Džeko

Edin Džeko, il Cigno di Sarajevo

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Riuscire ad unire l’armonica leggiadria di un cigno alla potenza esplosiva di un carrarmato è francamente impensabile, eppure Edin Džeko riesce da sempre a farlo e a metterlo in mostra all’interno di un rettangolo verde di gioco, quando la sua sopraffina tecnica si amalgama alla sua figura statuaria, coordinate perfettamente da un’intelligenza tattica fuori dal comune.


Un’infanzia in guerra, con il calcio nel cuore

Edin Džeko ha sempre voluto far parlare i fatti, perché di parole prive di significato ne ha sentite sin troppe, nella sua lontana, ma in fondo vicina, Bosnia: quando era nato, il 17 marzo del 1986, il suo Paese stava cercando di rialzarsi da un decennio durissimo, segnato da una forte instabilità politica. Nel 1992, quando Edin aveva appena 5 anni, la Bosnia dichiara l’indipendenza dalla Jugoslavia, fatto che diede vita alla guerra di Bosnia ed Erzegovina contro le forze armate jugoslave, culminata nell’assedio di Sarajevo, la sua città. Un assedio che sarebbe durato altri 4 interminabili anni – il più lungo di una capitale nella storia della guerra moderna – e che avrebbe costretto Edin a giocare a calcio solo poche volte, perché spesso c’era il pericolo che il suo campetto venisse bombardato, o che un proiettile vagante lo colpisse. Il padre, che ogni giorno era al fronte, non gli ha mai impedito di giocare, soprattutto perché lui stesso era stato un calciatore e sapeva alla perfezione cosa voleva dire amare il calcio. D’altra parte, però, l’istinto materno della madre Belma faceva l’opposto, provava in tutti i modi a convincere il figlio a rimanere in casa, e fece bene in particolar modo in una giornata del 1993, quando Edin per una volta obbedì, e solo qualche istante più tardi, tre granate si abbatterono sul campetto dove era solito giocare.

A guerra finita, la Bosnia era devastata: più di 100.000 persone erano morte in questo conflitto, che sarebbe stato solo uno dei tanti che avrebbero colpito l’area della ex-Jugoslavia, che in quel periodo si stava disgregando. Džeko aveva 10 anni e ormai non riconosceva più la sua terra: la normalità erano i rumori assordanti delle bombe e degli spari, e non il silenzio di una città fantasma. Le uniche parole che risuonavano erano quelle dei politici, di quegli stessi politici che non avevano fatto nulla per lui e per la sua famiglia durante il conflitto. Parole che Džeko dovette ascoltare, ma a cui non credeva. Parole vuote, che lui non avrebbe mai pronunciato, perché ciò che aveva visto durante la guerra si spiegava da solo. Per questo oggi, durante le interviste, emerge tutta la timidezza del bosniaco, che porta ancora dentro di sé le stesse paure della sua infanzia: quando un giornalista gli chiede se effettivamente la sua squadra ha “assediato” la porta avversaria, lui istintivamente si tira indietro. La sua espressione perennemente fredda viene stravolta da una smorfia di repulsione, quasi di paura, e il bosniaco si chiude, si ritrae, come per proteggersi da uno sparo.


I primi passi sui campi da calcio

Edin ha 10 anni e la sua città è devastata, ma suo padre crede in lui e nel suo talento, e gli fa fare subito un provino con lo Željezničar, la principale squadra di Sarajevo, che lo prende. Il ragazzino è bravo, segna molti gol, e a 17 anni debutta in prima squadra, dove però fatica a giocare nel ruolo nel quale veniva schierato, quello di trequartista. Per questo, appena si mostra la possibilità di venderlo, il club non esita un attimo: bastano 30.000 euro dal Teplice per convincerli a farlo partire, perché nessuno crede nel suo talento e tutti quei soldi sembrano regalati per un ragazzino bravo, ma caratterialmente troppo fragile e con dei grandi limiti tecnici.

In quel momento, nel mondo del calcio, c’era solo una persona che credeva in lui: il suo allenatore Jiří Plíšek. Sebbene inizialmente le loro strade sembrano dividersi dopo l’addio allo Željezničar, perché Plíšek viene ingaggiato dall’Ústí nad Labem, così non è: l’allenatore ceco lo richiede in prestito e il Teplice non ci pensa su due volte, perché quel ragazzino “un po’ goffo” – più Brutto Anatroccolo che Cigno in quel momento – non è ancora pronto per giocare nella prima divisone.

Džeko non ci mette molto a capire quali sono i suoi limiti, ma invece di abbattersi, comincia a lavorare per limarli, e soprattutto per far emergere il suo incredibile talento. Allo stesso tempo, Plíšek capisce che Edin non può giocare da trequartista e lo sposta in avanti: l’attaccante bosniaco comincia a segnare a raffica, si inventa giocate spettacolari e convince il Teplice a riportarlo a casa già gennaio. In prima divisione segna 3 gol in 6 mesi, mentre la stagione successiva è quella della sua definitiva consacrazione: 13 gol in 30 partite, ma Džeko non sa solo segnare, fa anche segnare. È un centravanti che, nonostante la giovane età, dimostra già una grande maturità nelle scelte, ed è sempre pronto a sacrificarsi per la squadra. Il ragazzino “goffo” è scomparso, o meglio, si è evoluto in un attaccante letale ed altruista, una combinazione assolutamente nuova nel calcio bosniaco, che vede nascere una nuova stella. Lo Željezničar, intanto, si morde le mani per il talento che si è fatto scappare.


Tutti lo ammirano, ma solo il Wolfsburg ci crede

Tutti ammirano Džeko, nessuno lo vuole prendere. Strano per un calciatore di così grande talento, ma ciò che più risalta è il suo fisico, un po’ sproporzionato. Ognuno parla di lui come di un centravanti vecchio stampo, la classica boa offensiva che deve solo far salire la squadra e segnare, ma Džeko è molto di più. Centonovantatré centimetri di pura tecnica. È un attaccante capace di scattare, dribblare e gestire il pallone come pochi giocatori al mondo. In altre parole, un attaccante slavo nel corpo di un difensore slavo. Intanto, il 2 giugno del 2007, esordisce con la sua amata Bosnia e segna subito, nel 3-2 contro la Turchia: un gol molto bello, arrivato dopo un lancio lungo, lui stoppa il pallone con il petto, lo lascia rimbalzare e con un destro di controbalzo trafigge sul primo palo il portiere turco.

Solo il Wolfsburg, nella persona di Magath, sembra crederci veramente, e non si fa problemi ad investire 4 milioni di euro per assicurarsi il suo cartellino. Nella stessa sessione di mercato arriva Grafite, attaccante brasiliano e perfetto sconosciuto in Germania, come Džeko. I due però si trovano sin da subito bene, e compongono una coppia molto interessante. Il bosniaco è colui che crea gli spazi giusti per gli inserimenti del brasiliano, che invece è un attaccante più mobile. Nella prima stagione questa sintonia si vede ma solo ad intermittenza, e in due segnano 19 gol – 8 di Džeko.

La seconda stagione al Wolfsburg, la 2008/2009, invece, è di tutt’altro tenore: alla fine del girone d’andata la squadra è nona e tutto lascia presagire un girone di ritorno mediocre, ma qualcosa si sblocca nei meccanismi della compagine della Bassa Sassonia. La vittoria alla diciannovesima giornata è solo la prima di 10 vittorie consecutive, fra cui si ricorda lo spettacolare 5-1 contro il Bayern Monaco. La banda Magath fa la storia, porta per la prima ed al momento ultima volta il Meisterschale a Wolfsburg, e scrive una delle pagine più incredibili della storia del calcio tedesco.

I protagonisti di questa meravigliosa favola? Ovviamente Grafite e Džeko. Segnano 54 gol in due – 28 Grafite, 26 Edin –, diventando la coppia più prolifica nella storia della Bundesliga, un record clamoroso, considerando i mostri che hanno calcato e che calcano ancora oggi i manti erbosi teutonici. Il bosniaco mette a referto anche 10 assist ed è fondamentale per far girare l’attacco dei Lupi, per questo motivo viene eletto miglior giocatore della Bundesliga ed arriva tredicesimo nella classifica per il Pallone d’Oro.

Tutti i top club d’Europa sembrano svegliarsi all’improvviso, ammagliati da quel centravanti slavo che ha così poco di slavo, apparentemente. Ma Džeko è completamente slavo, o meglio, bosniaco: due anni prima aveva rifiutato la proposta della nazionale ceca, perché il suo cuore appartiene a Sarajevo e all’intera Bosnia ed Erzegovina, di cui è praticamente un eroe nazionale.

Il Milan è fra questi top club e Berlusconi vuole portare in rossonero il gioiello bosniaco, che tra l’altro, grazie ad Andrij Shevchenko, era fin da bambino un tifoso del Diavolo. Il bosniaco però, consapevole di dovere molto alla squadra e alla società, non insiste per la cessione, ma lascia trapelare che avrebbe preferito prendere la scelta opposta: «Dove giocherò? Ancora nel Wolfsburg. Tutti sanno che il Milan è la squadra dei miei sogni, ma non ci posso fare niente, è così. Il nuovo allenatore mi ha detto che devo rimanere qui, per la prossima stagione abbiamo grandi ambizioni». Il Wolfsburg però non ripete l’incredibile annata precedente, l’unico che mantiene il livello altissimo – a differenza di quello che si potrebbe pensare dopo le fredde dichiarazioni – è la stella Džeko, che continua a brillare di una luce accecante. Sono 22 i gol realizzati, che gli valgono il titolo di capocannoniere della Bundesliga e le rinnovate attenzioni dei più grandi club d’Europa.



L’affermazione definitiva in Premier League

La quarta stagione nella città della Volkswagen inizia come era terminata la precedente: alla fine del girone d’andata sono 10 i gol realizzati e Džeko è ormai uno degli attaccanti più forti a livello mondiale. Lo sa benissimo il Manchester City di Roberto Mancini, che si è già messo d’accordo con il club: il suo trasferimento viene ufficializzato il 7 gennaio per 35 milioni di euro, che lo rendono uno degli acquisti più onerosi della sua epoca, ma al City non importa, è un club ambizioso che vuole affermarsi il prima possibile in Europa, e questo piace a Džeko, che inizialmente però fa molta fatica ad abituarsi, riuscendo a segnare appena 6 gol in 6 mesi.

I citizens hanno un reparto d’attacco molto forte, con Balotelli e Tévez oltre al bosniaco, che decidono di rafforzare con l’acquisto di Sergio Agüero, aumentando ulteriormente la qualità della rosa ma anche la concorrenza per Edin. Mancini gli dà poco spazio, gioca solo 16 gare da titolare, ma nonostante tutto riesce a dare un importantissimo contributo per riportare il Manchester City a vincere la Premier League a 44 anni di distanza dall’ultima volta, mettendo a referto 5 assist e 14 gol in campionato, uno dei quali è decisivo nella clamorosa rimonta sul QPR dell’ultima giornata.

Nella stagione successiva le cose non cambiano: Džeko continua ad essere una visto come una riserva – tanto da guadagnarsi il soprannome di SuperSub – e anche questa volta segna 14 reti, ma il City non riesce a ripetersi e Mancini viene esonerato. L’anno dopo, con Pellegrini in panchina, l’inizio di stagione è forse peggiore: nelle prime 17 di campionato gioca per 90 minuti in sole due occasioni, poi però riesce a conquistarsi la titolarità a suon di gol, e contribuisce con 16 marcature e 8 assist alla seconda Premier League dell’era Manṣūr.

In Nazionale, invece, non è mai messo in discussione, ed è sempre più uomo simbolo, motivo per il quale gli viene assegnata la fascia di capitano, che porta al braccio con orgoglio. Oltre ad aver ottenuto il maggiore traguardo calcistico nella storia della Bosnia – la qualificazione ai Mondiali del 2014, la prima ed ultima al momento –, è recordman di gol e presenze e ancora oggi un punto fermo per i compagni e per (quasi) tutto il suo Paese – cosa non scontata, vista l’eterogeneità della popolazione bosniaca, tra lingua, cultura e religione.

Nella sua ultima stagione inglese, quando Džeko sembra nel prime della sua carriera, qualcosa si rompe: fra ottobre e gennaio è spesso fuori perché infortunato al polpaccio e quando torna non trova più spazio, fermandosi di conseguenza a solamente 6 gol e 4 assist stagionali. Il bosniaco ha ancora tanto da dare al calcio, e uno ambizioso come lui non ne può più di accontentarsi di spezzoni di gara: deve cambiare aria. Il fuoco che gli bruciava dentro da piccolo brucia ancora adesso, e la Roma lo sa benissimo. Con una cifra vicina ai 15 milioni Džeko sbarca nella capitale, convinto anche dall’amico e compagno di Nazionale Miralem Pjanić.


Dzeko, Re di Roma

L’arrivo di Džeko è accolto con enorme felicità dai tifosi della Roma, che si ammassano a Fiumicino per aspettare l’arrivo del campione bosniaco, perché è da tempo che un giocatore affermato a livello mondiale non arriva nella capitale. Edin sembra poter rappresentare la soluzione della maggior parte dei problemi della Roma, che si trovava senza una punta, ma la sua prima stagione in maglia giallorossa non rispetta in alcun modo le altissime aspettative riposte in lui: l’unica vera luce è rappresentata dall’illusorio gol del 2-0 contro la Juventus alla seconda giornata, tutto il resto della stagione è buio. L’attaccante bosniaco sembra incapace di giocare secondo i dettami tattici di Rudi García prima e di Luciano Spalletti poi: fisicamente fa molta fatica, e spesso si ritrova a commettere degli errori clamorosi sotto porta che alimentano l’ira suoi tifosi e l’ironia degli avversari.

Il vero problema, a monte, era probabilmente il fatto che Džeko venisse da una stagione con poche partite giocate, e soprattutto da una preparazione estiva parecchio sommaria, con il City che sapeva già che sarebbe andato via. A questo si aggiunge il doversi ambientare in un nuovo campionato e il fatto che, psicologicamente, per un attaccante, non riuscire a trovare il gol e anzi sbagliarne di clamorosi è parecchio pesante, e le numerose e costanti critiche ricevute dagli stessi tifosi romanisti di certo non lo aiutavano.

La stagione della Roma termina con un buon terzo posto, con Džeko che riesce comunque a chiudere la disastrosa annata in doppia cifra. Molti tifosi vorrebbero una sua cessione, ma Spalletti si oppone e lo porta sotto la sua ala. Per Edin non ci sono dubbi, non è da lui scappare dagli ambienti caldi: era rimasto nella sua Sarajevo investita dalla guerra, figuriamoci se si fa problemi nel mondo del calcio. In pochi credono in lui, ma alla fine l’allenatore riesce a tenerlo e lo trasforma: diventa il leader silenzioso della squadra, comincia a segnare a raffica, e nessuno sembra in grado di fermarlo.

Džeko torna ad essere il Cigno di Sarajevo – come viene soprannominato, semicitando l’appellativo che circa vent’anni prima si era conquistato Marco van Basten –, quel giocatore che era tra i migliori attaccanti al mondo fino a poco tempo prima. La stagione della Roma è magica, fino all’ultima giornata contende il titolo alla Juventus, che alla fine trionfa, ma per soli 4 punti. Džeko è l’assoluto trascinatore, i 10 gol stagionali diventano 39, per quella che è ancora oggi la stagione più prolifica della sua carriera. In campionato le reti sono 29, e gli valgono il titolo di capocannoniere della Serie A. Mai nessuno nella storia della Roma aveva segnato così tanto, nemmeno la Roma in persona, Francesco Totti, che proprio quell’anno dà, tra mille polemiche e tensioni con Spalletti, l’addio al calcio giocato.

Proprio quest’ultimo aspetto spezzerà totalmente il rapporto tra l’allenatore di Certaldo e la tifoseria, con il primo che ripartirà dall’Inter, e la seconda che accoglierà Eusebio Di Francesco.



Con l’arrivo dell’abruzzese, che tanto aveva fatto bene al Sassuolo, la squadra è protagonista di un’altra stagione positiva, ma più che in campionato i giallorossi fanno sognare i propri tifosi in Champions League. Riescono nell’impresa di arrivare primi nel proprio girone – che aveva all’interno due big come il Chelsea di Antonio Conte e l’Atlético Madrid del Cholo Simeone –, durante il quale Džeko segna il gol che probabilmente più di qualunque altro lo descrive: tutta la devastante eleganza del bosniaco viene fuori in una rete al volo, di sinistro, segnata allo Stamford Bridge. La rete verrà poi eletta dai tifosi capitolini ‘Goal del decennio’.

A gennaio, con la squadra che era entrata in un breve periodo di crisi e con i conseguenti malumori del tifo che iniziavano a farsi sentire, proprio il Chelsea si fa avanti per provare a riportarlo in Inghilterra, ma il calciatore non ne vuole proprio sapere. Il suo posto è a Roma.

Il 13 marzo arriva un’altra rete decisiva in Champions League, agli ottavi di finale, che vale il passaggio del turno ai danni dello Shakhtar Donetsk, ribaltando la sconfitta dell’andata. Ai quarti la banda di DiFra deve affrontare i giganti del Barcellona. Messi e compagni vincono nettamente l’andata, la Roma esce del Camp Nou con le ossa rotte: 4-1, il gol apparentemente inutile per i giallorossi lo ha segnato ovviamente Edin Džeko.

Le speranze dei capitolini sono appese ad un filo e credere in una possibile qualificazione sembra pura utopia. Una settimana dopo, tuttavia, è proprio il bosniaco ad aprire le marcature del match di ritorno dopo appena cinque minuti e a suonare la carica. Il 2-0 su rigore di Daniele De Rossi – conquistato dal centravanti di Sarajevo – dà vita ad una bolgia infernale per il Barcellona, che non capisce più nulla. All’80esimo Cengiz Ünder si posiziona sulla bandierina per battere un calcio d’angolo, prende una breve rincorsa, pennella un cross basso e teso sul primo palo, Manōlas si abbassa e con una grande torsione piazza il pallone sul palo lontano. Marc-André ter Stegen è battuto, la Roma ha ribaltato la partita. Tutti esultano in modo sfrenato, l’impresa è compiuta. I tifosi non ci possono credere, sono in semifinale di Champions League dopo 34 anni.

Alla fine dello stesso mese si gioca l’andata della semifinale contro Liverpool: la Roma le prende per tutta la partita, ancora “ubriaca” del 3-0 rifilato al Barcellona. Al 75′ il tabellone recita 5-0 per i padroni di casa, ma Džeko non ci sta, continua a combattere, fino a che non trova il 5-1, che poi diventa 5-2 con il rigore di Perotti. Il ritorno si prefigura come un’altra Mission Impossible. Alla fine del primo tempo lo score recita 2-1 per i Reds, che tuttavia subiscono il gol di Džeko appena usciti dagli spogliatoi. La Roma continua a spingere, ma la porta di Karius sembra maledetta, fino a che Nainggolan, trova il gol del 3-2 all’85esimo. Al 92esimo arriva il 4-2, che purtroppo è definitivo. La Roma è fuori dalla Champions League, ma nessuno è troppo deluso, arrivare fino a quel punto e giocarsela con le più grandi d’Europa, per una squadra non abituata a queste notti da sogno, è comunque un successo.



La stagione successiva è invece da dimenticare: un ottavo di finale di Champions e un misero sesto posto, con in mezzo l’umiliazione del 7-1 subito dalla Fiorentina in Coppa Italia e l’esonero di Di Francesco, con la Roma traghettata da Ranieri alla fine dell’annata. In estate avviene l’ennesima rivoluzione, Džeko è fortemente richiesto dall’Inter e potrebbe partire, Antonio Conte, che già lo voleva al Chelsea, vuole portalo al Milano, i dirigenti nerazzurri ci provano, ma il bosniaco, ancora una volta, sceglie la Roma. Rinnova il contratto con i giallorossi, con il nuovo capitano Florenzi che gli offre anche la fascia, che lui rifiuta prontamente, non sarebbe nel suo stile, deve sudarsela. Non è solo la pura riconoscenza e l’amore per la squadra a far rinnovare Edin, c’è anche il progetto del nuovo allenatore Paulo Fonseca, ambizioso e che ha in Džeko il perno fondamentale dell’attacco.

L’inizio della stagione è molto altalenante, con la Roma che non riesce in alcun modo a dare continuità ai suoi risultati, anche a causa di una serie clamorosa di infortuni che la limitano. A gennaio Alessandro Florenzi, mai veramente inseritosi negli schermi del nuovo allenatore, lascia la Roma, destinazione Valencia, e questa volta Edin non può esimersi dall’indossare con orgoglio e merito la fascia di capitano, con cui conduce la Roma fino agli ottavi di finale di Europa League – dove perde contro i futuri campioni del Siviglia – e centra un buon quinto posto in campionato, totalizzando ben 19 gol e 14 assist fra tutte le competizioni.

Nel momento in cui scriviamo Džeko ha segnato per la Roma 116 gol in 248 partite, il terzo marcatore all-time dei giallorossi

Numeri assolutamente incredibili, per quello che è un giocatore che ciclicamente ad ogni sessione di mercato deve andarsene da Roma: non a caso, anche in un’estate stranamente ricca di calcio a causa degli stop alle competizioni per il COVID, la telenovela Džeko si ripete. Questa volta, però, c’è qualcosa di più di una semplice voce di mercato. Il bosniaco sembra effettivamente ad un passo dal lasciare la squadra della Capitale per unirsi alla Juventus, con Paratici che è determinatissimo a regalare a Pirlo un attaccante di primo livello. La rottura non è con l’ambiente ma con l’allenatore, e si era già percepita dopo l’eliminazione con il Siviglia, dopo la quale Džeko si era presentato molto arrabbiato di fronte alle telecamere per l’intervista post-partita, lasciando trapelare qualche critica nei riguardi di Fonseca. Improvvisamente, però, tutto salta: la Juventus si assicura Morata, mentre Milik, che avrebbe dovuto sostituire il bosniaco, viene tenuto fuori rosa fino a gennaio da De Laurentiis. Džeko rimane quindi a Roma.

Dopo una prima metà di stagione positiva per i giallorossi, nella quale il bosniaco aveva messo a referto 8 gol, la tensione tra capitano e allenatore torna a farsi sentire dopo un brevissimo periodo di crisi coinciso con l’eliminazione dalla Coppa Italia contro lo Spezia – con tanto di 3-0 a tavolino per il numero di sostituzioni effettuate – e la sconfitta nel derby con la Lazio. Il giocatore viene messo fuori rosa e sul mercato, con Antonio Conte che ancora una volta prova a portarlo alla sua corte in uno scambio con Alexis Sánchez. Lo scambio però salta, e Edin rimane a Roma.

Fonseca e Džeko, che sono due persone intelligenti, hanno messo da parte i loro rancori per il bene della squadra. L’allenatore lusitano, nonostante il momentaneo exploit di Borja Mayoal, non può permettersi di rinunciare al suo numero 9; il bosniaco, da parte sua, deve invece rinunciare per il resto della stagione alla fascia di capitano, che è passata al braccio di Lorenzo Pellegrini.

Il suo rientro è stato graduale ma subito decisivo, i due gol al Braga tra andata e ritorno hanno contribuito al passaggio del turno in Europa League, e lo hanno fatto diventare il giocatore con più gol realizzati in competizioni europee nella storia della Roma, superando il record che apparteneva a Francesco Totti. Un recente problema agli adduttori, però, gli ha fatto saltare 4 gare, e adesso deve nuovamente ritrovare il ritmo partita.

Il suo tempo, tuttavia, sembra essere giunto: il Re di Roma dovrà presto abdicare al suo trono, lasciando comunque in eredità intere pagine di storia del club capitolino. Allo stesso modo, occuperà un posto d’onore nella vita di quelle persone che sono state salvate da uno dei suoi tanti e meravigliosi gesti: a marzo, quando la pandemia cominciava ad infestare il mondo e a mietere vittime, l’attaccante bosniaco ha donato diversi macchinari all’ospedale Spallanzani e ha aperto una campagna di raccolta fondi per aiutare le persone colpite. Ma questa non è una novità: Edin, dopotutto, è diventato il primo ambasciatore UNICEF della Bosnia e con la moglie Amra si impegna costantemente in progetti no-profit, soprattutto a favore di bambini sfortunati o che hanno vissuto realtà difficili come quella della guerra, temi che per ovvi motivi gli stanno particolarmente a cuore.

Edin Džeko non è solo un giocatore, è un simbolo per molti, un uomo silenzioso e timido, ma anche determinato, che sa essere esplosivo e dominante in campo. Gli ultimi mesi, dopotutto, non possono pregiudicare una carriera da Cigno. Un Cigno che è stato un profugo di guerra, che ha scritto la storia ovunque è andato, e che è diventato, quando nessuno se lo aspettava, il Re di Roma.


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