Da Conte a Inzaghi, come è cambiata l’Inter

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Simone Inzaghi, tecnico dell’Inter da questa stagione, ha centrato il primo trofeo, e conseguentemente, il primo obiettivo stagionale, la Supercoppa italiana; successo a cui è abituato, date le due vittorie, entrambe contro la stessa Juventus sconfitta nella serata del 12 gennaio, in questa competizione, quando sedeva sulla panchina della Lazio.

Da quando questa coppa, la cui peculiarità è costituita dal fatto che si compone di un’unica sfida, detta simbolicamente “finale”, viene disputata a metà stagione, in inverno, essa sembra ancor di più confinata a metà fra un punto di partenza e un punto di arrivo. Volendo dunque considerare questo successo come il culmine, l’epilogo, della prima parte dell’esperienza nerazzurra di Simone Inzaghi, analizziamo come il suo approdo ad Appiano Gentile abbia cambiato, e per molti aspetti migliorato, il volto dell’Inter, dal piano prettamente tattico, a quello spettacolare.



Sarebbe inutile dilungarsi eccessivamente su quanto già discusso all’infinito dai media calcistici di tutta Europa: senza Lukaku, Hakimi ed Eriksen il valore complessivo della rosa nerazzurra scema. Non sono assolutamente sufficienti i rimpiazzi di Edin Džeko e Denzel Dumfries, né l’affidabilità di Matteo Darmian, e nemmeno il rinforzo Joaquín Correa e l’incognita Hakan Çalhanoğlu, per poter, sulla carta, parlare metaforicamente di “pareggio di bilancio”.

Non è dunque rosea la situazione che si prospetta dinanzi a Inzaghi, quando accetta di guidare la panchina dell’Inter, ma pur sempre la più grande opportunità della sua carriera da allenatore. Rispetto ad Antonio Conte, il suo predecessore, il tecnico piacentino ha un curriculum meno corposo, non avendo mai lasciato la Lazio, con le conseguenze ovvie che ciò comporta, e dunque presumibilmente anche meno aspettative ed esigenze. Il profilo di Simone Inzaghi sembra dunque perfetto per provare a tenere a galla una squadra condizionata da una controversa situazione finanziaria. Inzaghi ha infatti guidato per anni una squadra, la Lazio, spesso inattiva durante le sessioni di mercato, senza mai lamentarsi e con grande professionalità, costretto a costruire dinamiche di squadra e piani di gioco longevi al limite del possibile.

Ovviamente, anche tenendo conto delle differenze puramente nominali, l’avvicendamento sulla panchina nerazzurra comporta evidenti mutamenti sul piano tattico. Senza voler ricostruire il percorso che ha portato l’Inter a esprimersi alle condizioni attuali, partiamo direttamente dalle stesse, per confrontarle con la miglior espressione dell’Inter contiana, quella della fase centrale del campionato scorso, prima che lo stesso divenisse pura formalità.

Ciò che appare subito evidente è come l’Inter abbia abbandonato alcune prerogative fondamentali della stagione passata. Strutturalmente lo scheletro tattico resta immutato, come prevedibile, dato che Inzaghi ripone storicamente nel 3-5-2 lo stesso fideistico, viscerale attaccamento manifestato dal tecnico salentino. Ciò che però cambia è l’interpretazione del modulo stesso. Il baricentro è sensibilmente più alto rispetto a quanto accadeva la stagione passata. L’obiettivo di Inzaghi è quello di mantenere il più a lungo possibile il possesso del pallone, e per quanto concerne questo aspetto, l’eredità di Conte è evidente; l’Inter pressa alto, recupera la palla e la pulisce in modo tanto esemplare, da farlo sembrare semplice, al limite dell’ovvio, avvilendo il tentativo di pressing avversario. Come accadeva l’anno scorso, e a tratti anche nella prima stagione di Antonio Conte all’Inter, i tre centrali, confermatissimi in blocco, Milan Škriniar, Stefan de Vrij e Alessandro Bastoni, riescono a trasformare l’azione da difensiva in offensiva, o quanto meno in un tranquillo giro palla nel giro di mezzo secondo, servendosi ovviamente del lavoro monumentale di Marcelo Brozović in questo senso, faro del centrocampo nerazzurro, che nell’Inter di Inzaghi assume un ruolo sempre più centrale e insostituibile. In sintesi la fase difensiva deve molto al lavoro maniacale del predecessore di Inzaghi, ma il punto è che l’Inter viene attaccata molto meno, e questo non può che determinarsi in un perfezionamento della stessa, alla luce dell’unico goal subito nelle ultime sette di campionato, e dei sedici complessivi, in venti partite.



La rivoluzione di Inzaghi è però tutta nella fase offensiva. È qui che le due squadre, o meglio le due differenti versioni di questa squadra, diventano appunto differenti. Conte alternava due diversi piani gioco, entrambi, alla luce dei risultati, vincenti e dovuti al tipo di gioco dell’avversario. Ad esempio nella partita contro il Sassuolo in trasferta, contro il Borussia Mönchengladbach in casa e in molti altri match, in cui l’Inter si è ritrovata ad affrontare squadre votate al possesso palla ossessivo, Conte ha arretrato il baricentro della squadra, arroccandola nella propria metà campo e puntando a intasare gli spazi centralmente, attendendo pazientemente, come un leone affamato, un passo falso dell’avversario, che una volta recuperata la palla, sarebbe costato una ripartenza veloce e la conseguente rete nerazzurra.

Il secondo piano gara, rivolto ad avversari più chiusi e, di contro, devoti ad un calcio più verticale e diretto, prevedeva invece la necessità di dominare il pallino del gioco, sfruttando lo strapotere fisico di Lukaku per conquistare la trequarti, aprendo gli spazi per le discese degli esterni e gli inserimenti dei centrocampisti, cercando la porta con una determinazione e una fluidità dei movimenti schematica, in stato di trans agonistica. In questo senso, nella fase più impegnativa della stagione scorsa, Conte ha sfruttato tutte le qualità di Brozović ed Eriksen, per dare respiro alla manovra e nascondere la palla agli avversari, mentre l’asse ŠkriniarBarella-Lukaku, creava superiorità sulla fascia destra. Non era raro che i centrali spingessero in appoggio alla manovra, ma senza andare oltre la trequarti laterale; era più un modo per liberare campo all’inserimento esterno di Barella. Infine una soluzione non estemporanea era rappresentata dalle giocate di Alexis Sánchez, perfetto per compiere quel movimento di raccolta sulla trequarti e apertura sull’esterno, che permetteva a Lukaku di stanziare in posizione più avanzata, non dovendo preoccuparsi lui di tale compito. Se tutto ciò è valido, per larghi tratti della stagione passata l’assoluta superiorità sotto tutti i piani e l’indomabilità di Lukaku hanno permesso all’Inter di vincere partite, come il derby di ritorno, semplicemente portando in campo tutta la propria forza. La bravura di Antonio Conte, in estrema sintesi, è stata quella di riuscire a trarre il massimo da ognuna delle proprie risorse.

Con Simone Inzaghi le cose cambiano radicalmente, manifestandosi una più vasta gamma di soluzioni offensive. Il baricentro è più alto, al punto che si verifica la situazione in cui Bastoni è praticamente una mezz’ala aggiunta e a difesa della porta di Samir Handanovič, poco al di là della linea di metà campo restano solo de Vrij e Škriniar, quando lo slovacco non decide di imitare l’omologo sinistro. L’obiettivo dell’Inter di quest’anno è quello di schiacciare l’avversario, imponendo il proprio gioco, senza eccessivo interesse per il blasone o le scelte tattiche di quest’ultimo. Quando ciò riesce, il possesso palla dell’Inter è rapido ed efficace e le occasioni da goal sono troppe per essere contate. Nel peggiore dei casi, l’Inter appare lenta e inefficace sotto porta, come contro il Torino, o proprio pochi giorni fa nella finale di Supercoppa, ma sempre in pieno controllo della situazione. È questo il tratto caratteristico che Inzaghi ha trasmesso ai suoi ragazzi: la forza mentale di riconoscere i propri mezzi e la propria superiorità, che reale o millantata che sia, costituisce un ottimo presupposto per provare a tenere in mano la partita.

Se Brozović è il metronomo, l’uomo ovunque di questa squadra, Hakan Çalhanoğlu, dopo un inizio balbettante, si è conquistato il suo posto imprescindibile in questo undici. È lui l’addetto principale per i calci piazzati, mai decisivi come in questa stagione, è lui che può garantire soluzioni dalla distanza e assist di pregio, quando la lattina sembra proprio non volersi aprire. Nicolò Barella è molto più interno della stagione scorsa, in considerazione del fatto che Inzaghi chiede anche ai propri esterni di tagliare centralmente, rendendo più complesso per i difendenti avversari organizzare il contrasto, dato il controtempo.

Gli esterni coprono un ruolo fondamentale per la fase offensiva, così come i braccetti laterali di difesa. Ivan Perišić migliora gara dopo gara, mentre se Dumfries sembra ancora doversi adattare alla nuova realtà, nella speranza che i limiti tecnici che dimostra non siano in realtà strutturali, Darmian si è sempre rilevato un porto sicuro, e non solo in fase difensiva.

L’attacco vero e proprio si distingue per un lavoro di pressing, gioco di sponda e arretramento sulla trequarti che cerca di seguire la scia dell’anno precedente. La prolificità di Lautaro Martínez ed Edin Džeko non sembra essere intaccata, ma forse è dovuta anche alle evidenti difficoltà che le altre squadre di questo campionato denotano nel trovarsi di fronte l’Inter. Lautaro è un giocatore fenomenale, certo, Džeko è stato ed è un grandissimo attaccante, ma questa coppia sembra funzionare più come il tappo di una costosa bottiglia di champagne, che come parte della bottiglia stessa. Il problema è che Džeko, cercando di imitare ciò che Lukaku faceva magistralmente l’anno scorso, evidenzia spesso i limiti fisiologici del suo bagaglio tecnico, difficile chiedergli di più in ogni caso. Per ora il campo ha sorriso, ma forse Inzaghi potrebbe dover rivedere le gerarchie offensive della sua squadra, sempre più “Sánchez dipendente”, essendo il cileno più pratico in quelle zolle di campo che un po’ goffamente Džeko cerca di calpestare. L’altro lato della bilancia è però la perdita di peso offensivo, vista la quantità di goal di testa del bosniaco, e la sua capacità di contendere il pallone con i difensori avversari. Il tutto nell’attesa che Correa inizi a brillare non solo per pochi, seppur poetici, sprazzi.



Un’altra differenza che si è già vista fra Conte e Inzaghi è stato l’approccio alle coppe. Il secondo è riuscito finalmente a qualificare l’Inter agli ottavi di finale di Champions League, dopo i tentativi falliti da Spalletti e dallo stesso Conte. Ha vinto la Supercoppa italiana, mentre le velleità in Coppa Italia di Conte si sono infrante in entrambe le partecipazioni, in semifinale. Questo è dovuto in parte alla sfortuna, come nel caso della rovesciata di Diego Carlos in finale di Europa League, del pasticcio fra Bastoni e Handanovič che ha permesso a Ronaldo di vincere da solo la semifinale di Coppa Italia dell’anno scorso, o come quando Lukaku si trasformò nel miglior difensore dello Shakhtar Donetsk sul colpo sicuro di Sánchez, decisivo per passare il girone di Champions nella stagione passata. Tuttavia Inzaghi, a differenza di Conte, come dimostrano anche le disavventure al Tottenham, sconfitte a tavolino a parte, sembra intendere le proprie stagioni a 360°, più concentrato sulla partita, che sulla competizione, e forse questa, è la vera “mentalità vincente”. Come si dice: la fortuna aiuta gli audaci.

La stagione è ancora lunga e tutto potrebbe ancora essere stravolto, ma dando per scontato che l’Inter prosegua su questo cammino, era davvero così inaspettato questo percorso? A distanza di qualche mese, risultano parecchio imprecise le analisi che vedevano la Juventus come favorita rispetto all’Inter, obnubilate dal ritorno di Allegri – come se il livornese fosse munito di bacchetta magica –, dalle difficoltà gestionali dell’Inter e dall’incognita rappresentata da Simone Inzaghi. La Juventus, orfana di Ronaldo, ha da subito tradito le aspettative, ma Napoli e Milan hanno messo in chiaro che ciò non significava per i campioni d’Italia una strada spianata. Eppure oggi quel meno sette di otto giornate fa è un più uno sulla seconda, con una partita in meno. La cosa suona strana solo per come è maturata. L’andamento di Milan e Napoli è in linea con le aspettative, forse anche oltre, ma vedere una prima parte del girone d’andata così diversa dalla seconda, lascia ovviamente stupiti.

In altre parole, nonostante le validissime realtà che la stanno inseguendo in classifica, l’Inter non ha una reale avversaria per questo scudetto, se non sé stessa. A prescindere se ci siano stati davvero miglioramenti sul piano tattico e spettacolare o peggioramenti sul piano del valore complessivo della rosa, l’Inter resta la squadra da battere sotto ogni punto di vista e alla distanza. Non a caso, non raggiungeva una quota punti così alta da mezzo secolo, nonostante questa non sia certamente la più forte Inter degli ultimi anni. Questa Inter è la perfetta espressione della realtà in cui è incastonata: Hakimi, Eriksen e Lukaku non sono indispensabili per vincere l’attuale Serie A, sono un lusso.

Solo Inzaghi e questa squadra, relativamente meravigliosa, potranno smentirci e smentirsi. La speranza, in questo caso a prescindere dal tifo, è che l’occasione per ribaltare un esito che sembra scontato arrivi in un’altra competizione, nello specifico nel romantico, spettacolare e apparentemente impossibile ottavo di finale di Champions contro il Liverpool, quando i nerazzurri torneranno a vivere una di quelle serate che in quel di Milano non si vivevano da anni.

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