Uno sportivo natio di Bahía Blanca si trova quasi obbligato a scegliere nella sua vita tra due discipline: calcio o basket. La città è infatti considerata la capitale della pallacanestro argentina, avendo dato i natali ad un grandissimo cestista come Manu Ginóbili, finora l’unico argentino ad aver vinto un titolo NBA, ma anche ad ottimi calciatori come Rodrigo Palacio. Quando Mario Martínez chiede il verdetto a suo figlio Lautaro, il ragazzo sceglie lo sport meno popolare in città. È così che a 15 anni, dopo essersi diviso equamente tra lunetta e area di rigore, il suo viaggio parte dal Club Atlético Liniers.
Idolo di Avellaneda, con Milito nel destino
La carriera da calciatore di Lautaro Javier Martínez inizia nell’antitesi del suo futuro, ossia come difensore centrale, ma basta poco ad accorgersi che, come un pedone negli scacchi, può muoversi sempre e solo più avanti, fino al ruolo di prima punta. Bastano la prima stagione dedicata esclusivamente al calcio e grappoli di gol ad attirare le grandi d’Argentina, tra cui il Boca Juniors, da cui viene scartato perché considerato carente sia in potenza che in velocità, non proprio le prime qualità che oggi gli negheremmo.
Il gran rifiuto degli Xeneizes fa pensare più di una volta al giovane Lauti di smettere con il calcio e cominciare a lavorare per aiutare economicamente la famiglia, in condizioni di indigenza come moltissimi nuclei familiari argentini. Il padre, detto Pelusa, ha infatti smesso di giocare a calcio da qualche anno – è stato un esterno nella seconda divisione argentina – e i soldi cominciano a scarseggiare. Ma è la famiglia stessa, in particolare i fratelli Alan e Jano, a spronare Lautaro a continuare.
Qualche settimana dopo, durante un allenamento, lo nota casualmente Fabio Radaelli, direttore del settore giovanile del Racing de Avellaneda. Venuto a conoscenza del fatto che il ragazzo avrebbe sostenuto nei giorni successivi due provini, uno con il River Plate e l’altro con il Vélez, chiama il presidente Gastón Cogorno e lo convince a prendere il ragazzo.
Il bahiense si trasferisce dunque al Racing, dove si impone fin da subito come uno dei migliori calciatori a livello giovanile, segnando 26 gol in altrettante partite nella prima stagione. Oltre alla buona tecnica unita ad una forza fisica innata, nonostante la statura non eccelsa – solo 174 cm – Lautaro Martínez ha convertito gli insegnamenti di tanti anni di basket in movimenti senza palla poco prevedibili dai difensori, lasciando a questi la vista della sua ombra, il soffio di vento del suo passaggio, e mai la presa del suo corpo.
Il 31 ottobre 2015, al Cilindro di Avellaneda, il talentino mette inchiostro su un’altra pagina della sua storia. A dieci minuti dalla fine della sfida di campionato con il Crucero, il Racing conduce per 3-0 grazie a una doppietta dell’idolo del tifo racinguistas, il Principe Diego Alberto Milito, cresciuto nelle giovanili e tornato da profeta in patria dopo esser entrato nella leggenda in Europa. Il tecnico Diego Cocca decide di concedergli una standing ovation e al suo posto debutta il diciottenne Lautaro Martínez. Il Torito non sa ancora che il suo futuro sarà indirizzato dal passato di chi gli ha lasciato il posto in campo.
Al di là di alcune intemperanze disciplinari – sulle quali successivamente lavorerà anche attraverso la terapia con uno psicologo – come l’espulsione nella sua terza partita in prima squadra, ad essere in evidenza è soltanto il lato tecnico di Lautaro, e nell’estate del 2016 il Real Madrid gli offre un contratto con il Castilla, la seconda squadra dei Blancos. L’attaccante rifiuta, poiché andare a giocare in una seconda squadra sarebbe stato, secondo lui, un passo indietro.
E infatti, con l’arrivo in panchina di Ricardo Zielinski, la titolarità arriva. Il 19 ottobre 2016 segna la prima rete, contro l’Huracàn, e alla fine dell’annata sono 9 i gol in 23 presenze, cifre che dopo un anno fanno drizzare le antenne all’altra metà di Madrid, quella colchonera, che va molto più vicina al bersaglio, prima che tra le parti si frapponga proprio Diego Milito, appena ritiratosi e subito inserito nei quadri dirigenziali del Racing.
Il Principe lo convince a restare in Argentina una stagione in più, garantendogli che nell’annata successiva sarebbe arrivato il salto nel grande calcio europeo. Lautaro si fida del suo mentore e gioca un’altra annata da protagonista assoluto con il Racing, mettendo a referto 18 gol in 28 presenze e diventando il leader sia tecnico che carismatico del club di Avellaneda, come certificano le cinque partite con la fascia da capitano al braccio.
Dei 18 gol stagionali, 5 sono arrivati nelle 6 gare del girone di Libertadores
Nel gennaio 2018, in piena sessione invernale di calciomercato, le squadre maggiormente interessate a Martínez sono il Borussia Dortmund e l’Inter. Nonostante i vari assalti da parte dei tedeschi, nella primavera del 2018 il Toro diventa un calciatore nerazzurro, per una cifra vicina ai 25 milioni di euro. Con il suo fondamentare ruolo di consigliere nella trattativa, Milito fa un ultimo grande regalo al tifo interista.
L’arrivo a Milano
La società meneghina crede in lui sin da subito, e il Toro risponde con personalità, chiedendo la maglia numero dieci e iscrivendosi di conseguenza nello stesso filone di Ronaldo, Baggio, Adriano e Sneijder.
Quando ad agosto si gioca l’amichevole Atlético Madrid-Inter al Metropolitano, Lautaro ha da poco disfatto i bagagli, ma Luciano Spalletti decide di schierarlo subito nel suo 4-2-3-1, come trequartista alle spalle di Mauro Icardi. Al 31’ minuto l’attaccante di Bahía Blanca sfrutta un perfetto cross di Asamoah e in semirovesciata batte Oblak. Ironia della sorte, Lautaro Martínez si presenta alla grande ai nuovi tifosi nella stessa città in cui il suo mentore, il Principe Milito, è diventato Re.
Quando inizia il campionato però, le cose cambiano: il titolare fisso dell’attacco nerazzurro è capitan Icardi, e nel dogma tattico spallettiano non c’è posto per due attaccanti. Gioca soprattutto spezzoni, riuscendo con il passare del tempo a sfoderare prestazioni sempre più convincenti, come l’assist per lo stesso Icardi nell’1-1 contro il Barcellona in Champions League e soprattutto la rete che decide Inter-Napoli del 26 dicembre 2018, nell’unico Boxing Day nella storia del campionato italiano.
A febbraio Lauti ha messo a segno 4 gol, ma la revoca della fascia a Icardi e il conseguente ostracismo del tecnico toscano gli porgono le chiavi dell’attacco nerazzurro. Paradossalmente da titolare segna soltanto due reti da febbraio a maggio, ma una di queste arriva nel suo primo derby della Madonnina e risulta fondamentale per il controsorpasso sui rossoneri e la qualificazione alla successiva Champions League.
L’imposizione nerazzurra con Antonio Conte
Nella stagione 2019/2020 l’Inter decide di rivoluzionare la squadra, affidando la panchina ad Antonio Conte e sostituendo Icardi, ormai in rotta con il club, con Romelu Lukaku. L’allenatore salentino mette sin da subito il Toro al centro del progetto, schierandolo nel suo 3-5-2 accanto al belga. Con Big Rom sviluppa velocemente una grande intesa, giocano come una coppia collaudata da una vita: nasce così la LuLa.
Difficilmente si era vista nel calcio moderno una coppia tanto istantaneamente affiatata, capace di segnare a fine stagione 55 gol tra campionato e coppe, e di far sognare tutto il popolo nerazzurro dopo anni di magra. Lauti segna 21 gol in tutte le competizioni, e la sua capacità di cogliere lo spazio in cui in cui Romelu lo servirà, e viceversa, sembra avere un qualcosa di mistico.
Negli schemi di Conte, Lautaro Martínez non rappresenta il classico attaccante veloce e brevilineo, spesso poco concreto, da affiancare al finalizzatore vero e proprio: la sua mobilità non sacrifica la sua efficacia. L’argentino è una punta di razza, bravo non solo negli ultimi sedici metri, ma anche da fuori area. È particolarmente abile a calciare a giro sul secondo palo, ma anche nel colpo di testa grazie a un’elevazione fuori dal comune, frutto probabilmente della sua esperienza sotto canestro.
Nonostante la grande annata della coppia d’attacco nerazzurra, l’Inter chiude al secondo posto in campionato dietro la Juventus di Maurizio Sarri e con un’amara finale di Europa League persa contro il solito Siviglia.
L’annata 2020/2021 è per Lautaro Martínez quella della conferma: in campionato mette a referto 17 gol – 3 in più rispetto all’anno prima – e 10 assist per i compagni – il doppio in relazione al campionato precedente –, sublimando il rapporto col suo partner in crime Romelu Lukaku.
Le reti più importanti della stagione sono probabilmente le due messe a segno nel 3-0 rifilato al Milan – la prima di testa su un cross dell’amico belga, la seconda a termine di una bellissima azione –, in un derby che di fatto consente all’Inter di prendere il largo sui cugini e sulle altre inseguitrici, andando a vincere, dopo undici lunghi anni, il tanto agognato scudetto, il primo trofeo del suo palmarès.
La magica prima parte di 2021 del Toro però non finisce qui. In estate la sua Argentina va a giocare la Copa América rinviata l’anno precedente. Lautaro gioca tutte le partite da titolare partendo un po’ in sordina, ma tre gol tra gironi, ottavi e quarti di finale spingono l’Albiceleste verso l’ultimo ostacolo, che si chiama Brasile. Nell’atto finale, il Dio del calcio riserva ai verdeoro un altro Maracanazo – anche se infinitamente meno doloroso e disastroso rispetto a quello del 1950. L’Argentina supera per 1-0 gli avversari con un morbido pallonetto del Fideo Di María, spezzando la maledizione di Leo Messi – assoluto protagonista della spedizione – e vincendo un trofeo che mancava dal 1993.
I progressi europei
Lautaro torna dunque a Milano da campione d’Italia e d’America, ma trovandosi in un Appiano Gentile dalle porte particolarmente girevoli. Il condottiero Antonio Conte e due dei suoi più fidati scudieri per la vittoria del titolo, Hakimi e lo stesso Lukaku, hanno salutato la Pinetina, e lui stesso deve smarcarsi dalle voci di un passaggio al Tottenham, disintegrate da un rinnovo di contratto cercato in prima persona.
Inevitabilmente, nella nuova Inter di Simone Inzaghi, il Toro diventa la stella polare dell’attacco nerazzurro. Per sostituire Lukaku la società affida la maglia numero nove a Edin Džeko, appena arrivato dalla Roma, rivelatosi un ottimo partner di Lautaro soprattutto nella prima parte di stagione. E il diez non tradisce le aspettative dal punto di vista realizzativo: batte infatti il suo record stagionale di gol, andando a segno ben 25 volte, di cui 21 in Serie A.
È trascinata dai suoi gol che l’Inter sembra volare a vele spiegate verso il secondo tricolore consecutivo: nelle prime 18 partite Lautaro va a segno per ben 11 volte, contribuendo al simbolico titolo d’inverno. Dalla diciannovesima alla ventottesima, però, la vena realizzativa del Toro improvvisamente si esaurisce. Non è il suo primo blackout prolungato in carriera, è però uno dei suoi più critici, nove partite di pura frustrazione.
Le cause di questi ripetuti assenteismi nella carriera di Lauti si possono ricercare in una personalità ancora parecchio umorale, ma anche nel suo nuovo partner d’attacco. Džeko, pur essendo un attaccante associativo, tutt’altro che egoista e tecnicamente notevole, va comunque per i 36 anni e a quell’età la tenuta fisica ad un certo punto della stagione tende a calare notevolmente, costringendo Lautaro ad un maggior dispendio di energie e un conseguente abbassamento della lucidità sotto porta.
È l’Inter in generale a incepparsi, e in quasi due mesi vince solo contro la Salernitana, buttando punti preziosissimi – tra cui quelli decisivi nel derby di ritorno – a vantaggio del Milan, che a fine anno scucirà il tricolore alla squadra di Inzaghi.
I nerazzurri possono comunque parzialmente consolarsi con due trofei, la Coppa Italia e la Supercoppa italiana. Nel primo caso Martínez segna una doppietta al Milan nella semifinale di ritorno, procurandosi anche il rigore del 2-2 nella finale di Roma contro la Juventus, mentre in Supercoppa, sempre contro i bianconeri, mette a segno il penalty del pareggio, che tiene in vita l’Inter prima del gol decisivo di Alexis Sánchez. Oltre a questo, la squadra registra l’accesso alla fase ad eliminazione diretta della Champions League dopo dieci anni, uscendo agli ottavi contro la futura finalista Liverpool – che riesce anche a battere ad Anfield, con un super gol proprio di Lautaro Martínez, un terrificante destro di punta da fuori che riapre la partita per il poco tempo sufficiente a Sánchez a prendere un secondo giallo. Un’uscita agrodolce che fa da manifesto all’intera stagione.
L’annata della svolta
La stagione 2022/2023 è probabilmente finora la più intensa della sua carriera, piena di grandi vittorie e grandi sconfitte, quella della formazione di una consapevolezza fuori dal comune che fissa di diritto il suo nome nel firmamento del calcio mondiale. Poco o niente di quello che succederà avrebbe avuto una qualche prevedibilità nell’estate 2022, a partire dal ritorno a sorpresa di Lukaku, che permette all’Inter di riformare la coppia d’attacco scudettata di appena due anni prima. Se l’intesa sembra già ritrovata nelle primissime uscite ufficiali, in definitiva la LuLa 2.0 non sarà che uno scrauso reboot di quella precedente, con una sua conclusione se possibile ancora più acida, che ha il suono di un telefono lasciato squillare.
Il belga rimedia una rottura del tendine del flessore già ad agosto, forzando Lautaro a riabituarsi alla sua assenza e lavorare ancor più di reparto. L’inizio di campionato è anche per questo molto complesso per i nerazzurri, con Džeko e Correa decisamente incapaci di riparare all’assenza di colui che sembrava essere un investimento sicuro. L’Inter che approccia la stagione pare emozionale e squilibrata, concedendosi però un bagliore non da poco in ottobre: il passaggio del turno nel girone di Champions, con il fondamentale doppio snodo andata-ritorno contro il Barcellona.
È in particolare il match del Camp Nou a mostrare una forza nascosta e forse inaspettata dei nerazzurri, che poi sprizza nel resto nel cammino europeo. Lautaro rianima un ricordo di sé stesso ammutolendo come tre anni prima il tempio blaugrana, e portando momentaneamente in vantaggio i suoi; questa volta non con la sgasata – veramente taurina – che aveva costretto Piqué a stare incollato e impotente a guardare il suo sinistro incrociato in rete, bensì attraverso una sublime sequenza di movimenti, fatta di stop orientato con cui liquida Eric García e destro lapidario che gioca a flipper con i pali e poi, finalmente, entra in porta.
La stagione, per l’Inter e Lautaro, da lì in poi potrebbe assumere contorni paradisiaci, invece ne avrà di paradossali. Il Mondiale in Qatar irrompe in medias res, come un ospite mai visto che ha già annunciato la sua visita. La Selección argentina vi si approccia con il solito grande sogno: regalare la benedetta Coppa del Mondo a Messi, concludendo la sceneggiatura di un kolossal calcistico attesissimo.
Le aspettative per Lautaro sono alte: la sua rilevanza nella Copa América vinta e la sua ottima media realizzativa nell’Albiceleste portano naturalmente a vederlo centravanti titolare, come figura nell’esordio contro l’Arabia Saudita. Il debutto rappresenta però il peggior inizio possibile, con la clamorosa rimonta saudita e un gol annullato al Toro per un fuorigioco millimetrico; è anche l’ultima presenza da titolare nel Mondiale, con Julian Álvarez che immediatamente lo scavalca nelle gerarchie a suon di gol dal rilevante peso specifico.
Per avere un quadro completo della situazione, è corretto sottolineare che Lautaro Martínez arriva alla rassegna iridata in condizioni davvero precarie, con un problema alla caviglia che lo ha costretto ad un mese di infiltrazioni per poter reggersi in piedi. Questo anche perché, a differenza della maggior parte dei suoi colleghi che hanno più o meno evidentemente tirato il freno a meno, il nativo di Bahía Blanca non ha mai risparmiato nemmeno una goccia di sudore nella prima parte di stagione, dimostrandosi un atleta modello in nerazzurro nonostante la follia del Mondiale invernale.
Sta di fatto che, mentre l’Argentina percorre la scalinata della gloria, il suo numero ventidue si accomoda in panchina per guardarla da lontano. Tranne quando serve, e quando serve risponde. Perché è pur sempre lui a calciare il rigore che chiude la serie contro la tostissima Olanda di Louis van Gaal, ed è anche lui a propiziare il settimo e ultimo gol di un Leo Messi trasmutatosi in divinità, al 108’ dell’atto finale, quando riceve un passante perfetto da Enzo Fernández e scaraventa un destro violento ma centrale che Lloris respinge sulla Pulga. È in questa azione la dualità del suo Mondiale, la sensazione di amnesia della propria letalità davanti alla porta, che inevitabilmente slega il suo nome dal ricordo immediato della vittoria finale, che però al tempo stesso purifica da ogni scoria e anzi, inonda di felicità anche chi è costretto a fare da sparring partner.
Tornato in Italia con ancora i coriandoli addosso, come tutti i suoi compagni di Nazionale Lautaro si ritrova davanti alla preannunciata novità: jobs’s not finished, si stagliano anzi all’orizzonte dei mesi fittissimi. L’Inter ha ancora in mente di poter insidiare il Napoli per lo scudetto, così come spera di prolungare il suo cammino in Champions e Coppa Italia. E il soldato Lauti risponde presentissimo, segnando 6 gol nelle prime 8 partite dal rientro, decidendo en passant il derby della Madonnina – non per l’ultima volta. Sono gol che però non guariscono dall’altalena di risultati in Serie A i nerazzurri che, intenzionalmente o inerzialmente, dirottano le loro ambizioni altrove.
Nel grande cammino interista nel calcio di gala europeo, Lautaro Martínez questa volta è tutt’altro che controfigura: segna al Benfica e nell’ennesimo derby della stagione, regalando, al minuto 74, una nuova perla di iconicità per la storia dell’Inter: riceve la palla protetta sapientemente da Lukaku, e con un sinistro ravvicinato lascia cadere a terra uno sconsolato Mike Maignan, mentre lo trafigge alle spalle. Ha appena chiuso un doppio confronto storico con il Milan, sigillato l’arrivo in finale di Champions per l’Inter e, poiché grandezza chiama grandezza, scatta verso la Curva Nord, si erge sulle barriere che delimitano la zona dei fotografi e si fonde con l’immenso pandemonio che ha innestato.
Ma l’incantesimo delle finali vinte per il Toro, dopo quella Mondiale e ancora una volta quelle di Coppa Italia e Supercoppa italiana – in cui, esattamente come l’anno prima, dà delle incornate decisive –, si esaurisce nell’asperrima notte di Istanbul. Il gol di Rodri a poco più di venti minuti dalla fine è la separazione tra un Manchester City che entra nella leggenda e un’Inter oltreumana, che si fa beffe della paura e dello sfavore del pronostico ma resta comunque sopraffatta.
Lautaro chiude in lacrime la stagione più pregna della sua vita, ma senza rimpianti e con la pura voglia di tornare, a forza di incornate, a scrivere pagine della sua storia. E di quella dell’Inter, scegliendo di sistemarsi nell’Olimpo del club, rifiutando le montagne d’oro saudite e prendendosi la fascia da capitano, ora del tutto sua, per brillare come la stella più luminosa nelle notti luccicanti dell’Inter.
Due stelle illuminano le notti nerazzurre
È con quella fascia al braccio che si compie un’ennesima stagione da incorniciare e un ennesimo passettino in avanti nella nascita di un fuoriclasse del calcio mondiale. L’Inter parte all’alba del campionato con un piano per nulla celato: dopo una poderosa campagna europea che non ha lasciato trofei ma una ferrea sicurezza nelle capacità del gruppo, il focus adesso è tutto diretto sul riportare a casa un tricolore dal gusto speciale, il ventesimo che corrisponderebbe alla tanto agognata seconda stella, 58 anni dopo la prima decade di successi.
I primi risultati confermano in maniera lapidaria questo desiderio: prime cinque tutte vinte, con dentro un derby stradominato per 5-1 e già cinque gol per Lautaro, e neanche qualche intoppo come la sconfitta e il pareggio in casa con Sassuolo e Bologna incrina sensibilmente le certezze nerazzurre. L’Inter marcia a ritmi impressionanti, tenendo a distanza una Juventus tornata particolarmente costante in questa prima metà di campionato, e proprio nel primo scontro diretto allo Stadium è il Toro a trovare un famelico anticipo su Gatti nell’area piccola che fissa sull’1-1 il tabellino.
Nel girone di ritorno, poi, i bianconeri si affievoliscono progressivamente, e con un Milan mai seriamente in grado di inserirsi nella lotta, l’Inter si ritrova lo scudetto alla fine di un’autostrada enorme che percorre da sola, tanto da far risorgere velleità continentali. Agli ottavi di Champions è toccato l’Atlético Madrid, nemico insidioso ma perfettamente battibile da una formazione così poco scalfita fino a quel momento. La gara d’andata lo mostra palesemente, ma l’Inter riesce a prevalere in maniera troppo risicata, grazie peraltro a un suicidio difensivo dell’Atleti che regala la rete ad Arnautović, e nel ritorno i ragazzi di Simeone si mescolano simbioticamente a un infernale atmosfera del Metropolitano rimontando un doppio svantaggio – dato dall’iniziale 0-1 di Dimarco – e portando il confronto ai rigori. Qui, con già una situazione resa disperata dagli errori di Alexis Sánchez e Klaassen, Lautaro pone la pietra tombale sulla gara, scagliando alle stelle il quinto penalty con una conclusione di baggiana memoria.
La grande delusione di una eliminazione inaspettata si può compensare soltanto tornando a fare il proprio lavoro nei confini italiani: l’Inter e il suo capitano rimettono presto la testa bassa per chiudere la questione della seconda stella, tanto più che si presenta una collisione astrale da sogno puro: vincerla e raggiungerla prima del Milan proprio contro i rossoneri.
L’1-2 nel derby di ritorno firmato Acerbi-Thuram completa il delitto perfetto della banda di Inzaghi, scudettati con cinque giornate d’anticipo in faccia agli eterni rivali, e così il 19 maggio 2024 Lautaro Martínez solleva, stavolta per primo e in un San Siro pulsante, il suo secondo scudetto con l’Inter, preso con la forza di 24 gol che certificano anche il suo primo titolo di capocannoniere in Italia e in carriera; tra l’arcobaleno di Bergamo e il siluro scagliato con il Bologna, aiutato anche dalla nuova spalla offensiva transalpina, il dieci dell’Inter continua la sua ascesa imperturbabile.
È quasi un anno replay del 2021, il 2024, se è vero che si chiude con l’accoppiata Serie A-Copa América in bacheca. In un certo senso si tratta di una versione migliorata di quel precedente, perché se si è già detto dalla centralità totale nell’attacco nerazzurro, è forse ancor più clamorosa quella che assume nella rassegna continentale.
Lautaro parte dietro Julián Álvarez nelle gerarchie, ma costruisce pezzettino per pezzettino il suo ruolo da protagonista assoluto, sfruttando al massimo le occasioni che gli vengono date. Segna quattro gol nella fase a gironi: chiude la gara d’esordio contro il Canada e decide le due successive contro Cile e Perù – quest’ultima con una doppietta. Ma la firma più importante è l’ultima dell’intero torneo, quella che fredda la Colombia al 118′, permettendo all’Argentina di conquistare la sua sedicesima Copa América.
Il momento che segue la rete è già immensamente artistico: Lautaro corre verso Messi, uscito in lacrime per infortunio, ancora con gli occhi lucidi in un abbraccio che sa di rassicurazione. Il ragazzo che aveva riempito di elogi nel 2020 gli ha mostrato eloquentemente di avere la stoffa per guidare la sua Albiceleste.
Queste reti lo hanno catapultato tra i dieci migliori marcatori nella storia della Nazionale argentina: Lautaro ha già messo a segno 30 gol con la Selección, più di campionissimi come Kempes, Riquelme, Caniggia, Tévez e Palermo. Inoltre, grazie alle reti realizzate in nerazzurro nella prima parte della stagione 2024/2025, è diventato il miglior marcatore straniero nella storia dell’Inter, anche qui tra i primi dieci di sempre. Insomma, Lautaro a suon di gol e giocate ha già scritto la storia della sua Nazionale e della sua Inter, consapevole di poter ancora incidere per tanti anni e rendere sé stesso una figura ancor più importante di quanto non sia già diventato.
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