Lautaro Martínez

Lautaro Martínez, el Toro de Bahía Blanca

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Uno sportivo natio di Bahía Blanca si trova quasi obbligato a scegliere nella sua vita tra due discipline: calcio o basket. La città è infatti considerata la capitale della pallacanestro argentina, avendo dato i natali ad un grandissimo cestista come Manu Ginóbili, finora l’unico argentino ad aver vinto un titolo NBA, ma anche ad ottimi calciatori come Rodrigo Palacio. Quando Mario Martínez chiede il verdetto a suo figlio Lautaro – nato proprio lì il 22 agosto 1997 –, il ragazzo sceglie lo sport meno popolare in città. È così che a 15 anni, dopo essersi diviso equamente tra lunetta ed area di rigore, il suo viaggio parte dal Club Atlético Liniers.


Idolo di Avellaneda, con Milito nel destino

La carriera da calciatore di Lautaro Javier Martínez inizia nell’antitesi del suo futuro, ossia come difensore centrale, ma basta poco ad accorgersi che, come un pedone negli scacchi, può muoversi sempre e solo più avanti, fino al ruolo di prima punta. Nella sua prima stagione dedicata esclusivamente al calcio segna gol a grappoli, facendosi notare dalle grandi d’Argentina, tra cui il Boca Juniors, da cui viene scartato perché, secondo i dirigenti, carente sia in potenza che in velocità, ironicamente non tra le sue prime qualità che oggi gli negheremmo.

Il gran rifiuto degli Xeneizes fa pensare più di una volta al giovane Lauti di smettere con il calcio per cominciare a lavorare ed aiutare la famiglia in difficoltà economiche. Papà Mario detto Pelusa, soprannome giovanile dato anche a Maradona, ha smesso di giocare a calcio da qualche anno – è stato un esterno nella seconda divisione argentina – e i soldi cominciano a scarseggiare. Nonostante questo, tutta la famiglia, in particolare i fratelli Alan e Jano, spronano Lautaro a continuare.

Qualche settimana dopo, durante un allenamento con il Liniers, lo nota per caso Fabio Radaelli, il direttore del settore giovanile del Racing de Avellaneda. Venuto a conoscenza del fatto che il ragazzo avrebbe sostenuto nei giorni successivi due provini, uno con il River Plate e l’altro con il Vélez, chiama l’allora presidente Gastón Cogorno e cerca di convincerlo a prendere il ragazzo.

Cogorno, inizialmente riluttante, dice sì, fidandosi delle capacità di scouting di Radaelli, e la sua scoperta si impone subito come uno dei migliori a livello giovanile, segnando 26 gol in altrettante partite nella prima stagione. Oltre alla buona tecnica unita ad una forza fisica innata, nonostante la statura non eccelsa – solo 174 cm – Lautaro Martínez ha convertito gli insegnamenti di tanti anni di basket in movimenti senza palla poco prevedibili dai difensori, lasciando a questi la vista della sua ombra, il soffio di vento del suo passaggio, e mai la presa del suo corpo.

Il 31 ottobre 2015, al Cilindro di Avellaneda, il talentino mette inchiostro su un’altra pagina della sua storia. A dieci minuti dalla fine della sfida di campionato col Crucero del Norte, il Racing conduce per tre a zero, grazie ad una doppietta dell’idolo dei tifosi, il Principe Diego Milito, cresciuto nelle giovanili e tornato da profeta in patria, dopo esser entrato nella leggenda in Europa. Il tecnico Diego Cocca decide di sostituirlo per concedergli una standing ovation dopo la doppietta, e al suo posto debutta il diciottenne Lautaro Martínez, in quello che pare un plateale passaggio di consegne. In effetti il Torito, soprannome affibbiatogli nelle giovanili per la sua forza e grinta, non sa ancora che il suo futuro sarà indirizzato dal passato di chi gli ha lasciato il posto in campo.

Al di là di alcune intemperanze disciplinari – sulle quali successivamente lavorerà anche con degli psicologi – come l’espulsione nella sua terza partita in prima squadra, ad essere in evidenza è soltanto il lato tecnico di Lautaro, e nell’estate del 2016 il Real Madrid gli offre un contratto con il Castilla, la seconda squadra dei Blancos. L’attaccante rifiuta, in quanto andare a giocare in una seconda squadra sarebbe stato, secondo lui, un passo indietro.

E infatti, con l’arrivo in panchina di Ricardo Zielinski, la titolarità arriva. Il 19 ottobre 2016 segna la prima rete, contro l’Huracàn, e alla fine della stagione il giovane di Bahía Blanca totalizzerà 27 presenze e 8 gol, cifre che dopo un anno fanno drizzare le antenne all’altra metà di Madrid, quella Atleti, che va molto più vicina al bersaglio, prima che tra le parti si frapponga Diego Milito, appena ritiratosi e subito inserito nei quadri dirigenziali del Racing.

Il Principe lo convince a restare in Argentina una stagione in più, garantendogli che nell’annata successiva arriverà il salto nel calcio che conta. Lautaro si fida del suo mentore e gioca un’altra annata da protagonista assoluto con il Racing, mettendo a segno 18 gol in 27 presenze e diventando il leader sia tecnico che carismatico del club di Avellaneda, come certificano le cinque partite che gioca con la fascia da capitano.

Nel gennaio 2018, in piena sessione invernale di calciomercato, le squadre maggiormente interessate a Martínez sono il Borussia Dortmund e l’Inter. Nonostante i vari assalti da parte dei tedeschi, nella primavera del 2018 il Toro diventa un calciatore nerazzurro, per una cifra vicina ai 25 milioni di euro. Il ruolo di Milito, a cui Ausilio chiede un aiutino nella trattativa, è forse il suo ultimo grande regalo al tifo interista: fin da quando Diego e Lauti giocavano insieme, il primo aveva sempre detto al secondo cosa significasse indossare quella maglia, oltre che delle personali e leggendarie pagine di storia nerazzurre, convincendo il ragazzo ad andare a Milano.


L’arrivo a Milano

La società meneghina crede in lui sin da subito, e il Toro risponde con personalità, chiedendo la maglia numero dieci, iscrivendosi nello stesso filone di Ronaldo, Baggio, Adriano e Sneijder.

L’11 agosto 2018, allo stadio Wanda Metropolitano, si gioca Atlético Madrid-Inter, sfida valevole per l’International Champions Cup, Lautaro è appena arrivato ma Luciano Spalletti decide di schierarlo subito nel suo 4-2-3-1, come trequartista alle spalle di Mauro Icardi. Al 31’ minuto l’attaccante di Bahía Blanca sfrutta un perfetto cross di Asamoah e in semirovesciata batte Oblak. Ironia della sorte, Lautaro Martínez si presenta alla grande ai nuovi tifosi nella stessa città in cui il suo mentore, il Principe Milito, è diventato Re.

Quando inizia il campionato però, le cose cambiano: il titolare fisso dell’attacco nerazzurro è capitan Icardi, e nel dogma tattico spallettiano non c’è posto per due attaccanti. Gioca soprattutto spezzoni, riuscendo con il passare del tempo a sfoderare prestazioni sempre più convincenti, come l’assist per lo stesso Icardi nell’1-1 contro il Barcellona in Champions League e soprattutto la rete che decide Inter-Napoli del 26 dicembre 2018, nell’unico Boxing Day nella storia del campionato italiano.

A febbraio Lauti ha messo a segno 4 gol, ma la revoca della fascia a Icardi e il conseguente ostracismo del tecnico toscano gli porgono le chiavi dell’attacco nerazzurro. Paradossalmente da titolare segna soltanto due volte da febbraio a maggio, ma uno di questi è il suo primo nel Derby della Madonnina, e permette il relativo controsorpasso sui rossoneri in classifica, fondamentale per la qualificazione alla successiva Champions League.


L’imposizione nerazzurra con Antonio Conte

Nella stagione 2019/2020 l’Inter decide di rivoluzionare la squadra, affidando la panchina ad Antonio Conte e sostituendo Icardi, ormai in rotta con il club, con Romelu Lukaku. L’allenatore salentino sin da subito mette il Toro al centro del progetto, schierandolo nel suo 3-5-2 in coppia con l’attaccante belga. I due velocemente mostrano una grande intesa e sembra che giochino insieme da una vita: nasce così la LuLa.

Difficilmente si era vista nel calcio moderno una coppia tanto istantaneamente affiatata, capace di segnare a fine stagione 55 gol tra campionato e coppe, e di far sognare tutto il popolo nerazzurro dopo anni di magra. Lauti segna 21 gol in tutte le competizioni, e la sua capacità di cogliere lo spazio in cui in cui Romelu lo servirà, e viceversa, sembra avere un qualcosa di mistico.

Negli schemi di Conte, Lautaro Martínez non rappresenta il classico attaccante veloce e brevilineo, spesso poco concreto, da affiancare al finalizzatore vero e proprio: la sua mobilità non sacrifica la sua efficacia. L’argentino è una punta di razza, bravo non solo negli ultimi sedici metri, ma anche da fuori area. È particolarmente abile a calciare a giro sul secondo palo, ma anche nel colpo di testa grazie a un’elevazione fuori dal comune, frutto probabilmente della sua esperienza sotto canestro.

Durante il primo anno del tecnico pugliese, Lautaro comincia a prendere confidenza con il proscenio e le luci della ribalta, se è vero che anche Lionel Messi sente il bisogno di esprimersi su di lui: «È spettacolare, ha qualità impressionanti, si vedeva che sarebbe diventato un gran giocatore, ora è esploso e lo sta dimostrando». Ma non manca la malizia nel collegare queste dichiarazioni alle voci riguardanti un suo eventuale passaggio al Barcellona, che per un buon periodo di tempo sembrano condizionarlo, soprattutto mentalmente. Il numero dieci nerazzurro riemerge con gran verve nella fase estiva del campionato, simbolicamente contro il Napoli, quando fa partire da quasi trenta metri un gran destro che si insacca alle spalle di Meret, ed esulta mimando polemicamente con la mano le chiacchiere che lo circondano.

Se la lotta Scudetto interista si squaglia tra allucinanti punti buttati, il cammino in Europa League, in cui un Lautaro Martínez risanato contribuisce alla grande, riaccende i sogni dei tifosi, fino alla crudele sconfitta in finale con il mefistofelico Siviglia, padrone della competizione.



La stagione 2020/2021 è per Lautaro Martínez quella della conferma: in campionato mette a referto 17 gol – 3 in più rispetto all’anno prima – e 10 assist per i compagni – il doppio in relazione al campionato precedente – sublimando il rapporto col suo partner in crime Romelu Lukaku.

Tra le tante reti da lui realizzate in questa annata, le più importanti sono probabilmente le due messe a segno nel 3-0 rifilato al Milan – la prima di testa su un cross di Romelu Lukaku, la seconda a termine di una bellissima azione della squadra nerazzurra –, in un Derby che di fatto consente all’Inter di prendere il largo sui cugini e sulle altre inseguitrici, andando a vincere, dopo undici lunghi anni, il tanto agognato Scudetto, il primo trofeo del suo palmarès.

La magica prima parte di 2021 del Toro però non finisce qui. In estate la sua Argentina va a giocare la Copa América rinviata l’anno precedente, in una situazione ancora sanitariamente drammatica per il Sud America. Lautaro gioca tutte le partite da titolare partendo un po’ in sordina, ma tre gol tra gironi, ottavi e quarti di finale spingono l’Albiceleste verso l’ultimo ostacolo, che si chiama Brasile. Nell’atto finale, il Dio del calcio riserva ai verdeoro un altro Maracanazo – anche se infinitamente meno doloroso e disastroso di quello storico del 1950. L’Argentina supera per 1-0 gli avversari con un morbido pallonetto del Fideo Di María, spezzando la maledizione di Leo Messi – assoluto protagonista della spedizione – e vincendo un trofeo che mancava dal 1993.


I progressi europei

Lautaro torna dunque a Milano da campione d’Italia e d’America, ma trovandosi in un Appiano Gentile dalle porte particolarmente girevoli. Il condottiero Antonio Conte e due dei suoi più fidati scudieri per la vittoria del titolo, Achraf Hakimi e Romelu Lukaku, hanno salutato la Pinetina, e lui stesso nel mese d’agosto viene abbracciato dalle voci di mercato, che lo vedono vicino al Tottenham, ma tramite il suo agente mette in chiaro di non avere intenzione di lasciare l’Inter, e anzi spinge per il rinnovo del contratto con la Beneamata.

Inevitabilmente, nella nuova Inter di Simone Inzaghi, il Toro diventa la stella polare dell’attacco nerazzurro. Per sostituire Lukaku la società affida la maglia numero nove a Edin Džeko, appena arrivato dalla Roma, rivelatosi un ottimo partner di Lautaro soprattutto nella prima parte di stagione. E il diez non tradisce le aspettative dal punto di vista realizzativo: batte infatti il suo record stagionale di gol, andando a segno ben 25 volte, di cui 21 in Serie A.

È trascinata dai suoi gol che l’Inter sembra volare a vele spiegate verso il secondo tricolore consecutivo: nelle prime 18 partite Lautaro va a segno per ben 11 volte, contribuendo al simbolico titolo d’inverno. Dalla diciannovesima alla ventottesima, però, la vena realizzativa del Toro improvvisamente si esaurisce. Non è il suo primo blackout prolungato in carriera, è però uno dei suoi più critici, nove partite di pura frustrazione.

Le cause di questi ripetuti assenteismi nella carriera di Lauti si possono trovare nella sua personalità parecchio umorale, per cui quando non trova il gol si innervosisce facilmente, sbagliando anche il più semplice dei tap-in; ma anche nel suo nuovo partner d’attacco. Džeko, pur essendo un attaccante associativo, tutt’altro che egoista e tecnicamente notevole, va comunque per i 36 anni e a quell’età la tenuta fisica ad un certo punto della stagione tende a calare notevolmente – costringendo Lautaro ad un maggior dispendio di energie e un conseguente abbassamento della lucidità sotto porta.

È l’Inter in generale a incepparsi, e in quasi due mesi vince solo contro la Salernitana, buttando punti preziosissimi – tra cui quelli decisivi nel Derby di ritorno contro il Milan – a vantaggio dei rossoneri, che a fine anno scuciranno il tricolore alla squadra di Simone Inzaghi.

I nerazzurri possono comunque parzialmente consolarsi con due trofei, la Coppa Italia e la Supercoppa italiana. Nel primo caso Martínez segna una doppietta al Milan nella semifinale di ritorno, procurandosi anche il rigore del 2-2 nella finale di Roma contro la Juventus. In Supercoppa, sempre contro i bianconeri, mette a segno il penalty del pareggio, che tiene in vita l’Inter prima del gol decisivo di Alexis Sánchez all’ultimo minuto dei supplementari. Oltre a questo, la squadra registra l’accesso alla fase ad eliminazione diretta della Champions League dopo dieci anni, uscendo agli ottavi contro la futura finalista Liverpool – che riesce anche a battere ad Anfield, con un super gol proprio di Lautaro Martínez, un terrificante destro di punta da fuori che riapre la partita per il poco tempo sufficiente a Sánchez a prendere un secondo giallo. Un’uscita agrodolce che fa da manifesto all’intera stagione.



L’annata più importante della sua vita

La stagione 2022/2023 è decisamente la più significativa della sua carriera, quella in cui ha vinto e perso i trofei più importanti, maturato una consapevolezza fuori dal comune e fissato di diritto il suo nome nel firmamento del calcio mondiale. Poco o niente di quello che succederà avrebbe avuto una qualche prevedibilità nell’estate 2022, a partire dal ritorno a sorpresa di Lukaku, che permette all’Inter di riformare la coppia d’attacco scudettata di appena due anni prima. Se l’intesa sembra già ritrovata nelle primissime uscite ufficiali, in definitiva la LuLa 2.0 non sarà che uno scrauso reboot di quella di due anni fa, con una sua conclusione se possibile ancora più acida, che ha il suono di un telefono lasciato squillare.

Big Rom rimedia una rottura del tendine del flessore già ad agosto, forzando Lautaro a riabituarsi alla sua assenza e lavorare ancor più di reparto. L’inizio di campionato è anche per questo molto complesso per i nerazzurri, con Džeko e Correa decisamente incapaci di riparare all’assenza di colui che sembrava essere un investimento sicuro. All’ottava giornata di A le sconfitte sono già quattro, per un’Inter che pare emozionale e squilibrata, che però da ottobre in poi inizia un percorso di risalita non particolarmente liscio, ma che permette soprattutto il passaggio del turno nel girone di Champions, col fondamentale doppio snodo andata-ritorno contro il Barcellona.

È in particolare il match del Camp Nou a mostrare una forza nascosta e forse inaspettata dei nerazzurri, che sarebbe sprizzata nel resto nel cammino europeo. In quel match Lautaro Martínez rianima un ricordo di sé stesso ammutolendo come tre anni prima il tempio blaugrana, e portando momentaneamente in vantaggio i suoi. Questa volta non con la sgasata – veramente taurina – che aveva costretto Piqué a stare incollato ma impotente a guardare il suo sinistro incrociato in rete, bensì attraverso una sublime sequenza di movimenti, fatta di stop orientato con cui liquida Eric García e destro lapidario che gioca a flipper con i pali e poi, finalmente, entra in porta.

La stagione, per l’Inter e Lautaro, da lì in poi potrebbe assumere contorni paradisiaci, invece ne avrà di paradossali. Il Mondiale in Qatar irrompe in medias res, come un ospite mai visto che ha già annunciato la sua visita, o come uno conosciutissimo che viene a trovarci alle tre di notte. La Selección argentina vi si approccia con il solito grande sogno: regalare la benedetta Coppa del Mondo a Messi, e concludere la sceneggiatura di un kolossal calcistico attesissimo.

Le aspettative per Lautaro sono alte: la sua rilevanza nella Copa América vinta e la sua ottima media realizzativa nell’Albiceleste portano naturalmente a vederlo centravanti titolare, come figura nell’esordio contro l’Arabia Saudita. Il debutto rappresenta però il peggior inizio possibile, con la clamorosa rimonta saudita e un gol annullato al Toro per un fuorigioco millimetrico; è anche l’ultima presenza da titolare nel Mondiale, con Julian Álvarez che immediatamente lo scavalca nelle gerarchie a suon di gol dal rilevante peso specifico.

Per avere un quadro completo della situazione, è corretto sottolineare che Lautaro Martínez è arrivato alla rassegna iridata in condizioni davvero precarie, con un problema alla caviglia che lo ha costretto ad un mese di infiltrazioni per poter reggersi in piedi. Questo anche perché, a differenza della maggior parte dei suoi colleghi che hanno più o meno evidentemente tirato il freno a meno, il nativo di Bahía Blanca non ha mai risparmiato nemmeno una goccia di sudore nella prima parte di stagione, dimostrandosi un atleta modello in nerazzurro nonostante la follia del Mondiale invernale.

Sta di fatto che, mentre l’Argentina percorre la scalinata della gloria, il suo numero ventidue si accomoda in panchina per guardarla da lontano. Tranne quando serve, e quando serve risponde. Perché è pur sempre lui a calciare il rigore che chiude la serie contro la tostissima Olanda di Louis van Gaal, ed è anche lui a propiziare il settimo e ultimo gol di un Leo Messi trasmutatosi in divinità, al 108’ dell’atto finale, quando riceve un passante perfetto da Enzo Fernández e scaraventa un destro violento ma centrale che Lloris respinge sulla Pulga. È in questa azione la dualità del suo Mondiale, la sensazione di amnesia della propria letalità davanti alla porta, che inevitabilmente slega il suo nome dal ricordo immediato della vittoria finale, che però al tempo stesso purifica da ogni scoria e anzi, inonda di felicità anche chi è costretto a fare da sparring partner.

Tornato in Italia con ancora i coriandoli addosso, come tutti i suoi compagni di Nazionale Lautaro si ritrova davanti alla preannunciata novità: jobs’s not finished, si stagliano anzi all’orizzonte dei mesi fittissimi. L’Inter ha ancora in mente di poter insidiare il Napoli per lo Scudetto, così come spera di prolungare il suo cammino in Champions e Coppa Italia. E il soldato Lauti risponde presentissimo, segnando 6 gol nelle prime 8 partite dal rientro, decidendo en passant il derby della Madonnina, e non sarà l’ultimo caso. Sono gol che però non guariscono dall’altalena di risultati in Serie A i nerazzurri che, intenzionalmente o inerzialmente, dirottano le loro ambizioni altrove.

Nel grande cammino interista nel calcio di gala europeo, Lautaro Martínez questa volta è tutt’altro che controfigura: segna al Benfica e nell’ennesimo Derby della stagione, regalando, al minuto 74, una nuova perla di iconicità per la storia dell’Inter: riceve la palla protetta sapientemente da Lukaku, e con un sinistro ravvicinato lascia cadere a terra uno sconsolato Mike Maignan, mentre lo trafigge alle spalle. Ha appena chiuso un doppio confronto storico con il Milan, sigillato l’arrivo in finale di Champions per l’Inter e, poiché grandezza chiama grandezza, scatta verso la Curva Nord, si erge sulle barriere che delimitano la zona dei fotografi e si fonde con l’immenso pandemonio che ha innestato.

Ma l’incantesimo delle finali vinte per il Toro, dopo quella Mondiale e ancora una volta quelle di Coppa Italia e Supercoppa italiana – in cui, esattamente come l’anno prima, dà delle incornate decisive –, si esaurisce nell’asperrima notte di Istanbul. Il gol di Rodri a poco più di venti minuti dalla fine è la separazione tra un Manchester City che entra nella leggenda e un’Inter oltreumana, che si fa beffe della paura ma resta comunque sopraffatta.

Lautaro ha chiuso in lacrime la stagione più estenuante e straordinaria della sua vita, ma senza rimpianti e con la sola, grande, voglia di tornare, a forza di incornate, a scrivere memorie della sua storia. E di quella dell’Inter, perché se anche quest’estate la squadra ha perso numerosi riferimenti storici e carismatici, Lautaro Martínez ha scelto di sistemarsi nell’Olimpo del club, rifiutando le montagne d’oro saudite e prendendosi la fascia da capitano, ora del tutto sua, per brillare come la stella più luminosa, nella notte stellata che è l’Inter.

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