Pjanić

Miralem Pjanić, il mago di Tuzla

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La Bosnia degli anni Novanta, quelli della guerra per i paesi dell’ex Jugoslavia, non rappresenta di certo uno di quei contorni ideali per crescere un figlio e garantirgli un futuro sereno. Tra i tanti che lasciarono in quegli anni i Balcani per cercare una vita migliore, ci sono anche Fatima e Fahrudin Pjanić, che il 2 aprile del 1990 diedero alla luce Miralem, in quel di Tuzla, terza cittadina per grandezza della Bosnia.

Fahrudin allora militava nel FK Drina, squadra di terza divisione jugoslava che fornì a lui e alla sua famiglia, dopo una serie di numerosi rifiuti, il visto per lasciare il Paese e fuggire in Lussemburgo, lontano dagli orrori della guerra che di lì a poco avrebbe messo in pericolo i suoi affetti più cari e con la possibilità, quindi, di ricominciare nuovamente una vita che d’un tratto si era fatta buia e senza futuro.



Miralem fin dai primi anni cresce a pane e pallone: cerca sempre di seguire il padre sia agli allenamenti che alle partite e si fa notare per la sua voglia di calcio. A sette anni inizia a tirare i primi calci nelle giovanili dello Schifflange – squadra nella quale militava il padre –, dimostrando da subito grandi qualità e un’attitudine al gioco degna di nota. Il calcio europeo non poteva che essere una conseguenza e l’occasione si concretizza a Metz – città geograficamente molto vicina al confine tra Francia e Lussemburgo – anche grazie ai consigli di Guy Hellers, centrocampista della nazionale lussemburghese, passato proprio nel Metz nel corso della sua carriera e che all’epoca garantì per Pjanić dopo averlo visto brillare nel Granducato.

Servono quattro anni al ragazzo per scalare le gerarchie del club francese e presentarsi al cospetto della prima squadra, nella quale esordisce da subentrato all’età di 17 anni in un Metz-PSG terminato 0-0. Il suo primo contratto da professionista diviene realtà pochi mesi più tardi: un triennale firmato con i Grenats, come vengono soprannominati per il colore della loro maglia. Un contratto festeggiato con il primo gol della sua neonata carriera, verso la fine del 2007, su rigore – e non è un dettaglio da dimenticare così facilmente – contro il Sochaux, che permette a Pjanić di inserire il suo nome tra i più giovani marcatori della Ligue 1.

Chiude l’annata con 38 presenze, accompagnate da 5 gol tra campionato e coppa – nella quale il club peraltro non sfigurò affatto in quella stagione, anche grazie alle prestazioni dello stesso Pjanić –, non sufficienti però a evitare la retrocessione della squadra granata, costretta così a vedere partire buona parte dei suoi giovani più talentuosi, attratti dalle sirene del calcio europeo più affermato.



Tra questi ovviamente non può non essere inserito Pjanić, che il 6 giugno del 2008 ufficializza il suo passaggio al Lione, per la “modica” cifra di 7,5 milioni di euro. La squadra viene da una serie di annate fantastiche, forse le più gloriose vissute all’ombra dello Stade de Gerland – oggi non più utilizzato –, e sta ancora festeggiando il settimo titolo nazionale consecutivo, conquistato pochi mesi prima. L’OL ha bisogno di una mini-rifondazione tecnica, palcoscenico ideale per far crescere un giovane affamato come Miralem, che nella sua stagione iniziale ha la possibilità di studiare da uno dei maestri del centrocampo brasiliano e mondiale, Juninho Pernambucano, specialista assoluto dei calci piazzati.

La sua prima stagione a Lione non inizia nel migliore dei modi: Pjanić infatti, in uno dei suoi primi match di campionato, subisce un grave infortunio al perone per una brutta entrata di Dalmat – centrocampista passato anche in Italia, all’Inter tra le altre – e si rivede in campo solamente a metà stagione, nella quale vuoi per adattamento in un nuovo club o per le precarie condizioni fisiche, non ha inciso come ci si aspettava.

La stagione successiva per Pjanić è quella della svolta: la prima novità riguarda il lato tattico e vede il ragazzo prendere in mano le chiavi del centrocampo dei Gones, visto anche l’addio di Juninho – migrato verso i ricchi lidi del Qatar, dopo aver realizzato 100 reti con il club, 44 da calcio piazzato –, dal quale prende in eredità anche il numero 8. In un avvio di stagione a dir poco brillante, arriva anche il primo gol, lo segna in Champions League e, per lo strano gioco di destini che contraddistingue questo magico sport, viene realizzato su calcio di punizione, con indosso la maglia del suo maestro predecessore. In quell’annata non sarà l’unico nella competizione – cinque in totale a cui si aggiungono sei reti in campionato –, che vede il suo club arrivare fino alla semifinale poi persa nettamente contro il Bayern Monaco, dopo aver eliminato il Real Madrid agli ottavi.

L’annata a venire, quella 2010/2011, sarà per lui l’ultima in terra francese. La decisione di lasciare il Lione non è influenzata, come spesso accade, da un cambio di guida tecnica – che rimane saldamente nelle mani di Puel, a cui Pjanić deve molto della sua maturità e intelligenza tattica –, quanto piuttosto per l’ingombrante presenza di un altro talento francese – mai veramente sbocciato – che in quella stagione diventa suo compagno di squadra, Yoann Gourcuff. I due assieme in campo si vedono raramente e il bosniaco inizia così a vedere molto spesso la panchina, relegato ai margini del progetto dallo stesso club che lo ha visto diventare grande tra i grandi.



L’addio è cosa fatta l’anno seguente, dopo 121 presenze, 16 reti e 21 assist, cambia Paese e approda in Italia, alla Roma, per 11 milioni di euro, nell’anno in cui Luis Enrique approda sulla panchina giallorossa. Con l’allenatore spagnolo, proveniente dalle giovanili del Barcellona, Pjanić trova da subito spazio in un calcio fatto di tecnica e fraseggio prolungato con la palla tra i piedi. Un concetto forse troppo astratto e mal visto in un campionato come quello italiano, che alla fine della stagione vede la Roma non qualificarsi dalle coppe europee dopo 15 anni, con il conseguente esonero del tecnico dopo una sola annata.

Le sue stagioni nella Capitale hanno visto una serie di alti e bassi dovuti anche e soprattutto ai continui cambi di allenatore: come detto Luis Enrique, seguito dopo una sola stagione dal romantico ritorno di Zeman – tecnico con cui lo stesso Pjanić non ha mai avuto un grande feeling e che nel corso della stagione lo ha relegato molte volte in panchina –, cacciato anch’egli dopo un solo anno per far posto a Rudi García. Il francese intuisce finalmente le potenzialità dell’incantatore bosniaco, che infatti nella stagione 2013/2014 – la terza in giallorosso – gioca quasi tutte le partite di campionato e soprattutto le disputa da grande campione, così come ci si poteva aspettare dopo averlo visto nei suoi primi anni in terra transalpina.

Impiegato da interno di centrocampo nel 4-3-3 o da trequartista nel 4-2-3-1, il suo livello di calcio si alza notevolmente: memorabile il suo gol contro il Milan nell’aprile del 2014, dopo aver saltato da solo tutta la difesa rossonera e spiazzato con un tocco delizioso l’incolpevole Abbiati. Quel che colpisce è la fluidità del fraseggio e la facilità con cui intuisce linee di passaggio proibitive per chiunque altro, il tutto accompagnato da un piede sopraffino che gli permette di realizzare diverse reti dalla distanza e da calcio piazzato, la specialità della casa.

Nei suoi tre anni con Garcia in panchina saranno 23 le reti messe a segno e 27 gli assist forniti ai compagni, con la ciliegina sulla torta della doppia cifra in entrambe le specialità raggiunta nel 2015/2016. Numeri che gli valsero l’attenzione delle grandi d’Europa: il piccolo principe – come veniva soprannominato a Roma – era finalmente diventato re, ed era giunto il momento di indossare la corona, cingendosi dei trofei assenti dalla sua bacheca fino a quel punto.



Quello che porta il giocatore a Torino, sponda Juventus, è un trasferimento che fa scalpore: la squadra bianconera rappresenta per Pjanić l’occasione di vincere, celebrando una carriera brillante ma allo stesso incompiuta. Viene pagata la clausola di 32 milioni di euro – messa nero su bianco dalla Roma durante il rinnovo del calciatore nel 2014 – e uno dei più forti centrocampisti della Serie A di quel periodo cambia clamorosamente maglia.

L’atmosfera per Pjanić è la stessa che si respira ai tempi del Lione. Una squadra che vince da anni in Italia e che si sta trasformando dopo una serie di cocenti delusioni in Europa – come la finale di Champions League a Berlino del 2015, persa con il Barcellona. Lui deve prendere le chiavi di quel centrocampo, sostituendo non Juninho come a Lione, ma Andrea Pirlo, un altro maestro di punizioni come il brasiliano, che ha lasciato con quella finale in lacrime la Juventus, dopo avere dipinto calcio anche a Torino per un triennio. Oltre a lui, l’anno precedente all’arrivo del bosniaco, lascia anche Paul Pogba, altro tassello magico del centrocampo che è stato prima di Conte e poi di Allegri.

In mezzo al campo è Miralem che deve dettare i tempi, e il tecnico toscano riesce nell’intento di cambiare, e per certi versi migliorare, il modo di giocare già meraviglioso visto negli ultimi anni romani. Il ragazzo viene spostato davanti alla difesa, in un ruolo mai visto precedentemente se non in rare occasioni, con compiti di impostazione e allo stesso di tempo di rottura in fase difensiva. Il suo piede delicato non ci mette molto a imparare i nuovi dettami tattici anche se la sua posizione crea, soprattutto inizialmente, molto dibattito tra gli addetti ai lavori, che vedono quasi soffocato – in questo ruolo relegato diversi metri più indietro della sua precedente esperienza – il suo prezioso talento in fase offensiva e creativa.

Pjanić risponde sul campo a queste perplessità, e diventa con il tempo fondamentale per il centrocampo della Vecchia Signora: nei tre anni di Allegri arrivano tre titoli nazionali per Mire, accompagnati da due Coppe Italia e una Supercoppa Italiana, con l’amarezza di una finale di Champions League persa a Cardiff nel 2017 contro il Real Madrid, in una manifestazione che lo ha visto inserito nell’undici ideale della stagione, essendo stato protagonista di due prestazioni esaltanti in particolar modo nel doppio confronto con il Barcellona di Lionel Messi – 3-0 all’andata, 0-0 al ritorno.

Con l’arrivo di Maurizio Sarri, i suoi dettami tattici si rilevano – almeno sulla carta – fondamentali in un’idea nuova ma apparentemente congeniale al genio di Pjanić, caratterizzata da un accentuato fraseggio palla a terra e da una tendenza sempre maggiore al gioco verticale che la sua intelligenza calcistica sopra la media parrebbe non avere problemi ad inglobare.

Quella passata è una delle stagioni più prolifiche a livello di assistenze in Serie A per Pjanić, che conclude a quota 8 il suo campionato – con i bianconeri fece meglio solo nella sua prima stagione a Torino. A livello realizzativo, invece, il bosniaco si ferma a 3 reti, una delle quali finisce di diritto tra le più belle dell’intera carriera del nativo di Tuzla.

Siamo allo scadere del primo tempo di una gara particolarmente bloccata per i bianconeri, che allo Stadium affrontano una SPAL solida e ben messa in campo. Una respinta di Berisha, estremo difensore dei ferraresi, termina tra i piedi di Khedira, posizionato al limite dell’area. Il tedesco appoggia intelligentemente con il piatto destro per lo stesso Pjanić a pochi passi di lui. Il genio calcistico dell’ex Roma supera ogni forma di raziocinio, che porterebbe molti altri interpreti a rimettere quel pallone all’interno dell’area della Spal. Compagni ben piazzati, power play offensivo da poter sfruttare, avversari tutti rintanati negli undici metri antistanti a Berisha. Niente di tutto ciò. Pjanić arma il suo destro di prima intenzione e manda – grazie anche ad una deviazione – la palla dritta sotto l’incrocio, sbloccando la contesa.

Una perla che sa però di canto del cigno. La sua esperienza a Torino si conclude, infatti, a fine annata. Pjanić vince l’ennesimo scudetto all’ombra dello Stadium, il quarto consecutivo, ma a fine giugno 2020 viene ufficializzato il suo passaggio al Barcellona, in uno scambio che coinvolge il pari ruolo Arthur. Un trasferimento, o per meglio dire, un avvicendarsi di valutazioni tra i due club che mette fine agli anni più vincenti e allo stesso tempo tecnicamente meno brillanti della carriera del bosniaco.

L’addio del centrocampista ex Roma dalle parti di Torino ha, infatti, creato un forte dibattito non solo tra gli addetti ai lavori, ma anche tra gli stessi tifosi. L’immagine più recente di un Pjanić affaticato e per certi versi fuori da ogni progetto juventino è certamente quella degli ultimi mesi in bianconero.

Dopo una prima parte di “era Sarri” iniziata – come detto – con il piglio giusto, il proseguo dei mesi e della stagione è caratterizzato da una sequela di prestazioni andate via via scemando. Ad incidere su questo calo progressivo c’è non soltanto una condizione fisica debilitata da una serie di guai muscolari, ma soprattutto una questione di carattere tattico.

Il posto di Pjanić per la prima volta in quattro anni di Juventus e – forse – nella sua intera carriera viene messo in discussione. Il passaggio dal 4-3-3 al 4-3-1-2 scelto da Sarri mette infatti il bosniaco in una posizione di “impotenza” calcistica. La porzione di campo da coprire diventa sempre maggiore e i 30 anni di età incidono alla lunga, visti i numerosi impegni stagionali. Conseguente è la mancanza di lucidità in una zona cruciale come quella del vertice basso, oltretutto unita a una sua non proverbiale capacità di saltare brillantemente il pressing avversario. Fattori che portano a una sorta di intasamento generale del sistema, dovuto all’assenza dei giusti tempi di gioco e a numerosi palloni persi in fase di costruzione.

Ecco emergere dunque molte delle fragilità che hanno fatto del nativo di Tuzla un caso dalle parti di Torino. Sarri inizia talvolta a schierare Rodrigo Bentancur nel ruolo di regista/interditore. La maggiore dinamicità dell’uruguaiano nell’aprirsi il campo e di occupare le zone lasciate scoperte dagli inserimenti delle mezz’ali ha permesso alla Juventus un maggior equilibrio e una discreta fluidità nel rettangolo verde. Un iniziale esperimento che ha buttato le basi per una successiva partenza del classe 1990.

La discontinuità nelle prestazioni di Pjanić – che da sempre ha accompagnato il bosniaco lungo tutta la sua carriera e che ha impedito all’ex Lione di eccellere tra i top del ruolo – è emersa con ancora più vigore quando ad accompagnarlo non c’era più un sistema di gioco adatto alle sue potenzialità. Lampante la differenza rispetto al centrocampo a due visto in salsa allegriana, con Khedira o Matuidi pronti ad affiancare Pjanić e a reggere le sue carenze strutturali, esaltando invece quelle di impostazione/progressione del gioco dell’ex Lione.

Da qui la scelta di pensare alla cessione. Una decisione che non può non essere inserita anche in un contesto economico e anagrafico. Vendere Pjanić ha consentito, infatti, alla Juventus, una plusvalenza non indifferente da un lato e uno svecchiamento della rosa dell’altro – Arthur è classe 1996.



La nuova vita di Pjanić si materializza dunque in terra spagnola, con il suo arrivo a Barcellona che passa quasi in sordina. L’atmosfera che si respira in Spagna non è infatti una delle migliori, soffocata dalla querelle Messi e da un rumoroso cambio di presidenza. I risultati sul campo rispecchiano, almeno inizialmente, queste difficoltà, con il Barça che parte male a inizio anno, il primo dell’era Koeman. Pjanić trova poco spazio nel seppur, per lui, congeniale 4-2-3-1 con cui il tecnico olandese schiera i blaugrana nelle prime uscite. Con il passaggio al 3-4-3 prima e al 4-3-3 poi, la continuità non fa certamente da padrone all’ombra del Camp Nou. Tante le presenze da subentrato, zero gol e zero assist e soprattutto una certa apatia, almeno apparente, al “sistema Barcellona”, costante nelle rare apparizioni stagionali. Un adattamento molto difficile, complice una concorrenza serrata con giocatori del calibro di Sergio Busquets e Frenkie de Jong, giusto per fare due nomi.

Con l’assestamento societario, completato dall’annuncio del presidente Laporta, e un’annata in più sulle spalle in un campionato nuovo come la Liga, la sua esperienza a Barcellona potrebbe – condizionale d’obbligo – finalmente partire. Chissà se il mago di Tuzla tornerà a incantare un pubblico esigente come quello catalano, abituato da anni a magie e belle giocate, le stesse che da sempre hanno contraddistinto la carriera di Miralem Pjanić.

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