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Il Napoli del 1962 e la Coppa Italia vinta militando in Serie B

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Centoquaranta giorni, poco meno di cinque mesi. Cosa può cambiare in un tempo così ridotto? È davvero possibile che una squadra sull’orlo del baratro, vicina alla retrocessione in Serie C, riesca a trasformarsi improvvisamente in una realtà vincente, conquistando il primo trofeo della propria storia? Per quanto sembri incredibile, la risposta è sì. È la storia del Napoli nella stagione 1961/1962, capace di sollevare la Coppa Italia dopo aver rischiato di retrocedere in terza serie.


L’estate del 1961, la retrocessione del Napoli e i grandi cambiamenti

Nella stagione 1960/1961, il Napoli incappa in una clamorosa retrocessione dalla massima serie, nonostante ottimi giocatori come Celso Posio ed Emanuele Del Vecchio, oltre al portiere Ottavio Bugatti, tutti lontani da Napoli già nell’estate successiva.

I sostituti non tardano ad arrivare. Tra i pali viene acquistato Walter Pontel, ex Inter e Catania, pagato ben 75 milioni di lire, mentre a centrocampo ci si affida all’esperienza di Pierluigi Ronzon, arrivato dal Milan e nominato subito capitano, e al talento di Gigi Simoni, che verrà apprezzato tanti anni dopo anche come allenatore. Altri rinforzi di esperienza sono Achille Fraschini, centrocampista con il vizio del gol, e Amos Mariani, ala con un passato nella Fiorentina e nel Milan.

Il Napoli si presenta ai nastri di partenza della stagione 1961/1962 come una delle favorite per la promozione, seppur con l’incognita legata alle motivazioni, dato che nessuno si aspettava, un anno prima, di dover disputare la serie cadetta. Sulla carta, però, i partenopei appaiono nettamente superiori alla maggior parte delle avversarie.

Il girone d’andata e il timore di una retrocessione in Serie C

Non tutto, però, va secondo i piani. La squadra guidata da Fioravante Baldi – che pochi anni prima aveva portato la SPAL al quinto posto in Serie A, tuttora il piazzamento record dei ferraresi – mantiene un rendimento altalenante per l’intero girone d’andata, riuscendo a vincere soltanto 5 partite su 19.

Il 31 gennaio 1962, dopo la sconfitta a Novara nella prima giornata del girone di ritorno e con il Napoli scivolato al quartultimo posto in classifica, un Baldi che non ha più in mano la squadra viene sollevato dall’incarico. Al suo posto arriva Bruno Pesaola.

Non si tratta dell’allenatore esperto e navigato che ci si aspetterebbe in situazioni come queste, ma di un giovane argentino – nato per sbaglio a Buenos Aires, come dirà lui molto tempo dopo ribadendo il suo legame con Napoli – di soli 36 anni. Pesaola arriva dalla Scafatese, in Serie D, dove ricopriva il ruolo di allenatore-giocatore.

L’unico vantaggio che lo accompagna è la conoscenza dell’ambiente e di alcuni elementi della rosa, avendoli avuti come compagni di squadra fino a due anni prima. Il Petisso – “piccoletto” in spagnolo, soprannome dovuto ai suoi 165 cm – aveva infatti trascorso otto anni all’ombra del Vesuvio da calciatore, iniziando da punta e finendo per agire da regista offensivo. La sua visione di gioco lasciava in parte presagire il suo futuro da allenatore, ma neanche il più ottimista dei tifosi, in quel momento, può credere che da solo sia in grado di cambiare il destino di quella stagione maledetta.


La rivoluzione di Pesaola

Quella che sembrava una mossa della disperazione del presidente Alfonso Cuomo si rivela, invece, una vera e propria svolta. Da febbraio in poi, il Napoli mostra un volto completamente diverso: la squadra appare finalmente unita, compatta negli intenti e perfettamente allineata alle direttive del suo nuovo condottiero.

Arrivano tre successi consecutivi contro Modena, Parma e Lucchese – in cui i ragazzi di Pesaola non subiscono reti –, seguite da un pareggio interno contro il Brescia. Il miglioramento è evidente in entrambe le fasi di gioco: il Napoli è solido in difesa ed efficace in attacco. È una squadra in cui segnano tutti, tanto che il capocannoniere degli azzurri a fine campionato sarà Corelli, con “soli” 11 gol.

Dopo il pareggio per 0-0 contro la Lazio – gara che passerà alla storia per il celebre gol fantasma di Seghedoni –, il Napoli riprende la sua marcia battendo il Como. Nel resto del campionato incassa soltanto due sconfitte – contro Bari e Reggiana –, conquistando la promozione in Serie A grazie alla vittoria contro la Sambenedettese all’ultima giornata.

Gli azzurri chiudono quindi secondi dietro il Genoa, a pari punti con il neopromosso Modena – ma con una migliore differenza reti – e con un solo punto di vantaggio sulla Lazio.


La cavalcata da sogno del Napoli in Coppa Italia

Uno dei pochi meriti di Fioravante Baldi in quella stagione fu quello di portare il Napoli agli ottavi di finale di Coppa Italia, superando Alessandria e Sampdoria nei turni preliminari.

L’ottavo di finale propone una sfida tutta argentina tra Pesaola e Beniamino Santos, allenatore del Torino. I granata sembrano un ostacolo insormontabile, forti di un organico di livello e della presenza in attacco della leggenda scozzese Denis Law – destinato a vincere il Pallone d’Oro nel 1964. Eppure, a sorpresa, è il Napoli a spuntarla, grazie a una doppietta di Glauco Gilardoni. Al Filadelfia finisce 0-2 per gli azzurri.

Ai quarti, il Napoli è atteso dalla Roma allo Stadio Olimpico. I giallorossi, guidati in attacco dalla leggendaria coppia argentina Manfredini–Angelillo, sono tra le squadre più forti del campionato e solo un anno prima hanno vinto la Coppa delle Fiere. Sulla carta, non c’è partita. Ma ancora una volta, il Napoli sovverte i pronostici: Gianni Corelli segna al 66’ l’unico gol della gara, mentre il secondo portiere azzurro, Pacifico Cuman, mantiene la porta inviolata con una prestazione memorabile.

In semifinale c’è il Mantova, che sta vivendo la miglior stagione della sua storia – chiuderà nono in Serie A. È una serata speciale: al San Paolo debutta un diciannovenne destinato a diventare una bandiera del Napoli, Antonio Juliano – che molti anni dopo, da capitano, vincerà un’altra Coppa Italia. In campo, i partenopei passano in vantaggio dopo soli nove minuti con Ugo Tomeazzi – primo e unico gol in maglia azzurra per lui. Il Mantova pareggia al 35’ su rigore con Italo Mazzero. Al 67’, una punizione a due in area – soluzione allora abbastanza frequente – cambia di nuovo il punteggio: Giovanni Fanello calcia e sorprende il portiere. Finisce 2-1: il Napoli vola in finale.

L’ultimo atto si gioca il 21 giugno allo Stadio Olimpico di Roma, gremito di tifosi azzurri. Di fronte, la SPAL di Serafino Montanari. Gli uomini di Pesaola partono fortissimo: al 12′, una punizione di Corelli porta in vantaggio il Napoli. La SPAL reagisce subito e pareggia quattro minuti più tardi con un inserimento del centrocampista Dante Micheli. Al 34’ il terzino Osvaldo Riva stende Tomeazzi in area: è rigore. Corelli si presenta dal dischetto per la doppietta, ma Edo Patregnani indovina l’angolo e devia in corner. L’occasione fallita sembra il preludio alla fine del sogno. Per lunghi tratti della ripresa, il Napoli fatica a rendersi pericoloso.

Poi, al 78’, arriva il momento che tutti i tifosi azzurri aspettano: Pierluigi Ronzon si libera sulla destra e fa partire un diagonale perfetto che si infila vicino al palo lontano. È 2-1, ciò che sembrava impossibile è avvenuto: il Napoli vince un trofeo per la prima volta nella sua storia, soltanto cinque mesi dopo l’insediamento di Pesaola, in un momento in cui lo spettro di una retrocessione in Serie C aleggiava nell’aria.

Bruno Pesaola, insieme all’attaccante connazionale Juan Carlos Tacchi, dà così inizio alla grande tradizione argentina del Napoli. Nei successi più importanti degli azzurri, l’impronta albiceleste è quasi sempre presente. Diego Armando Maradona sarà il trascinatore del ciclo vincente tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta. Nei primi anni del Duemila, Ezequiel Lavezzi e Gonzalo Higuaín – insieme ai difensori Hugo Campagnaro e Federico Fernández – contribuiranno alla conquista di due Coppe Italia e una Supercoppa. E il terzo Scudetto, quello del 2023, arriva anche grazie al contributo di Giovanni Simeone, che nonostante l’impiego ridotto ha deciso i big match contro Milan e Roma – chiudendo la stagione con la migliore media realizzativa del campionato, dietro il compagno Osimhen.

Pesaola, dal canto suo, resta nel cuore non solo dei napoletani, ma anche dei tifosi delle altre squadre che ha allenato. Su tutte, la Fiorentina, con cui nel 1969 conquista il secondo – e finora ultimo – Scudetto della storia viola.


Ci sono state imprese simili?

Il Napoli è ancora oggi l’unica squadra ad aver vinto la Coppa Italia militando in Serie B, ma non è però l’unica ad averlo fatto senza militare nel massimo campionato nazionale: l’unico altro caso nel calcio italiano è avvenuto oltre un secolo fa, nel 1922, quando il Vado si aggiudicò la primissima edizione della nostra coppa nazionale, mentre militava nella Promozione Ligure, battendo di misura la più quotata Udinese in finale.

L’impresa dei ragazzi di Pesaola resta comunque unica se consideriamo il periodo dal secondo dopoguerra fino ad oggi. Tante squadre ci sono andate vicine, ma poi sono state costrette ad arrendersi di fronte a compagini più attrezzate e abituate a certe partite.

Altre cinque volte una squadra di Serie B è arrivata in finale. Il Catanzaro nel 1966 riuscì nell’impresa di battere la Juventus in semifinale, portandosi ai supplementari in finale contro la Fiorentina, che vinse solo grazie a un rigore realizzato da Mario Bertini. L’anno successivo fu la volta del Padova, che eliminò tra le altre il Napoli e l’Inter, ma in finale perse di misura contro il Milan – con gol decisivo dell’attaccante brasiliano Amarildo.

Negli anni Settanta la stessa sorte toccò due volte al Palermo: nel 1974 superò un girone contenente Cesena, Juventus e Lazio e in finale furono i tiri di rigore a decretare vincitore il Bologna allenato proprio da Bruno Pesaola, che bissò il successo ottenuto dodici anni prima a Napoli. Nel 1979, dopo aver superato Lazio e Napoli, riuscì persino a portarsi in vantaggio contro la Juventus di Trapattoni in finale con un gol di Vito Chimenti e resistere fino all’83′, quando Sergio Brio ristabilì la parità nel punteggio. Ai supplementari Franco Causio segnò il gol della vittoria per i bianconeri.

L’ultima squadra della serie cadetta arrivata in finale è stata invece l’Ancona allenata da Vincenzo Guerini, nel 1994: dopo aver eliminato, tra le altre, il Torino e aver pareggiato la finale d’andata con la Sampdoria di Sven-Göran Eriksson, al ritorno riuscì a tenere lo 0-0 per 50 minuti, quando una sfortunata deviazione di Vecchiola, su una punizione battuta da Ruud Gullit, mise fuori causa il portiere Alessandro Nista e diede inizio alla goleada dei blucerchiati – 6-1 il risultato finale.

L’acuto dell’Alessandria

È dunque dallo scorso secolo che una squadra di Serie B non arriva in finale di Coppa Italia – per intenderci, c’erano ancora i due punti a vittoria. Le motivazioni possono essere molteplici: per anni il format ha previsto gare a eliminazione diretta in casa della squadra classificata meglio l’anno precedente, il che obbligava le squadre minori a compiere imprese contro squadre più blasonate, avvantaggiate anche dal favore del pubblico. Inoltre, il budget sempre più ampio di alcune big, ha aumentato il gap con le piccole squadre provinciali e diventa sempre più difficile, non solo in Coppa Italia, l’imposizione di una piccola realtà.

In questo scenario poco favorevole, una squadra non di Serie B, ma addirittura militante in Lega Pro, si è resa tuttavia protagonista di un percorso memorabile, sfiorando un’impresa che sarebbe rimasta negli annali. Siamo nella stagione 2015/2016 – la stessa in cui Oltremanica è andata in scena la favola del Leicester, la cui impresa è stata però portata a termine – e l’Alessandria allenata da Angelo Gregucci e trascinata dai gol di Riccardo Bocalon supera due squadre di Serie A, espugnando il Barbera di Palermo (2-3) e il Ferraris di Genova (1-2). Poi, ai quarti di finale, batte un’altra outsider, lo Spezia – all’epoca in Serie B – vincendo 1-2 al Picco e regalandosi una sfida di prestigio contro il Milan di Siniša Mihajlović nella doppia semifinale.

All’andata allo stadio Moccagatta di Alessandria i padroni di casa resistono, anche grazie alle parate di Gianmarco Vannucchi, fino al 45’, quando il capitano Morero stende Antonelli in area e Balotelli trasforma dal dischetto con freddezza, permettendo al Milan di vincere di misura il primo round. Al ritorno a San Siro, invece, Super Mario e compagni si scatenano: finisce 5-0 e questa volta le due categorie di differenza tra le compagini risultano evidenti.

Una Coppa “dimenticata”

Nonostante queste bellissime storie, in Italia la Coppa nazionale vanta ancora poco appeal, soprattutto se confrontata alle omologhe competizioni degli altri paesi – Inghilterra in primis. Tanto le grandi squadre, quanto le piccole, spesso sfruttano questa competizione soltanto per dare spazio alle seconde linee, forse anche a causa del format poco avvincente, e preferiscono conservare le energie fisiche e mentali per il campionato. Anche i tifosi spesso trascurano queste partite: gli stadi si riempiono solo in rare occasioni, nonostante i prezzi siano spesso molto bassi. Di conseguenza, la FIGC ha reso questa competizione ancor più elitaria e chiusa in sé stessa, cosa che paradossalmente non può che peggiorarla. Senza la pretesa che il fascino della FA Cup possa mai essere eguagliato, o di assistere a storie da film, come in ‘Dream Team‘, siamo certi che sia questa la strada giusta da imboccare?

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