno stile di gioco improntato sul contropiede, ma che produce un maggior numero di opportunità da rete?

Discorso simile si può fare per il numero di tiri e le grandi occasioni. Ogni qual volta una squadra ha una chance per segnare, qualora non arrivi il goal, necessariamente si è verificata una prodezza della difesa avversaria, dunque un’azione di merito, che legittima una vittoria. In alternativa, e a volte le cose possono anche coesistere, è presente un errore dell’attacco, che di conseguenza legittima una sconfitta, in quanto demerito.

Il discorso vale anche all’opposto. Quando una squadra segna un goal, ci può essere una prodezza di chi attacca, ma a volte è presente anche un errore della linea difensiva. Il concetto è lo stesso: merito e demerito di qualcuno sono le presupposizioni che portano a segnare o a subire un goal – o a non segnare e non subire –, e in quanto tali, per quale motivo il risultato finale non dovrebbe essere l’unico e più corretto criterio di merito? Vale la pena davvero discutere riguardo ad esso? A ciò fanno appello coloro che appartengono alla seconda fazione, che ritengono l’esito di una partita inevitabilmente meritocratico.

Effettivamente, se il mero scopo del gioco è segnare un goal più degli avversari – o subirne uno in meno, a seconda della filosofia – perché il numero di reti non dovrebbe essere considerato come il criterio più adatto a legittimare una vittoria? Ragionamento ineccepibile, nonostante possa risultare davvero difficile accettare una sconfitta e il modo in cui essa arriva.


Due discussioni sul merito della vittoria dalla Champions

Prendiamo come esempio la finale di Champions League del 2012, tra Bayern Monaco e Chelsea. Come ben sappiamo, la squadra inglese, guidata da Roberto Di Matteo, ha conquistato il trofeo a seguito di una cavalcata tanto incredibile quanto emozionante. Dopo aver clamorosamente eliminato in semifinale il favoritissimo Barcellona del tiki-taka di Pep Guardiola, il team londinese sembrava destinato a svolgere il ruolo di vittima sacrificale, per di più in casa dei fortissimi avversari. Acciuffato in extremis il pareggio grazie a Didier Drogba, il Chelsea riesce, al termine di una partita di enorme sofferenza, a portare a casa la vittoria, dopo la lotteria dei calci di rigore.

Chi ricorda la partita può però benissimo affermare come sia stata evidente la supremazia della squadra bavarese, che ha ottenuto il 64% del possesso palla e ha creato una quantità enorme di occasioni da goal, fruttate dagli oltre 30 tiri, tra i quali c’è anche un rigore fallito nei tempi supplementari. Insomma, basterebbe osservare il tabellino – per quanto esso non possa mai rappresentare a fondo una partita – e noteremmo immediatamente come la proposta di gioco del Bayern sia stata nettamente superiore, qualitativamente e quantitativamente.

Nonostante ciò, per quanto sia lecito affermare che il Bayern potesse certamente meritare di più, sarebbe allo stesso modo errato e irrispettoso ritenere immeritata la vittoria della squadra inglese, che dal canto suo non ha di certo rubato nulla. Il Chelsea si è semplicemente dimostrato più cinico nel corso dei 120 minuti, capitalizzando al meglio le poche occasioni avute, cosa che non sono riusciti a fare i bavaresi. In fondo, non è proprio il cinismo una delle qualità fondamentali per vincere una partita?

Spesso chi perde sembra quasi sottovalutare l’importanza dell’essere concreti, attribuendo a una carenza di tale qualità la causa della sconfitta, non considerando però che si sta parlando di uno dei principali elementi del gioco, dal quale non è possibile prescindere.

Facciamo un nuovo esempio con un’altra gara di Champions League, la semifinale della stagione 2018/2019 tra Ajax e Tottenham. Gli olandesi, reduci da una tanto meravigliosa quanto inaspettata cavalcata nella quale hanno prima messo in grande difficoltà il Bayern Monaco nella fase a gironi e successivamente addirittura eliminato due corazzate come Real Madrid e Juventus, hanno dominato la gara d’andata in casa dei rivali, vincendo sì per 1-0 ma non riuscendo a infliggere il definitivo colpo del KO. Durante la partita di ritorno il copione sembrava essere lo stesso, con i Lancieri che alla fine del primo tempo conducevano per 2-0 e sembravano avviati verso una storica finale, ma la seconda frazione di gara ha completamente ribaltato la situazione, con la squadra inglese che grazie ad una incredibile tripletta di Lucas Moura si è guadagnata un posto nella finale di Kiev, sfruttando le incertezze difensive degli olandesi e il loro scarso cinismo.

Era opinione comune che l’Ajax avesse espresso un gioco qualitativamente migliore e sicuramente aveva raccolto molte simpatie tra gli appassionati, molti dei quali sono rimasti delusi al momento dell’eliminazione. Non per questo è stato corretto affermare, come alcuni hanno fatto, che gli Spurs avessero trovato la vittoria e si fossero trovati in finale quasi per caso, con poco merito.

In primis perché, quando si arriva alla fine di una competizione del livello della Champions League, non può mai essere solamente un caso. In secondo luogo, la squadra di Pochettino nel suo percorso ha dimostrato di saper soffrire nei momenti di difficoltà, come con il Manchester City e lo stesso Ajax, e di saper colpire quando la partita ha offerto l’occasione. Sono queste caratteristiche meno nobili rispetto alla capacità di dominare il match e di creare numerose occasioni se queste poi non vengono sfruttate?


Lo stile di gioco incide sul merito di una vittoria?

Si può concordare sul fatto che un certo stile di gioco possa essere meno bello esteticamente rispetto ad un altro, ma è una visione personale legata ai propri gusti che non si basa su criteri oggettivi. Ciò che è certo è che ogni squadra cerca di ottenere i migliori risultati possibili attraverso la proposta di gioco che la sua guida tecnica ritiene più efficace e più consona alle caratteristiche dei suoi giocatori.

Non tutti concordano sul fatto che il “bel gioco” – evidente semplificazione, ma passateci il termine – sia la strada migliore per arrivare al successo. Allenatori come Massimiliano Allegri sostengono che giocare in maniera propositiva e dominante, in alcuni casi, possa rendere addirittura più complicato raggiungere l’obiettivo. Questa visione è nettamente in contrasto con il pensiero di tecnici come il Loco Bielsa, che sono invece convinti che il “bel gioco” sia propedeutico al raggiungimento della vittoria.

Dobbiamo dunque concludere che per alcuni lo scopo del gioco sia il successo e per altri invece divertire giocando bene? Ma soprattutto, vale la pena discutere su chi abbia ragione e chi torto? No e no, il discorso è molto più semplice, e forse per questo, più difficile da affrontare.

Tutti vogliono vincere, semplicemente esistono modalità diverse ed egualmente rispettabili attraverso le quali si prova a farlo, ma non per questo una via deve essere meritevole della vittoria e l’altra no.

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